venerdì 21 dicembre 2012

camminare domandando - per una nuova partita

In queste fasi concitate, anche dentro il mio partito, e non solo, penso spesso alle persone con le quali - per mia grande fortuna - passo da quattro anni gran parte del mio tempo. Molte di oggi sono in Guatemala a celebrare l'inizio del nuovo mondo. E guarda caso oggi riescono dietro i passamontagna, da Oventic a San Cristobal. Penso spesso a quello che mi hanno insegnato, e che ormai è parte di me da quando degli anziani sciamani Kuna mi hanno adottato, ed a quello che mi dicono spesso. Ad andare lentamente quando si ha fretta, a pensare sempre alle prossime sette generazioni, quando si decide di fare una cosa o intraprendere un'iniziativa politica. A capire quando stare zitto, piuttosto che parlare. A guardare oltre con dolcezza ma determinazione. Perchè sanno ascoltare i loro vecchi, ma i loro vecchi sanno come accompagnarli con saggezza verso il futuro. Perché si rispettano a vicenda. Si fermano, a volte si ritirano, riflettono, guardano dentro loro stessi o si confrontano con la loro comunità. Loro possono anche scazzare di brutto, essere in disaccordo, ma alla fine sono fratelli e sorelle, fumano, bevono assieme, e trovano il consenso per tutelare la loro comunità, proteggerla, perché l'essere fratelli e sorelle li aiuta a resistere da centinaia di anni. Quello manca in queste ore, e quello rischia di ammazzarci. Siamo ancora in tempo. La politica è soprattutto questo, non si esaurisce in un posto in Parlamento

lunedì 10 dicembre 2012

Diritti umani e dignità, l'antidoto all'orrore

Dicembre 10, 2012 - giornata mondiale sui diritti umani. Non dev'essere una celebrazione rituale ma il ricordo che senza il riconoscimento della dignità delle persone, dell' universalità ed indivisibilità dei diritti umani, senza ragionare su modalità innovative per la loro promozione che rifuggano il rischio di quello che Slavoj Zizek chiamava "L'orrore dei diritti umani", (forse provocatoriamente come suo solito, ma con un fondo di verità), non ci sarà politica, impegno, trasformazione sociale che tenga. E che sia anche occasione per ragionare sul fatto che esistono anche diritti dei non-umani, diritti di nuova generazione, che si rendono necessari o si manifestano di fronte all'avanzata della frontiera della privatizzazione e colonizzazione dei mercati.

domenica 9 dicembre 2012

Doha, porta di entrata per un futuro infernale

Il Manifesto, 9 dicembre 2012


Doha: porta di entrata per un futuro infernale.
Francesco Martone (*), Alberto Zoratti (**)


Alla fine ce l'hanno fatta. Dopo una serie di colpi di scena è stato approvato a colpi d'ariete della presidenza qatariota e sul filo del rasoio (nonostante la resistenza in zona Cesarini della Russia) il “Doha Climate Gateway”. Una porta di entrata per il futuro con l'estensione del protocollo di Kyoto, il riconoscimento del risarcimento per danni causati dai cambiamenti climatici e l'impegno dei paesi industrializzati di stanziare per lo meno una somma pari alla media di quanto sborsato in aiuti climatici negli ultimi 3 anni. Una proposta di minima visto che troppi erano i gap da colmare. E' uno dei tanti paradossi di questa Conferenza delle Parti sui mutamenti climatici che è conclusa sul filo del precipizio a Doha, città simbolo di opulenza, immenso cantiere a cielo aperto, sede un incontro che all'inizio si annunciava come un appuntamento di transizione. 

 Così non è stato. Le ultime fasi del negoziato del livello “ministeriale” si sono protratte ben oltre i tempi previsti, tra mancanza di volontà politica di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, (Stati Uniti in particolare) e richieste insoddisfatte di un aumento dei fondi per sostenere i paesi in via di sviluppo o rapida industrializzazione verso un'economia a basso contenuto di carbonio, – la Cina nello specifico, ma non solo. Ed un ultimo colpo basso della Polonia con dietro le spalle Russia ed Ucraina intenzionate a proteggere il loro diritto di vendere alte quote di permessi di emissione fino al 2020, anche se ciò avrebbe portato al fallimento totale della Conferenza. Così nella “land of plenty” del Qatar, l' occasione per l'Emiro Hamad bin Khalifa al Thani di proporsi al mondo come paladino dell'ambiente rischiava di sfumare per una questione di quattrini, e per manifesta incapacità dei suoi diplomatici. Se non fosse bastata la condanna all'ergastolo per Mohammed al-Ajami, un poeta giudicato colpevole di "sovversione del sistema di governo" e "offesa all'emiro" per una sua poesia dedicata alla “Tunisia dei gelsomini”. 

