domenica 18 dicembre 2011

un bilancio dopo Durban

Provare a valutare sull’esito della 17° Conferenza delle Parti sui Mutamenti Climatici da poco conclusa a Durban, è esercizio difficile o forse scontato. Da tre anni all’indomani delle varie COP, da quella di Copenhagen, (luogo del clamoroso flop che ha fatto scricchiolare paurosamente l’impianto multilaterale del negoziato) a quella di Cancun (nella quale si optò per la strategia dei “building blocks” , o dei piccoli passi) i pareri si dividono. Chi accusa il modello multilaterale di dare eccessivo spazio agli interessi degli inquinatori, o troppa voce a paesi insignificanti in una visione di politica di potenza, chi accoglie come evento di portata storica un impegno ancora sulla carta per un accordo internazionale legalmente vincolante, chi si accontenta di aver mantenuto il protocollo di Kyoto in terapia intensiva. Insomma si aggrava una già grande divaricazione tra realtà e volontà politica. Una realtà che richiede misure urgenti, mettendo a nudo l’inadeguatezza delle cifre sulle quali si costruirà l’impianto futuro di governo delle politiche climatiche. Oggi parlare di contenere un aumento di temperatura a 2 gradi o di 1,5 significa negoziare la sopravvivenza di interi paesi, e decine di migliaia di potenziali rifugiati ambientali. Eppoi c’è l’altra realtà, quella del modello stesso di negoziato, improntato sull “hard power”, sulla trattativa fatta di confronti diretti, di bracci di ferro, di “brinkmanship” come da gergo diplomatico, ovvero di passeggiate rischiosissime sul filo del rasoio per riuscire a strappare una mediazione al ribasso. Ci sono governi che in nome dell’equità chiedono un impegno di riduzione delle emissioni per tutti eccetto che per loro, e poi , come nel caso dell’India dimenticano opportunamente l’equità quando si tratta di politiche energetiche nazionali. O chi , USA, Canada, Russia, Giappone, cerca di affossare del tutto il Protocollo di Kyoto per un modello di gestione delle emissioni si base volontaria e senza alcun possibile sistema sanzionatorio. C’è poi chi, in nome dei paesi più poveri o dei diritti della Pachamama, fa appelli al riconoscimento del debito ecologico, e poi continua a far dipendere tutta la sua economia dallo sfruttamento di petrolio ed affini. Insomma, tra miopia nella capacità di lettura dei costi umani ed ecologici dei mutamenti climatici, e tatticismi o riposizionamenti strategici di paesi o blocchi di paesi, il negoziato sul clima rischia di perpetuare una profonda inadeguatezza, se non addirittura di trasformarsi in una palude nella quale resta invischiata qualsiasi ipotesi alternativa. Sia ben chiaro, oggi il problema non è quello di abbandonare il modello multilaterale, semmai quello di sforzarsi per renderlo più aperto, per farne uno spazio comune di elaborazione e proposta politica e programmatica per la cura dei “commons” atmosferici. La UNFCCC oggi questo non è. Restano fuori dalla trattativa e dalla partecipazione attiva soggetti non statuali , movimenti, realtà di base, la società civile, gli enti locali e le amministrazioni virtuose, le piccole imprese e cooperative che oggi lottano per difendere una nicchia di mercato, quella delle rinnovabili su piccola scala, dal dominio di poche multinazionali. A loro viene solo concesso il ruolo di “lobby” o di partecipazione ad eventi paralleli, o esposizioni sull’innovazione tecnologica, senza che dalle buone pratiche si possa distillare un congiunto di regole ed impegni per una trasformazione radicale del modello di sviluppo. Il primo punto sul quale riflettere nel dopo Durban è che oggi quel sistema di negoziato non rispecchia la trasformazione che è avvenuta nelle relazioni internazionali, nelle quali si sono andati affermando nuovi soggetti ed attori che rivendicano giustamente pari dignità nel governo del mondo. Anzi, la prassi di negoziati a porte chiuse, nei quali rappresentanti dei vari governi hanno combattuto fino allo stremo per difendere i propri interessi nazionali, a Durban addirittura sforando nei tempi supplementari, è continuata, mentre alla possibilità di accrescere il ruolo dei cosiddetti “stakeholders” è stato dedicato un misero workshop. Ad eccezione del cosiddetto settore privato, al quale vengono riconosciuti ruoli di tutto rilievo, intendendo però come settore privato quello delle grandi lobby energetiche non certo quello delle cooperative, piccole e medie imprese, realtà comunitarie o su piccola scala dedite all’innovazione. Insomma, finché l’UNFCCC resta un’arena di “wrestling” tra paesi e blocchi di paesi nella quale si riconfigurano o disegnano nuovi assetti anche geopolitici, non si riuscirà ad uscire dall’impasse. Così anche quella che oggi viene letta da alcuni come una grande vittoria, ovvero l’ impegno per concludere un accordo internazionale vincolante entro il 2015, (un “coup de theatre” annunciato, dell’Unione Europea che è riuscita in un colpo a farsi portavoce dei paesi più poveri e di quelli insulari e coinvolgere la Cina - magra consolazione per chi chiede un protagonismo maggiore dell’Europa sui temi globali) rischia di perpetuare uno scontro che poco ha a che vedere con il futuro del pianeta e molto di più con il posizionamento strategico o il puro e semplice interesse nazionale nella sua accezione più miope. Eppure, qualche giorno fa il Social Europe Journal, sottolineava come da una parte i governi hanno rinunciato alla loro sovranità nazionale a favore dei mercati finanziari, ed a Standards’ & Poore mentre dall’altra non ne vogliono sapere di cedere sovranità sul tema della riduzione delle emissioni. Eppoi il paradosso è che se per la crisi finanziaria i governi hanno accettato di agire di concerto (seppur proponendo le ricette sbagliate) per quanto riguarda il clima pospongono in continuazione ogni forma di accordo. Ecco l’ennesima contraddizione della quale il processo del negoziato climatico è profondamente intriso. Per tornare al risultato di Durban, secondo la strategia dei “building block” dalla COP17 esce un abbozzo di architettura istituzionale, dal Comitato per l’Adattamento, alla creazione del Fondo Verde per il Clima, alla segreteria per il trasferimento di tecnologia , all’accordo su modalità di informazione e rendicontazione dei programmi di mitigazione e del loro finanziamento, ad un quantomeno vago mandato per continuare nello sviluppo e messa in atto di programmi per la tutela delle foreste. Resta in rianimazione il protocollo di Kyoto, il cui secondo periodo di impegno viene sussunto - come in una matrioska russa - nel quadro di un “pacchetto” che prevede la negoziazione di un accordo globale vincolate per la riduzione delle emissioni entro il 2015 e che verrà negoziato in un gruppo di lavoro ad hoc sulla Piattaforma di Durban per l’azione rafforzata. Kyoto resta un Giano bifronte: da una parte guarda indietro, proponendo misure di mercato quali il commercio di permessi di emissione, soluzioni false all’emergenza climatica e dall’altra guarda in avanti, fornendo la base sulla quale provare a costruire un sistema globale di verifica e sanzioni per chi non ottempera agli impegni di riduzione. Le prospettive generali per il negoziato non sono incoraggianti. I governi si riuniranno di nuovo a maggio a Bonn per poi convergere tutti nella kermesse di Rio+20 dove il rischio di un assalto alla diligenza dei fondi climatici da parte della Banca mondiale è elevatissimo, come grande è la preoccupazione per un ulteriore spinta alla finanziarizzazione delle tematiche ambientali globali in nome di una non meglio definita “Green Economy”. E poi la prossima COP 18 sarà a Doha, in Qatar, cuore dell’impero petrolifero. Che fare allora? Aspettare il 2020 anno nel quale i nuovi possibili accordi diventeranno operativi, o azzardarsi ad implementare gli impegni di riduzione senza aspettare la loro ratifica dalla comunità internazionale? Se guardiamo a casa nostra, oggi, due possono essere le possibili strategie. Da una parte una moratoria all’espansione della frontiera petrolifera nel nostro paese, sostenendo le comunità e le amministrazioni locali, dall’Abruzzo, alla Basilicata alla Puglia che resistono alle trivellazioni. E dall’altra insistere nella costruzione di un blocco “sociale” tra movimenti per la giustizia climatica, associazionismo, amministrazioni locali virtuose, comunità che soffrono gli effetti dei cambiamenti climatici, sindacato, settori imprenditoriali “virtuosi” , settore finanziario “alternativo”. E non aspettare fino al 2020 che i governi decidano per il futuro del Pianeta ma praticarlo fin d’ora.