Anche qui a Doha si riverberano gli effetti della “crisi” finanziaria in Europa, che a Durban aveva messo assieme paesi poveri ed insulari salvando il negoziato , e che poco dopo, vista l'incapacità di tener fede alle promesse di aiuti finanziari, ha visto indebolirsi il suo potere di trattativa. La morsa del Fiscal Compact, e delle politiche di austerità sostenute dalla BuBa e dalla Cancelliera Angela Merkel stanno così avendo un effetto devastante anche sul profilo internazionale dell'Unione già compromesso dalla posizione oltranzista di Varsavia. A Doha c'era da concludere il Piano di Azione di Bali su temi quali adattamento, mitigazione, foreste, trasferimenti di tecnologie, finanziamenti, strumenti di attuazione, il prossimo regime di riduzione delle emissioni globali. Si è faticato fino all'ultimo secondo per poter passare la palla al gruppo di lavoro creato a Durban che dovrà trattare un accordo globale vincolante per tutti entro il 2015, per entrare in vigore nel 2020. Fumo negli occhi di Todd Stern, negoziatore di Washington. 

 Un passo in avanti però c'è stato, si riconosce per la prima volta il diritto dei paesi insulari al risarcimento per le “perdite e danni”” per i danni subiti a causa dei cambiamenti climatici. Fino all'ultimo è rimasta aperta la questione finanziaria, ovvero come reperire quel che resta dei 30 miliardi di dollari promessi a Copenhagen per il 2010-2012, e arrivare ai 100 miliardi l'anno entro il 2020. A poco è servito che l'Inghilterra annunciasse lo stanziamento di 2,2 miliardi di dollari, seguito a ruota da altri paesi europei, (Germania, Francia, Olanda, Svezia, Svizzera e UE) per un totale di 6,85 miliardi di dollari per i prossimi due anni, un' aumento rispetto al biennio 2011-2012. Inoltre i paesi donatori chiedevano di verificare come quei soldi verranno spesi nei paesi in via di sviluppo, questi ultimi chiedono invece che si faccia un verifica degli impegni di spesa dei primi. 

L'onda lunga di questo gioco al rimpiattino si è fatta sentire anche nel negoziato sulle foreste, che ha prodotto un risultato inferiore alle aspettative. Se ciò non bastasse. nonostante le decine di morti causate nelle Filippine dal tifone Bopha, i governi non sono riusciti ad accordarsi su come colmare quel differenziale di 6-15 gigaton di emissioni che marcano l’inadeguatezza degli attuali impegni di riduzione. O il cosiddetto “ambition deficit”, ossia il differenziale tra la percentuale attuale delle riduzioni di emissioni: 11-16% attuali rispetto a quelle necessarie entro il 2020, ovvero il 25-40% sui livelli di emissione del 1990. Temi che riemergeranno con virulenza nei prossimi anni. 

 La COP18 riesce nonostante tutto a rimettere faticosamente in carreggiata il Protocollo di Kyoto confermando il "Second commitment period" cioè il secondo periodo di impegni di taglio delle emissioni di gas climalteranti che i Paesi industrializzati avrebbero dovuto assumersi dopo il 2012. Un obiettivo di basso profilo, visti i molti tentativi di far deragliare l'unico Protocollo realmente vincolante assieme a quello di Montreal. Dal 1 gennaio 2013 inizierà Kyoto 2, ma vedrà li paesi parecipanti, quali Unione Europea, la Svizzera, l'Australia e la Norvegia rappresentano solo il 15% delle emissioni globali. La loro adesione a Kyoto, gli permetterà di consolidare il mercato del carbonio (come il sistema ETS europeo o quello australiano, che nei prossimi anni andranno a convergere) , uno dei meccanismi flessibili di Kyoto particolarmente voluto dai Paesi industrializzati, perchè permette una mitigazione a basso costo. Il rimanente 85% delle emissioni, provenienti da Stati Uniti (con 17 tonnellate e passa procapite all'anno di CO2) e Cina (con poco più di 7 tonnellate procapite allo stesso livello dell'UE) verranno gestite all'interno del percorso negoziale nato a Durban un anno fa, verso un regime non vincolante ma di "pledge and review", impegni volontari da verificare collettivamente. Kyoto 2, sebbene rimanga in piedi legalmente, dovrà essere riempito di significato, di numeri e di percentuali. 