mercoledì 26 ottobre 2011

A Durban una strada tutta in salita per il clima

Manca ormai poco più di una settimana all’inizio della diciassettesima conferenza delle parti (COP) della Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici che si riunirà a Durban e nella quale si tenterà di superare l’ impasse che da anni ostacola l’assunzione di impegni necessari per affrontare l’emergenza climatica, e avviare un processo di transizione rapida verso modelli produttivi e di consumo a basso contenuto di carbonio. Quest’ ennesimo appuntamento della comunità internazionale, si preannuncia già fortemente compromesso, se corrispondesse al vero ciò che in questi giorni ha denunciato il Guardian, ovvero che i paesi ricchi hanno ormai messo in conto che non sarà realistico giungere a nessun accordo vincolante sul clima prima del 2016, e che pertanto lo stesso possa essere messo in attuazione solo intorno al 2020. Queste indiscrezioni infiammeranno senz’altro le prime battute del negoziato che già si preannunciava complesso e pieno di incognite. Lo snodo centrale è rappresentato dalla necessità di ridurre le emissioni di gas serra per stabilizzare l’aumento della temperatura globale, e la volontà di assumersi l’impegno di stanziare fondi necessari per aiutare i paesi in via di sviluppo o in rapida industrializzazione. Se fino ad oggi nessun accordo è stato raggiunto lo si deve senz’altro alla mancanza di volontà politica degli Stati Uniti di sostenere un regime vincolante “a la Kyoto” che potesse obbligare Washington a fare la propria parte. D’altra parte però anche l’Unione Europea avrebbe potuto svolgere un ruolo di mediazione tra Stati Uniti e paesi quali India. Brasile, Cina ed invece ha assunto una posizione di basso profilo. Per quanto riguarda il protocollo di Kyoto, e la sua possibile sopravvivenza in un secondo periodo di vigenza, i negoziati sono ancor in alto mare. Negli incontri preparatori svolti a Panama ai primi di ottobre sono emerse varie ipotesi. Gli Stati Uniti insistono sull’adozione di un sistema di verifica delle riduzioni di emissioni nel quale i paesi fissano un tetto nazionale di massima, e si impegnano di volta in volta a rivedere lo stato d’attuazione, senza accettare l’eventualità di meccanismi di “enforcement” come quelli propri del protocollo di Kyoto. Questo sistema dovrebbe valere per paesi industrializzati come per quelli in rapida industrializzazione e in via di sviluppo. La resistenza di questi ultimi riguarda anzitutto il fatto che così facendo si viola il principio delle responsabilità eguali ma differenziate, che invece dovrebbe comportare un massimo impegno per la restituzione del debito climatico ed ecologico da parte dei paesi industrializzati verso il resto del mondo. Eppoi quest’ipotesi segnerebbe la fine del Protocollo di Kyoto, e con esso l’impossibilità di fissare un tetto vincolante per le emissioni di anidride carbonica. Il paradosso è che così viene meno anche uno dei presupposti necessari per alimentare il mercato globale di permessi di emissione, una delle ipotesi a costo zero prospettate dai paesi industrializzati e dalle imprese per compensare le proprie emissioni con l’acquisto di crediti di carbonio da paesi che emettono di meno. Senza un tetto . si dice – non ci può essere commercio di carbonio. Altra ipotesi quella di andare avanti con il protocollo di Kyoto con i paesi intenzionati a sottoscrivere il secondo periodo che inizia nel 2012, Unione Europea in testa, e includere il Protocollo nel quadro di un accordo vincolante più ampio che includa Stati Uniti, paesi del G77 e paesi del gruppo BASIC (Brasile, India, Cina, Sudafrica). La speranza dei negoziatori è di tenere aperto il canale di discussione ed evitare un ulteriore rottura che rappresenterebbe davvero la fine del modello di negoziato multilaterale. A Panama ha poi preso sostanza la possibilità di un’estensione al 2015 del Protocollo di Kyoto per dar tempo e fiato al negoziato in attesa di tempi migliori. Altra ipotesi quella di creare un annesso C per paesi in rapida industrializzazione. Insomma la questione è ancora del tutto aperta, al punto che nel corso della conferenza stampa tenuta all’indomani della Pre-COP ministeriale del 20-21 ottobre la Ministra degli Esteri Sudafricana si è limitata ad accennare alla necessità di proseguire il negoziato sul tema, richiamando alla responsabilità di tutti per affrontare l’urgenza di una riduzione decisa delle emissioni. A Durban le parti dovranno anche accordarsi sui termini della revisione della soglia fissata a Cancun per il possibile aumento di temperature a livello globale. A Cancun si fissò una soglia di 2 gradi centigradi ritenuta da molti inadeguata o addirittura disastrosa, e si lasciò aperta la possibilità di rivedere al ribasso tale limite fino ad un massimo di aumento di temperatura di 1,5 gradi. Questo tema è direttamente connesso alle politiche di mitigazione, ed al rispetto del principio di responsabilità comuni e differenziate, che oggi restano due macigni sulla strada dell’accordo, In particolare la questione relativa alla mitigazione ed ai cosiddetti NAMA (Nationally Appropriate Mitigation Actions) riguarda gli impegni di rendicontazione e verifica internazionale (in gergo MRV - Monitoring Reporting and Verification), in un gioco al rimpallo delle responsabilità tra paesi industrializzati e G77. A Panama qualche passo in avanti sembra essere stato fatto identificando un sistema binario di rendicontazione per paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Nessun passo in avanti invece sulla definizione della forma legale di un nuovo accordo sul clima, sull’eventualità di adottare a Durban un accordo internazionale legalmente vincolante o meno. Su questo punto i negoziatori si sono sbizzarriti prospettando una serie di opzioni alternative: dall’adozione di una roadmap verso l’adozione di uno strumento legalmente vincolante, all’adozione dello stesso a Durban, ad una dichiarazione sul futuro di uno strumento legalmente vincolante, all’affermazione dell’importanza di uno strumento legalmente vincolante, ad un’indicazione a continuare a discutere. Insomma da Durban uscirà ben poco al riguardo considerando anche che gli Stati Uniti sono contrari alla possibilità che dalla COP esca un mandato chiaro, mentre si è aperta una frattura all’interno dei G77, con i paesi insulari AOSIS che spingono decisamente per un accordo legalmente vincolante e India e Cina che sono contrari a dar mandato per negoziare un nuovo accordo. La posizione dell’Unione Europea resta quella di sostenere un secondo periodo di impegno per il Protocollo di Kyoto (il cosiddetto “Second Commitment Period”) a condizione però che si trovi accordo su un mandato per uno strumento legalmente vincolante. Sul tema delle finanze si gioca l’altra delicata partita. A Copenhagen nel 2009, si concordò per un fondo iniziale di aiuto pari a 30 miliardi di dollari che avrebbero dovuto essere innalzati a 100 entro il 2020. Finora pochi di quei fondi sono stati esborsati, spesso riciclati dalla cooperazione allo sviluppo. Lo snodo delle finanze rappresenta l’altro vero ostacolo verso un possibile accordo di massima a Durban, al punto che un mancato impegno al riguardo rischia di pregiudicare anche la costituzione del Fondo Verde per il Clima, struttura dedicata all’esborso dei fondi climatici. Anzi nell’ultima riunione preparatoria del Fondo Verde Per il Clima gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno puntato i piedi, non accettando un documento bozza nel quale non si chiarisce fino in fondo l’autonomia del Fondo dalla Conferenza delle Parti (cosa richiesta da Washington per aprire uno spazio di agibilità per la gestione da parte della Banca Mondiale), né il ruolo possibile del settore privato. Nel processo negoziale del Comitato Transizionale del Fondo Verde per il Clima sono emersi altri temi estremamente controversi sui quali non si è trovato accordo. Tra questi la possibilità di adottare un criterio di voto ponderato al Consiglio di Amministrazione del Fondo, ricalcando il sistema ben poco democratico del “one dollar-one vote” simile a quello seguito dalla Banca Mondiale, l’eccessivo potere dato al Consiglio, rispetto alla’autorità della Conferenza delle Parti, l’apertura di uno sportello dedicato al settore privato con modalità privilegiate di accesso, la decisione di passar dalla concessione di fondi a dono verso l’uso di fondi come leva per finanziamenti privati. Inoltre a fronte dell’intenzione iniziale di dotare il Fondo Verde per il Clima di due unici sportelli, uno per le attività di adattamento, l’altro per quelle di mitigazione, è emersa la richiesta dei paesi in via di sviluppo di aprire due altri sportelli uno dedicato al trasferimento di tecnologia l’altro alle attività di formazione e di “capacity building”. Nel corso della riunione di Panama si è anche raggiunto un consenso di massima sulla possibilità di uno sportello dedicato alle attività REDD+, ovvero di riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado delle foreste, sulla necessità di adottare una decisione chiara sul rilancio delle attività REDD+ e sull’urgenza di ampliare l’approccio al tema, considerando anche le ricadute dei programmi REDD su biodiversità, lotta alla povertà e fonti di sostentamento delle comunità che vivono o dipendono dalle foreste. Insomma, le prospettive per Durban sono di un esito di basso profilo, con il quale si proverà a “vendere” la COP17 come il vertice sull’adattamento, tema centrale per l’Africa e per le comunità indigene e contadine la cui sovranità alimentare è oggi minacciata dai cambiamenti climatici. E si rilancerà un accordo sulle foreste, che però rischia di rimanere monco, vista l’assenza di consenso sulle modalità di finanziamento, mentre sul Fondo Verde per il Clima, altro risultato auspicato dalla presidenza sudafricana ci sarà da attendere fino all’ultimo minuto di negoziato. Insomma, se una cosa Durban ci dirà, ancor una volta, è che non ci troviamo ormai di fronte ad una crisi nel sistema, ma per parafrasare Zizek, ad una crisi del sistema. Lo ribadiranno a gran voce le migliaia di attivisti, e rappresentanti di movimenti che marceranno anche a Durban per chiedere un cambiamento del sistema e non dei cicli climatici . Una strada tutta in salita.



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venerdì 21 ottobre 2011

Libia, diritti umani e ingerenza umanitaria

Mio contributo al dossier di Mosaico di Pace sule missioni internazionali (Novembre 2011)

Dapprima denominato Odyssey Dawn e poi Unified Protector, l'intervento internazionale in Libia, approvato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in seguito all'intensa campagna diplomatica di Nicholas Sarkozy e David Cameron, ha aperto un intenso dibattito nelle opinioni pubbliche progressiste di mezza Europa. Lanciata con il supposto obiettivo di proteggere i civili dalla repressione del regime di Gheddafi, e soprattutto per evitare un possibile massacro della popolazione di Bengasi l'operazione militare ha rapidamente assunto i connotati di una guerra combattuta per rimuovere manu militari un regime. Nei fatti l'operazione, nelle intenzioni dei principali sponsor, era mirata a ridisegnare gli assetti di forza in una regione, quella del Maghreb, oggi attraversata da un vento di cambiamento che rischia di scuotere alle fondamenta gli obiettivi politico-strategici di gran parte dei governi che oggi partecipano alle operazioni della NATO. Dall'inizio della vicenda ad oggi sono state approvate tre risoluzioni, una delle quali , la risoluzione 1973, ha autorizzato l'uso discrezionale della forza a protezione dei civili ed ha marcato un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite, pieno di rischi ed incognite. In realta' qualche settimana dopo accadde lo stesso con una risoluzione che autorizzo' l'uso della forza nel conflitto interno in Costa d'Avorio tra le milizie del presidente uscente Laurent Gbagbo e quelle del presidente eletto Ouattara, sempre a seguito di un intenso attivismo dell'Eliseo. In ambo i casi viene per la prima volta messo in pratica il principio della Responsibility to Protect (R2P) sviluppato per dotare la comunita' internazionale di strumenti legali necessari per attivarsi in interventi umanitari con l'uso della forza. Memori della propria incapacita' di prevenire le stragi di civili di Srebrenica e Ruanda, le Nazioni Unite istituirono un gruppo di lavoro che elaboro' le linee guida e le giustificazioni giuridiche necessarie allo scopo. In sintesi si delineo' un approccio volto a mettere al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati. Lo snodo centrale della R2P e' il passaggio dal principio della “non ingerenza” quello della “non-indifferenza” , ed anche la possibilità che la comunità internazionale si assuma la responsabilità di attivarsi qualora il governo di uno stato venga meno alle sue responsabilità nei confronti dei propri cittadini, violandone sistematicamente i diritti umani fondamentali e compiendo crimini contro l'umanita' o crimini di guerra. Il rapporto stilato dalla Commisione sulla sovranita' degli stati ed adottato nel summit dedicato che si tenne nel 2005 prevede, a differenza delle missioni umanitarie normalmente condotte dall'ONU, l'intervento con possibile uso della forza anche senza il consenso del governo dello stato interessato. Da allora fino all'intervento in Libia pero' il principio della R2P non aveva ancora trovato applicazione pratica. Gli Stati Uniti in particolare tentarono piu' volte e senza successo di invocarlo per costruire il consenso necessario per legittimare un'operazione militare internazionale per porre fine a quell che i fautori dell'intervento avevano definito un genocidio in Darfur. A sei anni dalla sua adozione la R2P rischiava pertanto di rimanere lettera morta e possibilmente cadere in una prescrizione di fatto, nonostante fosse stato recepito in diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Per questa ragione il precedente fissato con la 1973 acquisisce certamente una portata storica, ma potrebbe allo stesso tempo segnare la fine del principio della R2P. Le modalita' con le quali si e' deciso e poi messo in atto l'intervento in Libia infatti mettono a nudo tutte le contraddizioni ed i rischi di un uso strumentale del principio della R2P. Rischi derivanti dal suo uso selettivo, dalla mancata gestione ed attuazione da parte di soggetti ed entità “terze” e dall'uso di strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza, non necessariamente adeguati alla protezione dei civili, nonche' dal possibile sconfinamento delle finalita' iniziali in obiettivi di "regime change". Fin dall’inizio si decise infatti di dare massima enfasi allo strumento militare (no fly zone, no drive zone etc) piuttosto che agli strumenti politici, ed economici, e di mediazione internazionale. Altro punto riguarda il ruolo del Consiglio di Sicurezza che - a differenza di quanto proposto dalla Commissione ONU sulla sovranita' degli stati che attribuiva all'Assemblea Generale la facolta' di approvare o meno l'uso della forza - ha il diritto di decidere sull'uso della forza. Il fatto che tale decisione venga lasciata al Consiglio di Sicurezza. Cio' rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali. La prima questione aperta riguarda quindi le modalita' con le quali si decide di applicare la R2P ed autorizzare l'eventuale uso della forza. Andra' anzitutto affermato che questo principio, ed il conseguente diritto di ingerenza umanitaria, dovrebbero essere discussi e decisi nella maniera più democratica possibile, ossia dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite dove nessuno stato membro ha diritto di veto e dove vige il principio "una testa un voto". Così si potrebbe evitare il rischio di doppi standard e di un'applicazione strumentale del principio, che è pensato per difendere i deboli e non per promuovere gli interessi dei potenti. In attesa di una riforma in seno al Consiglio di Sicurezza potrà essere possibile per una coalizione di stati proporre una risoluzione all'Assemblea Generale, prendendo atto della incapacità del Consiglio di Sicurezza di operare rapidamente, e chiedendo l'applicazione del precedente "Uniting for Peace". Secondo questa procedura l'Assemblea Generale può essere investita di questioni relative alla sicurezza ed alla pace, qualora la situazione sul campo risultasse in rapido deterioramento, venissero meno le opzioni diplomatiche, e si rendesse necessaria una decisione genuinamente multilaterale. Il secondo punto riguarda il quando deve decidere. Sarà necessario proporre che il sistema delle Nazioni Unite rafforzi la sua capacità di "early warning" per prevedere lo scoppio di conflitti che possono mettere a rischio la vita di civili, ed attivare immediatamente l'Assemblea Generale, per mettere in campo tutte le misure politiche-diplomatiche- economiche volte a prevenire il conflitto. Qualora queste si rivelassero impraticabili si dovrà decidere per l'invio di una forza di interposizione (anche armata) che però risponda al comando delle Nazioni Unite, e non - come nel caso libico - ad una coalizione di volenterosi, poi collocata sotto l'ombrello della NATO. L'intervento della comunita' internazionale dovrebbe essere intrapreso attraverso il dialogo diplomatico, l'interposizione, assicurando il pieno rispetto della Carta delle Nazioni Unite e sempre tenendo in considerazione i diritti delle popolazioni minacciate che dovrebbero essere coinvolte e consultate rispetto alle modalità di intervento. Un caso esemplare puo' essere considerato quello del Burundi, nel quale la R2P è stata applicata in tutta la gamma di modalità previste eccetto l'uso diretto della forza: dalla pressione della società civile per un'iniziativa diplomatica regionale, allo schieramento di una forza regionale di "peacekeeping", ed una volta raggiunta la pace, ed effettuate le elezioni, si è passati al sostegno alla ricostruzione post-conflitto. Insomma, il principio di ingerenza umanitaria innesca dinamiche estremamente complesse e spesso contraddittorie, e comporta una serie di attivita' ed iniziative che vanno ben al di la' dell'uso puro e semplice della forza. Una possibile alternativa dovra' pertanto essere fondata su un nuovo approccio che faccia tesoro e si fondi sui principi della nonviolenza, giustizia e prevenzione dei confitti. In questo quadro sara' altrettanto urgente rilanciare proposte concrete su temi quali la sicurezza umana, la prevenzione dei crimini contro l'umanita' , la democratizzazione delle Nazioni Unite, nonche' una ridiscussione del ruolo e dell'utilita' della NATO. Perche' la pace non puo' essere confinata ad una rivendicazione etica pura e semplice, ma deve essere intesa come progetto politico volto a assicurare dignita' e giustizia agli esseri umani e relazioni solidali tra i popoli.

Dalle missioni ad una "mission" di pace nel mondo

Editoriale per il dossier sulle missioni internazionali curato per Mosaico di Pace (Novembre 2011)


Questo dossier intende fornire alcuni elementi necessari per operare un cambio di passo dallo studio critico delle “missioni” internazionali, all’elaborazione di una nuova “mission” pacifista e nonviolenta per il nostro paese, che ripudi la guerra in tutte le sue categorie, vecchie e nuove che siano. Elettra Deiana ci offre un breve excursus storico della trasformazione delle dottrine italiane di difesa e delle finalità delle missioni all’estero, diverse nella loro natura e modalità operative, sottolineando i rischi connaturati alla possibile violazione o elusione dell’articolo 11 della Costituzione. Il contributo di Giulio Marcon tratta della commistione tra cooperazione civile e militare, uno degli elementi di maggior novità negli ultimi anni. Se questo approccio ha trovato la sua prima espressione nell’Operazione Arcobaleno, oggi sembra essere diventato “mainstream”, segnando l’uso dei fondi di cooperazione , già scarsi se non inesistenti, a favore di formule ibride proprie delle operazioni di contro-insurgenza. Altro tema trattato riguarda l’ingerenza umanitaria o “responsibility to protect” ovvero la possibilità della comunità internazionale di intervenire per proteggere i diritti di popolazioni a rischio, qualora quei governi vengano meno alle loro responsabilità. L’intervento internazionale in Libia rischia di sancirne la fine, viste le modalità seguite e l’uso del tutto strumentale per legittimare una guerra volta a rimuovere “manu militari” un regime. Comprimendo al massimo i vincoli del diritto internazionale si aprono così zone grigie di legalità ed illegalità che rischiano di rendere ridondante l’impianto del diritto internazionale, creando uno stato di eccezione permanente volto a legittimare qualsiasi forma di intervento contro il nemico di turno. Sarà pertanto urgente lavorare per la costruzione di un’alternativa plausibile, facendo tesoro di esperienze positive di interposizione quali la missione UNFIL in Libano, oggetto della testimonianza diretta dell’ex ambasciatore italiano a Beirut, Giuseppe Cassini. Oppure traendo le necessarie considerazioni dall’esperienza afghana (riportata da Emanuele Giordana e Gianni Rufini) in una fase storica nella quale l’intervento internazionale piuttosto che assicurare la pacificazione ed il rispetto dei diritti umani è accompagnato da una preoccupante escalation del conflitto anche nelle aree di competenza italiana, e dal crescendo di violazioni dei diritti umani da parte delle forze governative. Al Kosovo dedicheremo uno spazio più ampio in un prossimo numero, vista la rilevanza storica ed il recente riacutizzarsi del conflitto interetnico in quella regione.

Frammenti da un mondo in crisi

Nel corso dell’ultimo vertice dei ministri dell’economia del G20 dominato dalla discussione sulle misure di salvataggio dell’eurozona, è stata respinta la proposta avanzata da Francia e Germania di approvare l’istituzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, la Financial Transaction Tax. L’Europa è unita sulla FTT, ma spezzata in più parti rispetto alle misure da intraprendere per il salvataggio di paesi indebitati, al punto da far prospettare il rinvio del vertice ministeriale previsto per questo weekend. Paradossalmente, l’opposizione principale alla FTT proviene non solo da Canada e Stati Uniti, ma anche dall’India, mentre Brasile e Sudafrica la sostengono con forza. Anche il blocco BRICS si sta sciogliendo? Nel frattempo il movimento globale degli indignados lancia un’iniziativa globale per la Robin Hood March da tenersi il 29 ottobre alla vigilia del G20 di Nizza

È stato liberato dopo oltre 5 anni di prigionia il soldato israeliano Gideon Shalit, in cambio di un migliaio di prigionieri palestinesi. Uno spiraglio per il rilancio della trattativa internazionale si dice. Nel frattempo la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina è passata dal Consiglio di Sicurezza all’organismo dell’ONU preposto a vagliare l’ammissione di nuovi stati. Un escamotage per guadagnare tempo e ridare fiato all’iniziativa del Quartetto? Se da una parte il presidente Obama insiste nella sua decisione di porre un eventuale veto su una decisione del Consiglio di Sicurezza, dall’altra l’offensiva diplomatica palestinese continua. Dal Palazzo di Vetro è passata ora alle singole agenzie specializzate, UNESCO in testa, che stanno valutando il da farsi.

Il corpo martoriato del dittatore viene esposto come trofeo o simbolo di una nemesi storica per suggellare la chiusura violenta del passato di un paese, la Libia, che oggi dichiara la sua liberazione. Restano molti interrogativi ai quali si dovrà dare risposta. Quali segreti si porta nella sua tomba segreta Mohammar Gheddafi? Quale prospettiva di pace in un paese che ora entrerà nella fase più difficile, quella della ricostruzione e della riconciliazione nazionale, spaccato com’è tra varie fazioni fino ad ora unite contro un unico nemico? La storia dell’operazione internazionale in Libia ci interroga su questioni molto controverse. Su come tutelare i diritti umani senza legittimare la rimozione violenta di un regime e quale scala di priorità dare tra pace e giustizia. A suo tempo il procuratore generale del Tribunale Penale Internazionale Moreno Ocampo venne criticato per aver spiccato mandato di cattura internazionale per Gheddafi e la sua famiglia mentre erano in corso trattative per una soluzione negoziale del conflitto. Si disse che quella scelta fosse stata controproducente e si argomentò molto sulla relazione che intercorre tra pace e giustizia internazionale. Una presuppone o esclude l’altra? Piuttosto che essere giustiziato per una taglia da 20 milioni di dollari Gheddafi avrebbe dovuto essere stato giudicato da un tribunale internazionale. Così non è stato.