 La rigidità di Stati Uniti, che non hanno mai ratificato Kyoto, del Giappone o del Canada, che dal Protocollo è uscito un anno fa a causa degli interessi economici ingenti legati alle sabbie bituminose in Alberta ed al loro sfruttamento, è stato uno degli elementi di blocco di un negoziato che, secondo le regole mutualmente decise nel corso degli anni, sarebbe dovuto arrivare naturalmente ad adottare un regime vincolante. D'altra parte la Cina, che nasconde dietro al gruppo del G77 i suoi interessi di potenza mondiale ormai emersa, non accetta alcun vincolo multilaterale che metta in discussione il suo sviluppo impetuoso ancora fondato sullo sfruttamento del carbone e del nucleare. Kyoto è necessario, ma non è assolutamente sufficiente. Non lo era prima, tanto meno lo sarà oggi. Il picco di emissioni di C02, dice il Panel di scienziati dell'IPCC, dovrà essere raggiunto nel 2015 per poi decrescere. Questo poter sperare di far rimanere la concentrazione di C02 sotto i 450 ppm e l'aumento della temperatura media globale sotto i 2°C, che però può significare +4°C - +6°C in altre parti del mondo, basti pensare all'Africa subsahariana che rischia di perdere in pochi anni buona parte dei suoi raccolti agricoli (con buona pace della sovranità alimentare) e alla Groenlandia, che ha visto scomparire quasi del tutto la sua calotta glaciale durante l'ultima estate boreale. Cosa che, ironia della sorte renderebbe assai meno costoso lo sfruttamento delle proprie risorse petrolifere. 

La prossima Conferenza delle Parti che si terrà a Varsavia lascia poche speranze, vista l'ostinazione con la quale la Polonia ha cercato di affossare il protocollo di Kyoto e con esso tutto il negoziato. In molti stanno già guardando alla COP20 che si terrà a Parigi, quando - si spera - l'Europa avrà un'altra guida ed altre ambizioni.

(*) Sinistra Ecologia Libertà (**) Fairwatch

sabato 8 dicembre 2012

Kyoto 2 la vendetta

E' stata dura ma alla fine ce l'hanno fatta. Nonostante la Polonia, l'Unione Europea ha  consegnato tutte le firme necessarie per far entrare in vigore il secondo periodo di impegno per il Protocollo di Kyoto, Il negoziato a Doha potrebbe sbloccarsi da un momento all'altro. Mancano a questo punto solo due punti per adottare il Doha Climate Gateway, la porta verso il futuro: soldi e risarcimento dei danni sofferti dai paesi poveri, cosa osteggiata fino all'ultimo dagli Stati Uniti. Il Qatar propone che i paesi ricchi si impegnino qua a Doha a stanziare aiuti climatici pari alla media di quanto stanziato negli ultimi tre anni. La Conferenza delle Parti continua, per chiudersi probabilmente tra stanotte e domani.

giovedì 6 dicembre 2012

Il ragno ed il buco nero di Doha



Se non ora quando? Se non noi, chi? Se non qua, dove?” Con queste parole si rivolge alla platea,Yeb Samo, il negoziatore capo delle Filippine, paese in queste ore colpito da un tifone che sta seminando distruzione e morte, Sono ormai giorni che il negoziato sul clima, in corso a Doha si è avvitato in un'impasse. Forse stanno venendo al pettine le fragilità del compromesso raggiunto lo scorso anno a Durban, ovvero di diluire l'impegno-chiave dell'accordo globale sulle riduzioni di emissioni, in un nuovo processo negoziale, (la Piattaforma di Durban), e sussumere all'interno di quest'ipotesi di accordo globale il secondo periodo di applicazione del protocollo di Kyoto.