A riflettere sulle immagini di piazza Syntagma dei giorni scorsi, di un parlamento sotto assedio ormai ridotto ad immagine senza sostanza, “imago sine re” dicevano i Romani, e condannato ad accettare supinamente le prescrizioni della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale vengono alla mente le parole dell’economista Dani Rodrik. Nella sua ultima fatica, “Il paradosso della globalizzazione”, Rodrik ci dice che non è affatto vero che i mercati globali prosperino grazie ad uno stato “leggero”, anzi ci dimostra il contrario. Semmai il problema da affrontare è quello di sciogliere un “trilemma”, tra democrazia, globalizzazione economica ed interesse nazionale. “Non possiamo perseguire contemporaneamente tutt’e tre” aggiunge, e conclude ” Dobbiamo fare delle scelte, ed io voglio essere chiaro sulle mie: la democrazia e l’autodeterminazione devono essere prioritarie rispetto all’iperglobalizzazione. Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro contratti sociali e quando questo diritto confligge con le esigenze dell’economia globale dovrà essere il primo a prendere il sopravvento”. Con buona pace dei deputati greci e dei parlamentari italiani cui era stato proposto di introdurre in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio con l’avallo di buona parte del centrosinistra.

Si riaccende lo scontro in Kurdistan turco. Dopo la recente offensiva del PKK dura è stata la risposta dell’esercito di Ankara in un conflitto che si trascina ormai da anni, e supera i confini nazionali, aggravando ulteriormente la situazione già difficile in Irak. Come fantasmi della storia riemergono le rivendicazioni di popoli senza stato, dal Kurdistan al Sahara Occidentale, riemergono le tensioni in Kosovo, mentre dal paese basco arriva la notizia dell’abbandono definitivo delle armi da parte dell’ETA. Quella stessa Turchia che aspira a svolgere un ruolo di “playmaker” nel Mediterraneo, secondo i principi del “neo-ottomanesimo” e che l’Unione Europea ha fin troppo tardato ad accogliere. Quella Turchia che avrebbe mediato per la liberazione di Gideon Shalit, e che di recente avrebbe concluso un accordo con la Norvegia per la formazione alla diplomazia di pace, e prevenzione dei conflitti. E che oggi al suo interno non trova la chiave di svolta per porre fine ad un conflitto senza altre vie d’uscita, per il popolo kurdo e per quello turco.

Si avvicina la data fatidica delle elezioni in Tunisia, culmine della cosiddetta rivoluzione dei gelsomini, mentre in Egitto la transizione appare sempre più complessa e piena di rischi. Al Cairo i militari continuano a tenere il bastone dalla parte del manico forti di un possibile accordo con i Fratelli Musulmani per costruire uno stato egiziano nazionalista con forte impronta islamica. In Tunisia le aspettative sono differenti, vista la differente genesi del processo di trasformazione. Un ruolo forte dei sindacati, di alcuni partiti politici della sinistra, un ruolo defilato dei militari lascerebbero ben sperare. Sullo sfondo, una grave crisi economica e sociale, e l’avanzata galoppante del partito islamico Ennahdha, il cui leader Rachid Ganouchi qualche giorno fa ha prospettato il rischio di brogli elettorali, e minacciato una rivolta. Quale che sia l’esito finale chi andrà al potere in Tunisia dovrà imbarcarsi nell’arduo compito di riscrivere la Costituzione, e tenere in vita uno spirito “costituente” affermatosi non nel Palazzo ma nelle piazze e nelle strade del paese.

Peacereporter ci informa della pubblicazione di un documento sullo stato del conflitto in Afghanistan. Secondo l’Afghan NGO Safety Office (Aprile 2011), si è registrato un aumento degli attacchi da parte delle varie componenti dell’insurgenza afghana del 51% rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno. Nel marzo 2011 sono stati registrati ben 1102 attacchi, mentre nel primo trimestre si è registrato un aumento del 115% nella regione di Herat e del 164% in quella di Farah, nelle quali operano i contingenti italiani, per un totale di 116 attacchi. Un conflitto senza uscita, scomparso dall’attenzione dei media, caratterizzato da quello che viene definito “stallo perenne sotto escalation”, nel quale le operazioni di controinsurgenza di fatto rafforzerebbero le attività dell’insurgenza. Ed accanto a ciò si nota l’intensificarsi delle attività di gruppi armati irregolari, al soldo di capi tribali o politici locali, e tollerati dagli Stati Uniti.

venerdì 26 agosto 2011

Debito ecologico, diritti e sviluppo in America Latina

Singhiozza e piange mentre lancia il suo grido di accusa la leader Guaranì, vicepresidente della CIDOB (Federazione dei Popoli indigeni amazzonici della Bolivia). Non potrebbe essere altrimenti, visto che il destinatario delle sue accuse è il presidente indigeno del suo paese Evo Morales. Con la voce rotta dall’emozione, di fronte ad un centinaio di delegati dei popoli indigeni di tutto il bacino dell’Amazzonia riuniti a Manaus a metà agosto, Nelly Romero punta il dito contro il tradimento di Evo, reo di perseguire politiche di sviluppo ed estrattiviste che contraddicono il suo essere indigeno e l’impegno per i diritti della Pachamama. Siamo alla vigilia della marcia dei popoli indigeni boliviani contro il progetto di autostrada sostenuto dal governo di La Paz e finanziato dal BNDES (Banca brasiliana per lo sviluppo economico, un gigante finanziario che investe ormai non solo in America Latina, ma anche in Africa) che attraverserebbe la terra indigena ed area protetta del TIPNIS. Un attacco ai diritti dei popoli indigeni, secondo i delegati intervenuti a Manaus. Né il primo né l’ultimo, stando ai piani del governo boliviano di aumentare l’estrazione di idrocarburi e metter mano agli importanti giacimenti di litio che potrebbero rappresentare una necessaria fonte di entrate per irrobustire il bilancio dello stato. Restano sullo sfondo le leggi adottate dal governo di Evo, ad esempio quella sulla sovranità alimentare che prevederebbe l’uso massiccio di OGM o quella sui diritti della Madre Terra che - a detta di molti leader indigeni - rischia di rafforzare l’autorità del governo centrale negando loro i diritti all’autodeterminazione ed all’uso sostenibile delle proprie risorse. Il grido di dolore di Nelly non è isolato. Segue quello di Raoni Kayapò, leader leggendario degli indios dell’Amazzonia brasiliana, lo ricordano tutti accanto a Sting, due decenni or sono nelle campagne a tutela di quello che allora veniva considerato il “polmone verde del pianeta”. Nel suo costume tradizionale, il labbro inferiore deformato da un disco di terracotta, Raoni urla la rabbia del suo popolo, rivolta al governo di Dilma Rousseff, la “iron-lady” che nel corso della sua campagna elettorale aveva messo al centro l’impegno di portare a fine la megadiga di Belo Monte, nel rio Xingù, la terza più grande del mondo dopo quella delle Tre Gole e quella di Itaipù. Un mostro di cemento nel cuore dell’Amazzonia che provocherebbe il reinsediamento forzato di decine di migliaia d’indigeni, l’espulsione dai loro territori ancestrali, insomma il rischio di un genocidio culturale vero e proprio. Si narrava delle Tre Gole che l’idea fosse nata da un poema di Mao, da un suo sogno, quello di un monumento eterno al progresso ed alla grandezza della rivoluzione. E Belo Monte (“Belo-Monstruo” come la chiamano da quelle parti) diventerà l’icona del Brasile del futuro, gigante economico, con aspirazione a diventare superpotenza regionale e globale. Tornano alla mente le immagini di venti anni fa, dello storico incontro di Altamira, nel quale una vecchia leader indigena non esitò ad accarezzare con il filo della lama del suo machete il viso di un funzionario della FUNAI, la Fondazione Nazionale per l’Indio (Sic!), sempre in riferimento all’impatto devastante delle megadighe che si volevano costruire in Amazzonia. Nella sala del Parlamento dello Stato di Amazonas, echeggiano poi i suoni striduli della lingua shuar, di un rappresentante di quel popolo dell’Amazzonia ecuadoriana, il viso disegnato con i colori di guerriero incorniciato da un copricapo di piume variopinte, che accusa il governo di Rafael Correa per l’ampliamento della frontiera del petrolio nell’Amazzonia. Un governo che oggi procede con determinazione alla costruzione del canale Manta-Manaus che tra qualche anno dovrebbe collegare la vecchia capitale del ciclo della gomma e le terre ricche di petrolio, alla costa del Pacifico, porta verso i grassi mercati d’Oriente, Cina in primis. L’asse multimodale Manta Manaus è parte di una rete di infrastrutture e megaprogetti, IIRSA, il cui obiettivo è quello di costruire lo scheletro per l’integrazione economica e commerciale del continente. Insomma, in una sequenza ravvicinata sono venute alla luce tutte le contraddizioni che stanno attraversando il Continente Sudamericano, le tensioni e le ambiguità che sono andate sviluppandosi nel corso degli ultimi anni nei quali in molti paesi si sono insediati governi progressisti, con il sostegno diretto o indiretto dei movimenti sociali e dei popoli indigeni. Governi progressisti partiti con grandi obiettivi di rielaborazione dei propri paradigmi economici e sociali di riferimento, e di costruzione di modelli di sviluppo alternativi . Quegli stessi governi che oggi si trovano di fronte ad un’impasse relativa ai costi ambientali e sociali delle proprie politiche di sviluppo, per il doveroso aumento della spesa pubblica per l’educazione, la salute, i diritti di cittadinanza, ma necessariamente coperti dalla valuta prodotta dall’esportazione delle proprie materie prime. Petrolio e derivati, minerali di cui sono ricche le terre ancestrali dei popoli indigeni amazzonici ed andini, risorse necessarie per tener fede ai propri impegni elettorali e assicurarsi il consenso popolare, anche a costo di ipotecare il proprio futuro. l’Ecuador ha già ricevuto due miliardi di dollari dalla Cina come pagamento anticipato per le prossime forniture di petrolio, il Venezuela, come confida il sociologo di sinistra Edgardo Lander, ben 10 miliardi che andranno ripagati in natura negli anni a venire. A Manaus i delegati indigeni erano giunti per discutere di saperi ancestrali, di tutela delle foreste di fronte ai mutamenti climatici, dei preparativi per la Conferenza Rio+20. L’incontro si terrà il prossimo anno in Brasile per celebrare il ventennale della storica conferenza ONU su Sviluppo ed Ambiente, un’importante occasione per fare il punto sulla governance ambientale globale, e sullo stato di attuazione degli impegni allora presi, tra cui quelli inscritti nella Convenzione sulla Biodiversità e sui Cambiamenti Climatici. Vent’anni fa lo sviluppo sostenibile era diventato il mantra, un termine che poi sarebbe stato utilizzato indistintamente da quelle imprese multinazionali e movimenti ambientalisti, governi e organizzazioni di base. Se allora il cerchio da quadrare era quello tra sviluppo e ambiente, tra economia ed ecologia, con risultati ambivalenti, ma certamente non determinanti, (basti pensare allo stato catatonico del negoziato internazionale sul clima) oggi l’ordine di priorità deve cambiare. Sono proprio gli indigeni ad offrire un contributo importante, quegli stessi che oggi la vulgata definisce gli “imprenditori verdi” per eccellenza, attori di spicco della “Green Economy”. Un contributo che inverte l’ordine delle priorità e la prospettiva di partenza. Non “Green Economy” o crescita “sostenibile”, né false soluzioni all’urgenza di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, come il mercato di carbonio o di permessi di emissioni. Prioritario dovrà essere invece il riconoscimento del debito ecologico, e della centralità dei diritti umani come chiavi di volta per una trasformazione responsabile del modello economico e di produzione. Torna con forza la contraddizione tra debito ecologico e debito sociale che oggi è al cuore dell’impasse nella quale versano i governi progressisti del continente. Accumulare un debito ecologico per le generazioni a venire per saldare un debito sociale verso le generazioni attuali, aprendo così un’altra contraddizione , quella tra diritti delle comunità e un supposto interesse generale. Ascoltando i rappresentanti delle comunità indigene del Rio Napo in Ecuador che verranno impattate dall’idrovia Manta-Manaus, viene a mente la Val di Susa. Molte le similitudini: una comunità che esprime il suo dissenso da un’opera con alto impatto ambientale e sociale e che non porterà alcun beneficio alle proprie condizioni di vita. Un megaprogetto che però è parte di un progetto multinazionale volto a avvicinare territori di origine di materie prime o di produzione ai mercati di consumo su assi orizzontali che collegano Est ad Ovest e viceversa. Non c’è via d’uscita se la prospettiva di fondo resta quella della crescita quantitativa illimitata, e la spinta ad accelerare il commercio globale di materie prime, in assenza di una strategia di lungo periodo che preveda invece la possibilità di produrre risorse finanziarie al di fuori di una monocultura estrattivista. Da una parte quindi il diritto all’autodeterminazione dei popoli indigeni e dall’altra l’esercizio della sovranità economica da parte di governi centrali, che non esitano a ricorrere alla repressione poliziesca. Sono circa cento i leader indigeni ecuadoriani accusati di terrorismo dal governo Correa, cinque leader peruviani di AIDESEP, tra cui il Presidente Alberto Pizango dovettero a suo tempo fuggire in Nicaragua, dopo la strage compiuta a Bagua da parte dell’esercito peruviano contro gruppi di indigeni mobilitati per il diritto alla loro “territorialità”. Da noi li chiamiamo - con un termine usato ed abusato - territori, nel linguaggio indigeno il concetto è espresso con il termine “territorialidad” (non terra, si badi bene). Non diritto alla proprietà della terra, bensì diritto alla sovranità sui propri territori ancestrali. È interessante notare che da questa rivendicazione, che innerva le discussioni di Manaus, non ne consegue una rivendicazione di autonomia politica, ma semmai la possibilità di costruire stati plurinazionali e multietnici. Non si spiegherebbe altrimenti la recente formazione di un fronte ampio progressista e di critica al governo Correa che vede assieme formazioni politiche, movimenti sociali urbani e “meticci” e le federazioni di popoli indigeni , o il progetto di formazione di un partito progressista con forti riferimenti indigeni in corso d’opera in Perù. Proprio in quel paese dove la vittoria di Ollanta Humala può rappresentare una nuova opportunità o un ennesimo fallimento qualora non riuscisse a sciogliere i nodi nei quali sono rimasti intrappolati gli altri presidenti progressisti, da Evo, a Correa a Dilma, ovvero: debito sociale-debito ecologico, economia-diritti, territori-interesse generale, locale-globale. Nodi che riemergono in parte anche dalla storia di Manaus, già capitale mondiale del ciclo della gomma. Un lusso durato finché un inglese senza scupoli si rubò la pianta di Hevea brasiliensis per ripiantarla nella colonia della Malesia Peninsulare e produrre gomma a basso costo, mettendo fuori mercato quella estratta in Amazzonia. Arrivò poi Henry Ford, che aveva bisogno di quella gomma per i pneumatici delle sue auto, fondò una città modello al centro dell’Amazzonia, Fordlandia (neanche fosse la trama di un film di Herzog), caduta in disgrazia dopo qualche anno, giacché il clima tropicale e la foresta non risultarono addomesticabili ai ritmi di produzione fordista. Di quel passato restano edifici raffinati, il Teatro Amazonas, il vecchio mercato del porto e la dogana, edifici smontati in Inghilterra e rimontati pezzo per pezzo, il maestoso ponte di ferro. Tra le memorie di una città con un passato florido ma effimero emergono con violenza, visuale e fisica, la miseria e la povertà che neanche la Zona Libera di Manaus, con le sue produzioni esentasse di materiali elettronici, abbigliamento a basso costo per i mercati globali, ha potuto o saputo lenire. E che oggi cerca più fortuna come porto di transito verso la Cina.


Sulla Manta-Manaus si veda anche: http://mantamanaos.blogspot.com/

giovedì 4 agosto 2011

I VERI CREDITORI SIAMO NOI

Per una soluzione giusta ed equa della crisi finanziaria in Italia e in Europa
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Dieci anni fa a Genova chiedevamo la cancellazione del debito estero dei paesi impoveriti e la fine degli aggiustamenti strutturali imposti su quei popoli dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale con insostenibili costi sociali ed ambientali. Dopo Genova si sono registrati molti passi in avanti sulla questione del debito: l'Ecuador ha compiuto un importante processo di auditoria, la Norvegia primo stato al mondo, ha riconosciuto l'illegittimità; del debito estero, l'Italia che si è dotata per prima una legge sul debito -la 209 - ha applicato la cancellazione vanificandone gli effetti positivi, poiché contestualmente ha cancellato i cosiddetti aiuti allo sviluppo.

I G8 che seguirono Genova misero in agenda il debito raccontandoci la solita favola di una presunta epocale e reale cancellazione. L'Italia ha brillato in questa bugia beffarda. Noi lo dicemmo allora e lo diciamo ancora oggi: per perseguire reali e verificabili cancellazioni del debito è necessaria una forte azione di monitoraggio da parte della società civile per sapere come e se e come queste cancellazioni vengono praticate.

Da quegli anni però qualcosa è cambiato: oggi abbiamo maturato una nuova consapevolezza. Oggi siamo noi cittadini e cittadine d'Europa a dover chiedere conto del nostro debito pubblico e degli effetti delle manovre finanziarie imposte dal patto per l'Euro e dalla Banca Centrale Europea sui nostri diritti.

Oggi la stragrande maggioranza degli aiuti del FMI sono diretti ai paesi europei, mentre altri paesi quali l'Egitto hanno rifiutato aiuti delle Istituzioni di Bretton Woods , in quanto le condizionalità; macroeconomiche annesse sono contrarie al pubblico interesse.

Oggi i nostri diritti fondamentali ed i beni comuni subiscono un attacco senza precedenti, in nome del pareggio di bilancio e dell'uscita dalla crisi prodotta dallo strapotere dei mercati finanziari e dal restringimento progressivo della capacità dei paesi e degli organismi democraticamente eletti di recuperare un potere di indirizzo sulle proprie economie e spesa pubblica.

Ci dicono che non c'è alternativa. I movimenti del Sud del mondo ci mostrano invece che un'alternativa esiste, e dobbiamo pretenderla con determinazione.

Abbiamo il diritto di sapere, e rivendichiamo il nostro diritto di non pagare i debiti odiosi e illegittimi prodotti da chi ha costruito la propria ricchezza con la corruzione e la gestione del potere economico e finanziario con l'unico scopo di soddisfare ragioni private, a chi sui beni comuni vuole continuare ad arricchirsi, sottraendoli al pubblico interesse. Se per pagare il debito pubblico si accumula un debito sociale ed ecologico per queste generazioni e quelle a venire, questo debito non va pagato.

Abbiamo pertanto anzitutto il diritto di sapere come questo debito si è accumulato, le responsabilità politiche, quale non va pagato perchè legato a corruzione, fughe di capitali, speculazioni finanziarie, investimenti fallimentari in infrastrutture inutili alla collettività, spese militari e quale può; essere rinegoziato. E quale debito andrà pagato, facendo tesoro delle proposte alternative formulate da campagne quali Sbilanciamoci.

Sia in Grecia che in Irlanda, come in Spagna e Francia, movimenti sociali e cittadini chiedono la convocazione di una commissione pubblica di "auditing" del debito, sulla scorta delle esperienze fatte in paesi quali l'Ecuador, il Brasile e le proposte formulate dai movimenti sociali del Sud del mondo.

Un "auditing" del debito italiano è il primo passo per costruire una soluzione politica alla crisi, che possa aprire una via alternativa, che deve necessariamente affrontata con maggior democrazia e partecipazione, e dovrà essere improntata su principi di giustizia sociale, economica ed ambientale.

Per questo ci opporremo all'introduzione del vincolo di pareggio di bilancio nella Costituzione italiana, giacché quella Costituzione è alla base dei nostri diritti fondamentali che non potranno mai essere messi allo stesso livello degli interessi dei mercati finanziari. A questo sarà necessario aggiungere altre proposte a livello europeo, quali l'adozione di un' imposta sulle transazioni finanziarie, l'abolizione dei paradisi fiscali, la creazione di un'agenzia europea di rating, modalità di indirizzo e controllo politico sulla Banca Centrale Europea, un'agenzia fiscale europea, l'emissione di Eurobonds ed il sostegno a programmi virtuosi di spesa per il rilancio delle piena e buona occupazione, una riconversione ecologica dell'economia, un welfare europeo fondato sul reddito di cittadinanza.

Crediamo che la soluzione al problema della crisi debba passare attraverso un rinnovato ruolo dell'Europa, ed un rilancio del progetto politico dell'Unione Europea, un progetto incompiuto, mentre procede a gran forza l'altra Europa, quella del patto di stabilità, del patto dell'Euro. Un rilancio che passa necessariamente attraverso maggior partecipazione e coinvolgimento diretto dei cittadini e cittadine d'Europa come proposto dalle varie campagne per le iniziative dei cittadini europei.

Per questo oggi crediamo che debba partire proprio da Genova un messaggio chiaro. Questa crisi provocata dalle speculazioni finanziarie noi non la vogliamo pagare né farla pagare alle generazioni a venire.