I numeri però parlano chiaro: oggi, a 24 giorni dalla scadenza del primo periodo di Kyoto ancora non c'è accordo su come continuare. Oggi, con le decine di morti causate dal tifone Bopha, i governi non riescono ad accordarsi su come colmare quel “gigaton gap” di 6-15 gigaton di emissioni che marcano l'inadeguatezza degli attuali impegni di riduzione. O quello che gli esperti navigati di negoziati climatici denominano “ambition deficit”, ossia il differenziale che passa tra la percentuale attuale delle riduzioni di emissioni: 11-16% attuali rispetto a quelle necessarie entro il 2020, ovvero il 25-40% sui livelli di emissione del 1990.

Eppoi le cifre degli impegni finanziari: l'accordo a Copenhagen si era chiuso su un impegno globale di finanziamento per politiche e programmi climatici pari a 30 miliardi di dollari di “finanziamento iniziale” per poi arrivare a un volume di 100 miliardi di dollari l'anno fino al 2020. Dei 30 miliardi di dollari finora se ne sono visti pochi, spesso fondi riciclati da quelli della lotta alla povertà. Ed il Fondo Verde per il Clima, struttura dedicata alla gestione e concessione dei finanziamenti finora fatica a raggranellare i fondi necessari per essere pienamente operativa.

Insomma, mai come quest'anno, il tema del clima si trasforma in una tragica pedina di scambio su scacchiere che poco o nulla hanno a che vedere con l'oggetto del contendere. Non può essere altrimenti se il quadro di riferimento resta quello del modello di crescita e liberalizzazione spinta con una crisi economico-finanziaria che continua a incombere non solo sui paesi di quello che a suo tempo si definiva “nord” del mondo, ma inizia ad avere effetto anche su Cina, Brasile ed altri paesi in rapida industrializzazione, contraendone le capacità produttive e di crescita.

Tutto il negoziato, quello dei governi, si compone e scompone continuamente in mille rivoli, tavoli informali, gruppi di lavoro, sessioni parallele, cosa che rende impossibile ogni forma di monitoraggio e partecipazione effettiva dei non-addetti. Parole chiave come equità, giustizia climatica, responsabilità comuni e differenziate si dissolvono un una zona grigia, virtuale, un buco nero definito dai i gap di ambizione, quelli degli impegni finanziari, i gap di responsabilità e quelli di democrazia. Un negoziato sempre più a porte chiuse, dove la decisione di portare a zero l'uso di carta per salvare (si dice 150 alberi circa, che sarà mai in un paese come il Qatar con il più alto livello di emissioni procapite, e la benzina a 25 centesimi di euro ogni 4 litri) rende assai arduo lavorare su proposte di testi alternativi, e diffondere le proprie proposte ai delegati ed alla stampa.
In quel buco nero, vischioso come una pozza di petrolio che inghiotte ogni possibile aspettativa, i delegati continuano a rincorrersi, tra appelli drammatici, parole dure, bracci di ferro, offerte dell'ultim'ora.

Il quadro che ne risulta è desolante, ma da Doha non ci si aspettava un granché. Fin dall'inizio era chiaro che solo a ridosso della data del 2015 (entro la quale andrà concluso un accordo globale sulla riduzione delle emissioni che entrerà in vigore - si badi bene - solo nel 2020) si potranno delineare i contorni di un possibile accordo. A Doha la posta in gioco è altra: come chiudere i due processi negoziali, quello relativo al protocollo di Kyoto e quello del gruppo di lavoro sugli impegni di lungo termine che finora ha dibattuto di questioni quali visione di lungo periodo, adattamento, mitigazione, foreste, trasferimenti di tecnologie, strumenti di attuazione.

Da una parte i paesi “ricchi”, che vorrebbero eludere nuovi impegni su questi temi, cercando di chiudere alla svelta il negoziato e passare oltre, affermando che tutti quei temi o sono stati già affrontati o lo saranno in commissioni e comitati costituiti all'uopo. Dall'altra i paesi in via di sviluppo - definizione ormai vecchia perché non aiuta a differenziare tra paesi quali Brasile, Cina, Sudafrica, India, paesi poveri e paesi insulari, ognuno con le proprie urgenze e specificità. Già perchè a seconda di come lo leggi questo negoziato sul clima, con le sue “sottotracce”, da quella commerciale a quella scientifica a quella “politica”, a quella della sopravvivenza, a quella del debito ecologico, a quella dei diritti umani, la geografia di chi vince e chi perde, o forse la mappa geopolitica, cambia.