Genova, 22 luglio 2011


Primi firmatari:
Raffaella Chiodo, Francesco Martone, Vittorio Agnoletto, Nicola Vallinoto, Raffaella Bolini , Francesco Luca Basile, Maurizio Gubbiotti, Enrico Calamai, Gianfranco Benzi, Mariuccia Cadenasso, Roberto de Montis, Giuseppe Morrone, Loretta Mussi, Silvana Pollice

mercoledì 20 luglio 2011

per una "Auditoria" del debito pubblico italiano

Dieci anni fa a Genova chiedevamo la cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo e la fine degli aggiustamenti strutturali, Ora siamo noi a dover chiedere conto del nostro debito pubblico e degli effetti degli aggiustamenti strutturali imposti sul nostro futuro: lo hanno fatto in Brasile, Ecuador, lo faranno in altri paesi, ci si sta ragionando in Grecia e Irlanda. In sostanza, il ragionamento è il seguente. Se per pagare il debito pubblico si accumula un debito sociale ed ecologico per queste generazioni e quelle a venire, allora quel debito non va pagato. Prima di questo passaggio andrà compiuta un’operazione di trasparenza. Abbiamo il diritto di sapere come questo debito si è accumulato, chi ne è responsabile, quale è legittimo pagare e quale non va pagato perché collegato a corruzione, investimenti fallimentari, spese militari, e quale può essere rinegoziato. Ci sono delle proposte molto interessanti provenienti dai movimenti sociali contro il debito estero, condivise anche con i movimenti e partiti politici di sinistra greci. Sia in Grecia che in Irlanda si sta ragionando come base iniziale sulla possibilità di convocare una commissione pubblica di "auditing" del debito, per capire le modalità nelle quali questo debito si è accumulato, le responsabilità, e decidere in maniera democratica quale debito non pagare, quale dilazionare, quale rinegoziare. Metto un link utile al riguardo, sulla discussione tenutasi a Atene a maggio tra movimenti greci e dei paesi del cosiddetto Sud del mondo. Nel frattempo ATTAC Spagna ha lanciato un’appello che include anche la creazione di commissioni di “auditing” del debito in tutti i paesi dell’Eurozona.

http://www.nuevatribuna.es/articulo/economia/2011-07-15/attac-pide-auditoria-deuda-cada-pais/2011071513024400361.html


http://www.jubileedebtcampaign.org.uk/Nick%20Dearden%20blog%20from%20Athens%20Debt%20conference+6986.twl

martedì 21 giugno 2011

Sulla guerra in Libia e le possibili soluzioni politiche

Le ultime drammatiche notizie provenienti dalla Libia su nuove vittime civili causate dai bombardamenti della NATO, (probabilmente non le uniche, vista l’intensità dei raid aerei dell’Alleanza e le denunce fatte in precedenza da alte personalità religiose locali) riportano all’attenzione della pubblica opinione la natura stretta dell’operazione militare internazionale ora denominata “Unified Protector” e lanciata a suo tempo con il supposto obiettivo di proteggere i civili dalla repressione del regime di Gheddafi. Questa è una guerra combattuta per rimuovere manu militari un regime, e per ridisegnare gli assetti di forza in una regione, quella del Maghreb, oggi attraversata da un vento di cambiamento che rischia di scuotere alle fondamenta gli obiettivi politico-strategici di gran parte dei governi che oggi partecipano alle operazioni della NATO. Ancora una volta – come in Afghanistan – ci viene poi detto che è in gioco la credibilità ed il futuro della NATO, alleanza alla ricerca costante di una nuova ragione di esistere. In questo contesto, le vittime prime continuano ad essere il diritto internazionale e quelle popolazioni civili supposte beneficiarie dell’intervento, e che oggi si trovano intrappolate in un fuoco incrociato, tra bombe umanitarie, operazioni militari sul terreno, e crimini di guerra commessi da tutte le parti in conflitto. Questi elementi, assieme alla querelle tutta interna alla maggioranza sulla continuazione della missione in Libia , e l’annuncio dato nelle scorse ore da Berlusconi circa la decisione di porre termine alla partecipazione italiana alle operazioni a settembre, ci devono impegnare ad una più forte iniziativa di pace. Soprattutto in una fase nella quale opinione pubblica ed i media sembrano aver rimosso la guerra. Obiettivo principale dovrà essere quello di rilanciare una soluzione pacifica e diplomatica al conflitto, in sostegno ad una transizione pacifica verso la democrazia in Libia, anche sulla scia di quanto approvato nel documento dell’ultima Assemblea nazionale di SEL. Le operazioni militari sul campo ormai sono in un’impasse, un braccio di ferro nel quale la NATO spera di fiaccare definitivamente le truppe “lealiste” per poi costringerle a forza di defezioni , alla resa negoziata. Nelle condizioni attuali non sarà possible neanche lontanamente immaginare una tale soluzione. Anzi quanto più le ostilità si protrarranno, tanto più impraticabile diverrà quest’ ipotesi. Sarà perciò urgente attivarsi ad ogni livello per un cessate il fuoco immediato e la sospensione delle operazioni militari, proponendo un processo di mediazione internazionale gestito e coordinato da governi e organizzazioni “terze” che non hanno avuto alcun ruolo nel conflitto in corso, e l’invio di una forza di interposizione ONU a tutela dei civili e del cessate il fuoco, composta da paesi che non hanno partecipato alle operazioni militari. Di recente l’International Crisis Group, che già a suo tempo aveva stigmatizzato la decisione della comunità internazionale di imporre una “no fly zone” evidenziandone i rischi e le contraddizioni, ha rilanciato una proposta di mediazione e soluzione politica, che possa creare le giuste premesse per un futuro di pace e libertà in Libia (http://www.crisisgroup.org/en/regions/middle-east-north-africa/north-africa/libya/107-popular-protest-in-north-africa-and-the-middle-east-v-making-sense-of-libya.aspx) . Tra le proposte quella di sostenere un processo di transizione democratica negoziata tra i ribelli ed il regime, grazie all’intermediazione di soggetti non coinvolti nel conflitto. Certamente, e come riaffermato dalla think-tank, le dichiarazioni fatte nell’ultimo vertice del G8 di Deauville (“Gheddafi se ne deve andare”) sembrano chiudere ogni ipotesi di trattativa che possa prevedere un possibile esilio di Gheddafi. Qualche tempo prima il Procuratore Generale della Corte Penale Internazionale Moreno Ocampo aveva spiccato mandato di cattura internazionale per Gheddafi , che a questo punto non ha altra alternativa che quella di vendere cara la pelle. A meno che l’abbandono della scena da parte di Gheddafi venga considerato non come condizione necessaria per l’avvio del processo di transizione democratica, ma la sua conseguenza. Proprio su questo punto si è arenata la recente missione di mediazione russa a Tripoli, mentre la Cina ha deciso pragmaticamente di cambiare rotta aprendo un canale diretto con il governo provvisorio di Bengasi. Più in generale, ed anche in vista della necessaria elaborazione programmatica di SEL e dell’interlocuzione con le forze del centrosinistra e della sinistra diffusa e sociale, sarà necessario comprendere a fondo le sfide politiche e intellettuali che questo intervento militare in Libia propone. La risoluzione 1973 marca un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite, pieno di rischi ed incognite. E’ la prima volta - infatti - che viene messo in pratica il principio della Responsibility to Protect (R2P). Questo principio, sviluppato in seguito alle stragi di civili di Srebrenica e Ruanda, delinea un approccio che mette al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati Su questo punto andrà fatta chiarezza. Non possiamo rimanere impassibili di fronte a violazioni ripetute dei diritti umani, né di fronte a crimini contro l’umanità. In linea di principio può essere condiviso il passaggio dal principio della “non ingerenza” quello della “non-indifferenza” ed anche la possibilità che la comunità internazionale si assuma la responsabilità di attivarsi qualora il governo di uno stato venga meno alle sue responsabilità nei confronti dei propri cittadini, violandone sistematicamente i diritti umani. Con altrettanta fermezza però va affermato che il principio della R2P può essere accettato solo se non utilizzato in maniera selettiva, assicurandone la gestione e l’attuazione da parte di soggetti ed entità “terze” e laddove la sua applicazione non sia fondata sugli strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza. Il problema vero è quando sulla scorta di un principio, condivisibile sulla carta, si passa poi a pratiche o modalità di applicazione che creano pericolosi precedenti per giustificare la guerra. La genesi e lo svolgimento della guerra in Libia ne sono la riprova, visto che fin dall’inizio si decise di dare massima enfasi allo strumento militare (no fly zone, no drive zone etc) piuttosto che agli strumenti politici, ed economici, e di mediazione internazionale. Inoltre, il fatto che tale decisione fosse lasciata al Consiglio di Sicurezza, (che è noto essere organismo nel quale 5 superpotenze fanno la differenza attraverso il diritto di veto), rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali. Per dare un senso compiuto al principio della “non indifferenza” o meglio della “responsabilità” , e sgombrare il campo da ogni applicazione opportunistica dettata solo da interessi geopolitici, andrà pertanto riaperta una discussione sul tema della riforma delle Nazioni Unite che con questa vicenda rischiano di uscirne ulteriormente indebolite se non trasformate nella loro ragion di esistere. L’Assemblea Generale dovrà avere un ruolo centrale nel democratizzare i processi decisionali sul ricorso alla R2P che dovranno essere tolti alla competenza del Consiglio di Sicurezza. Andranno poi creati strumenti d’interposizione ed intervento a difesa dei civili sotto comando delle Nazioni Unite e non subappaltati alla NATO. Inoltre sarà necessario sviluppare politiche di prevenzione dei conflitti che possano permettere alla comunità internazionale di attivarsi in anticipo con misure politiche ed economiche per prevenire possibili escalation che mettano a rischio la vita di civili. Quegli stessi che oggi muoiono sotto le bombe della NATO o quelle delle truppe “lealiste”, a Tripoli come a Misurata.

domenica 29 maggio 2011

Medio Oriente, guerra, crescita e rigore fiscale: le ricette del G8

Primavera araba, crisi economico-finanziarie, rilancio della cooperazione internazionale, tecnologie dell’informazione, crescita verde, guerra in Libia, sicurezza nucleare dopo il disastro di Fukushima, cambiamenti climatici e biodiversità, questi alcuni dei temi che hanno caratterizzato gli incontri appena conclusi del vertice dei G8 in Francia. Quest’anno il Presidente francese Nicholas Sarkozy si trova a presiedere i due consessi internazionali che raggruppano a modulazione variabile le potenze vecchie e nuove del Pianeta - gli otto paesi industrializzati nel G8 e nel quadro del G20 anche le potenze emergenti , quali India, Sudafrica, Brasile, Cina. L’allargamento del G8 al G20 è ormai un dato di fatto, al punto da aver eroso progressivamente la rilevanza del primo a vantaggio della maggior rappresentatività del secondo. Certo è che se al G8 i governi non hanno faticato molto a trovare un accordo su questioni globali d’interesse ed approccio comune, lo stesso non sarà per il G20 dove la presenza dei paesi BRICS si farà sentire con forza. Basti pensare ai vari dossier ancora aperti nei quali i paesi emergenti potranno mostrare i muscoli, dalla riforma del sistema finanziario, al rilancio del Round di Doha al WTO, al negoziato sul clima. Per non dimenticare il braccio di ferro sulla successione di Dominique Strauss Kahn al vertice del Fondo Monetario Internazionale. Una disputa che, seppur chiusa poi dalla Cina con il sostegno alla candidatura Lagarde, lascia un suo strascico polemico con una dura lettera scritta dai direttori esecutivi dei quattro paesi BRICS in merito alle procedure di selezione ed alla storica consuetudine di designare un europeo al vertice dell’istituzione. L’impressione che si ricava da questo ultimo vertice è quella di un disperato tentativo dei G8 di riprendere una propria rilevanza e leadership globale. Risuonano ancora le parole determinate di Barack Obama pronunciate qualche giorno prima a Westminster quando, sotto lo sguardo di David Cameron, ha rilanciato il ruolo centrale di leadership delle potenze occidentali nei confronti dei paesi emergenti, rinsaldando l’asse anglo-statunitense. È di qualche mese fa fa la pubblicazione di un cablo wikileaks nel quale si evidenziava la forte preoccupazione dell’amministrazione Obama nell’offensiva diplomatica di Brasile, India, Cina e Sudafrica (il nuovo gruppo BASIC nato ai margini del negoziato sul clima) e l’invito a rafforzare l’alleanza con l’Unione Europea. Insomma, se a Deauville i G8 hanno cercato di “imporre la linea” sui temi globali e regionali, al G20 la partita sarà tutta da giocare. Con la Francia che almeno sulle questioni finanziarie parte avvantaggiata vista l’insistenza sulla riforma della “governance” finanziaria globale, la proposta di tassazione sulle transazioni finanziarie, e la prevenzione delle speculazioni sulle risorse naturali ed il cibo. Certo è che se si guarda nel merito delle decisioni prese a Deauville, altro non emerge se non la vecchia ricetta neoliberista e securitaria, che da anni questi vertici partoriscono, e che negli anni dimostra la sua inadeguatezza e nocività. La crescita economica resta saldamente il principale parametro di riferimento del benessere e della dignità delle persone. Basta leggere le dichiarazioni finali del G8, quella intitolata “Impegno rinnovato per la libertà e la democrazia” e quella sulla Primavera araba. Tra le righe – retorica a parte - risaltano alcune parole-chiave che danno il senso complessivo del messaggio politico inviato al mondo. “Sosterremo la crescita verde come garanzia per la costruzione di posti di lavoro e la prevenzione dei mutamenti climatici”. Un cambio di passo notevole in termini concettuali rispetto ai termini non certo sinonimi di “economia verde” o “greening of the economy”, tema portante del vertice Rio+20 che si terrà nel 2012 in Brasile che già si preannuncia come un possibile “flop” diplomatico. Per tenere insieme Europa, Stati Uniti, Giappone e Russia, il testo omette qualsiasi riferimento al fattore “K”, ovvero l’impegno per il secondo periodo di attuazione del Protocollo di Kyoto, e nulla viene detto sull’urgenza di uno sganciamento definitivo dalla dipendenza dai combustibili fossili. Queste sono le vere poste in gioco nel negoziato che avrà sbocco a dicembre alla Conferenza delle Parti di Durban. Sul nucleare, preso atto del disastro di Fukushima, non c’era certo da aspettarsi grandi passi indietro, tant’è che nella dichiarazione finale si fa riferimento esclusivamente a questioni di sicurezza nucleare e non certo ad una messa in discussione dell’opzione nucleare. Una posizione scontata vista la politica nuclearista dei padroni di casa . Andiamo alle politiche macroeconomiche: “l’Europa continuerà a perseguire rigorose politiche di consolidamento fiscale e riforme strutturali per incentivare la crescita”, un linguaggio che ignora le gravissime ricadute sociali della stretta di vite di Bruxelles sui conti e le politiche macroeconomiche dei paesi membri. Ancora, “ per facilitare la ripresa, “il G8 riafferma il proprio impegno alla liberalizzazione degli scambi commerciali” ed al rilancio del Round di Doha . Un processo quello all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio ormai agonizzante da anni, vista la mancanza di volontà politica dei paesi industrializzati di riconoscere eguali diritti ai paesi in via di sviluppo, in particolare nel settore agricolo, e l’ostinatezza ad inserire “dossier” critici quali quello sui servizi e gli investimenti e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale. Insomma, libero commercio, rigore, e crescita sono ancora i pilastri portanti dell’economia globale, in un quadro rigido di “governance” che non permette passi indietro o vie alternative. Sull’aiuto allo sviluppo, si riaffermano gli impegni a sostegno dei grandi fondi e partnership partoriti in questi anni, da quella sull’AID, TBC e Malaria (lanciata a Genova, e verso la quale l’Italia ha accumulato un notevole ritardo nell’esborso dei propri contributi al punto da essere di recente esclusa dal Fondo), all’iniziativa sui vaccini, quella sullo sradicamento della polio. Si nota un aumento delle risorse finanziarie messe a disposizione per l’APS a livello globale – da 82.55 a 89.25 miliardi di dollari (altro dato critico per l’Italia vista la pressoché totale scomparsa dell’aiuto pubblico allo sviluppo con il governo Berlusconi) , ben poco se confrontato all’ammontare totale dei fondi di risparmio sovrani (sovereign wealth funds) di alcuni paesi ricchi di petrolio, pari a 3 trilioni di dollari! Si sottolineano comunque i ritardi nell’attuazione degli impegni, mentre il riferimento rituale al sostegno agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio pare un alibi per eludere impegni certi e verificabili di spesa futura. Ad esempio per l’iniziativa de L’Aquila sulla Sicurezza Alimentare risultano sborsati solo il 22% dei fondi promessi. Due capitoli su Africa e sviluppo fondato sulle grandi infrastrutture troveranno invece spazio nell’agenda del G20 di novembre. E passiamo al dossier Pace e Sicurezza, con la Libia in primo piano. “Gheddafi se ne deve andare” senza mezzi termini il G8 chiude ogni porta al possibile negoziato per un esilio – opzione attualmente perseguita dal presidente sudafricano Zuma –appoggiando poi con forza l’iniziativa della Corte Penale Internazionale che ha emesso un mandato di cattura internazionale per il dittatore libico. Senza alcun posto dove andare, il colonnello continuerà a combattere. Il dossier Palestina risente del recente discorso di Obama sul Medio Oriente, nel quale si rilancia il negoziato bilaterale e si pone un freno alla campagna internazionale di riconoscimento dello stato di Palestina presso le Nazioni Unite. Un’ opzione rilanciata nei giorni scorsi dalla Lega Araba e che resta al vaglio di alcuni paesi membri dell’Unione Europea. Si riconoscono inoltre i supposti passi in avanti del governo Karzai nella pacificazione dell’Afghanistan ed i progressi nel processo di rappacificazione e riconciliazione. In tutta risposta i Talebani hanno distrutto all’indomani del G8 una base militare uccidendo - tra gli altri - tre militari tedeschi e ferendo gravemente un generale della NATO. Un attentato che richiama all’attenzione le contraddizioni delle cosiddette operazioni di peacekeeping, ai quali il G8 dedica l’ultimo trafiletto - il paragrafo 93 - auspicando un maggior coordinamento con le Nazioni Unite, e dimenticando che dovrebbero essere invece le Nazioni Unite a gestirle. Non a caso il precedente della Libia e del ruolo attivo della NATO pesa come un macigno. L’Africa resta in secondo piano a prescindere da dichiarazioni di rito, vista l’ assoluta rilevanza data al Medio Oriente ed in particolare al Maghreb. La dichiarazione del G8 sulla Primavera Araba fa il pari con la “Partnership per la prosperità condivisa e la democrazia” lanciata dalla Commissione Europea a Marzo, con il discorso di Obama sul Medio Oriente, la nuova politica di vicinato della UE lanciata il 24 maggio scorso. Insomma, la parola d’ordine è “more for more”. Più soldi in cambio di maggiori riforme democratiche, e dell’apertura dei mercati del lavoro e dei servizi. Un fondo di 40 miliardi di dollari che andrebbe anzitutto ad Egitto e Tunisia e poi via via a quei paesi che decidano di aderire alla “Partnership di Deauville” lanciata dal G8, nel quadro rigido delle riforme macroeconomiche preconfezionate dal Fondo Monetario Internazionale per facilitare la penetrazione delle imprese transnazionali. Insomma, in un frangente nel quale restano alti i rischi d’involuzione sia in Egitto che in Tunisia, spingere l’acceleratore sulle riforme politiche e sulle libere elezioni rischia di tagliar fuori quei nuovi soggetti politici e sociali cui si deve la Primavera araba, e perpetuare il predominio delle vecchie elite politiche ed economiche amiche. Chi gestirà questi fondi, le vecchie strutture di potere o quelle nuove democraticamente elette? Ed ancora, sul tema del debito estero di Egitto e Tunisia, come voltare pagina facendo giustizia nei confronti delle responsabilità dei governi autoritari nell’accumulo di tale debito che in quanto odioso ed illegittimo non dovrebbe essere pagato dal popolo egiziano e quello tunisino? L’approccio di Europa e G8 verso il Maghreb conferma che non ci potrà essere un nuovo corso nelle relazioni tra paesi e popoli del Mediterraneo senza una profonda disamina delle responsabilità storiche dei governi delle imprese, delle organizzazioni internazionali. Aspettarsi questo da chi fino a ieri sosteneva quei governi autoritari non è possibile né auspicabile. Proporre questo come punto di lavoro per i movimenti sociali che lavoreranno ora al forum sociale mondiale 2013 nel Maghreb/Mashrek, è una possibilità, che Sinistra, Ecologia e Libertà porterà assieme ad altre proposte e attività a fine luglio a Genova quando i movimenti nazionali ed internazionali si riuniranno per fare il punto a dieci anni dai tragici fatti del G8 2001.

mercoledì 4 maggio 2011

Le rivolte arabe, la democrazia, l'Europa

(editoriale per dossier di Mosaico di Pace, Maggio 2011)