C'è un blocco di paesi che chiede impegni chiari su finanziamenti, trasferimenti di tecnologie, conferma del secondo periodo di attuazione del protocollo di Kyoto.
Ci sono paesi poveri che sperano di accedere a fondi che possano essere complementari rispetto a quelli sempre più scarsi per la lotta alla povertà.
Lo sanno bene gli africani, che tra una decina d'anni si troveranno di fronte a un tremendo “crunch”: La maggior parte dei fondi pubblici si concentreranno sulle politiche climatiche e di questi la stragrande maggioranza in Asia e America Latina, dove si devono rafforzare i programi di “mitigazione” delle emissioni, mentre l'Africa rischia di restare a bocca asciutta.

Eppoi il protocollo di Kyoto ormai in stato comatoso, che dovrebbe essere ratificato per il secondo periodo,sul quale si prospetta un accordo di compromesso: sulla carta si partirà dal 1 gennaio 2012, ma la realtà sembra consegnarci una “imago sine re, “ un'immagine senza sostanza . E resta il rischio di ricorrere a false soluzioni quali i meccanismi di mercato.

Questioni non da poco, giacché a seconda dell'esito di questi due negoziati, quello su Kyoto e quello sulla cooperazione di lungo periodo, si definiranno direttamente o per “default”, l' agenda e la roadmap della piattaforma di Durban. Questo pare essere l'unico negoziato che procede con relativa tranquillità, visto che il tempo delle decisioni vere è ancora lontano. Insomma, a meno di due giorni dalla fine della Conferenza delle Parti numero 18 si assiste ad un copione già visto, che lascia poco sperare per l'anno che viene. Un 2013 che si concluderà con l'ennesima conferenza delle Parti, la numero 19, stavolta non nel paese degli sceicchi ma in quello del carbone, la Polonia. acerrimo nemico del Protocollo di Kyoto.

Nel frattempo per tenere ancora vive le speranze, il Segretario Generale delle Nazioni Unite annuncia una Conferenza d'alto livello di Ministri per continuare a discutere sulle questioni climatiche e sperare che la notte porti miglior consiglio. Nel frattempo le enormi sale e corridoi del centro congressi del Qatar National Convention Center (QNCC), si svuotano in attesa dell'ultimo giorno di trattative all'ultimo sangue. Resta un 'enorme ragno di acciaio, animale sacro qua in Qatar, visto che è l'unico che resiste al deserto. E' “Maman” opera scultorea della grande artista contemporanea Louise Bourgeois, che sta a simboleggiare il rinnovamento continuo dei cicli della vita. Un'esortazione per il futuro.

domenica 2 dicembre 2012

il clima pesante di Doha

Inizia oggi la seconda settimana di negoziati della diciottesima conferenza delle parti della Convenzione ONU sui Cambiamenti Climatici, ospitata quest'anno dal Qatar. Finora i governi non sono riusciti a fare un passo in avanti nella definizione del quadro generale di lavoro per il dopo Kyoto. Né si sono trovati d'accordo su come chiudere il piano di lavori del cosiddetto Piano di Azione di Bali. Si sapeva che Doha non avrebbe certo rappresentato una tappa storica ma solo un'appuntamento nel quale definire la "transizione" tra una fase negoziale e la nuova, che dovrebbe portare ad un accordo generale sulle riduzioni delle emissioni entro il 2015 , per l'entrata in vigore entro il 2020. E' evidente che senza un chiaro impegno finanziario, né una volontà politica di colmare quel "gap" esistente tra realpolitik e urgenza dettata dai cambiamenti climatici (che in numeri si traduce in riduzione dell'aumento della temperatura rispettivamente di 2 o 1,5 gradi , oppure in un eccesso di emissioni ancora da ridurre pari a 6-12 gigatonnellate di carbonio equivalente) saranno esigue le chance di avviare un processo di negoziato che possa portare a risultati concreti. Ma anche in questo caso, possiamo permetterci di aspettare il 2020?