Da Piazza Tahrir, alle strade di Tunisi, dalla Siria allo Yemen, alla Libia ed il Marocco milioni di persone, giovani, anziani, donne, disoccupati e lavoratori da mesi si mobilitano per chiedere un cambiamento radicale del sistema politico che per anni ha frustrato ogni loro aspirazione alla libertà ed alla dignità. Parlare di Maghreb oggi, con un dossier scritto quasi interamente al femminile è una sfida ed allo stesso tempo esercizio complesso giacché in questo periodo liminale che intercorre tra la fine dei regimi, e la costruzione di altre ipotesi politiche può succedere di tutto. Si possono accelerare le spinte alla radicalizzazione del conflitto, si può rischiare il ritorno alla normalità, o consolidare le istanze ed i soggetti che oggi chiedono democrazia. Una democrazia sostanziale, che si riappropria degli strumenti della politica della modernità, (il sistema elettorale, i processi costituenti) , ma li trasforma e li rielabora in una visione nuova, non più etero diretta, e nella quale la dignità è il pilastro centrale. Certamente ci sono molte differenze da paese a paese, dovute alla storia ed alla conformazione dei gruppi di potere che per anni hanno inibito ogni prospettiva di cambiamento. Eppoi la presenza dell’Islam (da quello moderato e quello salafita) che ha rappresentato uno dei pretesti centrali delle potenze occidentali per puntellare quei regimi che qualcuno ha definito vittime di un “jetlag storico” o meglio ancora di un “disordine temporale postcoloniale” ancorati com’erano ad una visione assoluta del potere, ad un autoritarismo che ormai nulla ha a che vedere con le aspirazioni legittime di quei popoli. Oltre ai governi autoritari la primavera araba pare essersi portata via anche qualsiasi velleità integralista, il grande piano di Al Qaeda di penetrare il tessuto sociale di quei paesi. Si è detto che la chiave di volta di questo sommovimento va trovata in una complessità di fattori, ed indubbiamente così è. Oggi le politiche di riduzione della spesa pubblica si accompagnano ad un’ ulteriore contrazione del potere di acquisto delle classi popolari, dovuto in primis all’aumento dei prezzi dei generi alimentari, conseguenza delle speculazioni finanziarie sui prodotti agricoli. Aggiungiamo a questo il potere tremendo del web. la sua capacità di permettere la comunicazione oltre la censura ed il controllo di polizia, la possibilità di costruire un sentire collettivo, pratiche e culture politiche tra popoli e generazioni accomunati oggi dalla stessa disperazione e voglia di riappropriarsi di persona del proprio futuro. Le rivolte di oggi non sono solo di carattere economico, ma soprattutto politico. Sono l’esito di un processo di “ebollizione” che per anni covava sotto traccia e che forse oggi ha trovato un suo sbocco naturale nelle crepe aperte dalla nuova amministrazione Obama e dal fallimento delle politiche euro mediterranee dell’Unione Europea. Il discorso di Obama al Cairo, l’invito ai popoli arabi a costruire la democrazia secondo le proprie modalità, l’apertura verso l’Islam, e l’abbandono delle velleità di George Bush di esportare la democrazia nel Grande Medio Oriente hanno segnato indubbiamente un passaggio chiave per comprendere gli sviluppi nell’area. La crisi finanziaria ed economica ha poi portato alla luce l’ ambiguità dell’Unione Europea, di una politica, dal processo di Barcellona all’Unione del Mediterraneo, che sulla carta parla di democrazia e diritti umani ed in realtà cela obiettivi ben differenti di blindatura delle proprie frontiere ai flussi migratori, liberalizzazione degli scambi commerciali, accesso alle risorse naturali ed al mercato del lavoro a basso costo. Un mix micidiale che non ha certo contribuito a costruire le premesse per società più libere e giuste. Anzi. Oggi - in questo periodo liminale tra conservazione e cambiamento, tra stabilità e trasformazione - si gioca il futuro del Mediterraneo e dell’Europa. Con i paesi della sponda Nord che continuano a usare gli strumenti della realpolitik per tentare disperatamente di riconfermare il proprio ruolo centrale nei destini della regione. E non esitano ad usare la forza delle armi, con il pretesto dell’ingerenza umanitaria in Libia per tentare di riaffermare il proprio protagonismo, in un’internazionalizzazione di una guerra civile che può rappresentare un grave rischio per quei processi di trasformazione. Gli eventi del Maghreb assumono pertanto una grande importanza. Ci interrogano sul significato della democrazia, ma anche sul tema della dignità, sulla costruzione partecipata di un nuovo spazio pubblico, su come promuovere i diritti dell’uomo in un mondo ormai post-occidentale. Più in generale su come provare a costruire assieme a quei popoli - con capacità di ascolto e la doverosa umiltà - un’ipotesi di pace e democrazia transnazionale, euro-mediterranea, che dia senso ad una visione cosmopolita che rifugge le tentazioni dell’uso della forza e sia saldamente ancorata al diritto ed ai diritti universali.

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mercoledì 30 marzo 2011

Libia, "the devil is in the detail"

Credo che non si possa articolare un giudizio politico sull’intervento militare internazionale in Libia limitandosi ad opporsi alla guerra, né risolvere la complessità delle vicende che stanno attraversando il Maghreb ed il Mashrek con valutazioni e posizioni che rischiano di mettere in secondo piano la profonda spinta innovatrice di quei popoli, utilizzando categorie proprie dell’anti-imperialismo, o del pacifismo ideologico. Credo invece che le vicende del Maghreb e del Mashrek segnino un importante cambio di passo, e con esso la crisi della realpolitik, giacché dimostrano che sono i popoli che fanno la storia a prescindere dal gioco dei grandi interessi contrapposti. Indubbiamente la specificità della situazione libica, nella quale ci troviamo di fronte a moltitudini che hanno preso le armi per liberarsi da quel regime, e le risposte molto discutibili della comunità internazionale oggi alimentano una discussione all’interno ed all’esterno del movimento pacifista, che si polarizza sempre più e rende difficile la ricerca di un punto di sintesi e convergenza. Da chi rigetta la guerra senza se e senza ma, a chi invece sostiene l’intervento internazionale a fianco dei “nuovi resistenti al fascismo verde di Gheddafi” a chi vede in Gheddafi uno dei residui di un passato anticoloniale ed antiimperialista. Fatto sta che nella discussione sulla Libia oggi o sei bollato come “anima bella” o come guerrafondaio. Cosa ci sia nel mezzo di queste disquisizioni puramente nostrane non è ancora dato sapere. Certo è che così scompaiono dalla discussione quei civili per i quali era suppostamente stato approvato l'intervento militare, presi ora tra i fuochi incrociati di una guerra civile ormai internazionalizzata e tuttora vittime di una spietata repressione da parte delle forze "lealiste". Invece se si parla del popolo libico si inizia a mettere in discussione la natura degli insorgenti, che siano giovani democratici, riciclati del vecchio potere, elite progressiste, o cellule salafite vicine ad Al Qaeda, come se questo poi risolvesse il vero problema che è alla base della vicenda libica, e sulla quale sembra nessuno voglia focalizzare l’attenzione. Quello che dovrebbe interrogare davvero il mondo pacifista oggi riguarda un elemento di grande novità insito nella risoluzione 1917 e che marca un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite. Come intitola un commento lo Spiegel online, le Nazioni Unite hanno abbandonato il principio della pace per quello dei diritti umani. Forse questa affermazione è un po’ forzata ma certamente è la prima volta che viene nei fatti messo in pratica il principio della Responsibility to Protect (R2P). Questo principio, sviluppato in seguito alle stragi di Srebrenica e Ruanda, delinea un approccio che mette al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati. Insomma il fondamento base di una politica internazionale ispirata a principi etici e morali. Su questo punto credo si debba far chiarezza. Non possiamo rimanere impassibili di fronte a violazioni ripetute dei diritti umani, né di fronte a crimini contro l’umanità, e credo che in linea di principio si possa condividere il passaggio dal principio della “non ingerenza” quello della “non-indifferenza” ed anche la possibilità che la comunità internazionale possa intervenire qualora il governo di uno stato venga meno alle sue responsabilità nei confronti dei propri cittadini. Il problema vero è se da un principio condivisibile si passa poi a pratiche o modalità di applicazione che rischiano di creare pericolosi precedenti. E’ questo il nocciolo del problema nel caso della Libia. Il principio della R2P può funzionare solo in un quadro nel quale se ne prevenga l’uso in maniera selettiva, e nel quale la sua applicazione non sia fondata sugli strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza. Purtroppo questo è quello che sta avvenendo in Libia. Le modalità con le quali si è giunti alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza evidenziano come fin dall’inizio si volesse dare massima enfasi allo strumento militare (no fly zone, no drive zone etc) piuttosto che agli strumenti politici, ed economici, e di mediazione internazionale. Inoltre, il fatto che tale decisione fosse lasciata al Consiglio di Sicurezza, che è noto essere organismo nel quale 5 superpotenze fanno la differenza, rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali. Ecco il vero paradosso della vicenda. Nel quadro di processi epocali di trasformazione sociale che evidenziano i limiti e le ipocrisie della realpolitik, quegli stessi attori politici che fino a poco tempo prima ne erano i principali fautori, oggi pensano di poter risolvere tale contraddizione schierandosi in difesa di popolazioni civili minacciate. Allora è chiaro che la prima vittima di questa vicenda rischia di essere proprio la “responsibility to protect” visto che viene utilizzata nei fatti come pretesto per sostenere un cambio di regime eterodiretto. In futuro sarebbe estremamente difficile in casi ancor più evidenti e gravi invocare tale principio visto che secondo il precedente che viene stabilito nel caso libico, questo implicherebbe comunque come ultima istanza l’uso della forza militare e degli strumenti della guerra per rimuovere un regime, piuttosto che difendere le popolazioni civili . Per non parlare poi del precedente che vede una coalizione dei volenterosi guidata dalla Francia e dall’Inghilterra prendere l’iniziativa militare per poi passare in un secondo tempo alla NATO. Insomma tutta la questione viene risolta all’interno di un quadro di “realpolitik” , in strutture puramente militari che rispondono a logiche di sicurezza improntata sull’uso delle armi, magari le più sofisticate possibili, e sulla sconfitta del nemico. Mary Kaldor in un suo recente scritto ha chiaramente evidenziato il rischio di una guerra umanitaria con tutte le conseguenze che questo comporterebbe sulle rivolte democratiche in altri paesi, sulla situazione dei civili in Libia e sulla tenuta del diritto all’ingerenza umanitaria. Che fare allora? Quale il ruolo del movimento pacifista? Certamente in prima istanza sarà necessario attivarsi per un cessate il fuoco immediato e la sospensione di operazioni militari che ormai stanno degenerando in sostegno attivo ad una delle parti in causa in un conflitto interno, per aprire un processo di mediazione internazionale, e nel caso considerare la possibilità di una forza ONU di interposizione composta da paesi che non hanno partecipato all’operazione Odyssey Dawn. E poi più in generale confrontarsi con la novità che questo intervento militare in Libia propone, e con le sfide politiche e intellettuali che rappresenta. Andrà quindi riaperta una discussione sul tema della riforma delle Nazioni Unite che con questa vicenda rischiano di uscirne ulteriormente indebolite se non trasformate nella loro ragion di esistere. Andrà formulato un pacchetto di ipotesi di riforma che prevedano ad esempio un ruolo centrale dell’Assemblea Generale nel democratizzare i processi decisionali sul ricorso alla R2P, la creazione di strumenti di interposizione ed intervento a difesa dei civili che non siano lasciati in mano della NATO, ed anche l’adozione di politiche di prevenzione dei conflitti che possano permettere alla comunità internazionale di attivarsi in anticipo con misure politiche ed economiche per prevenire possibili escalation che mettano a rischio la vita di civili. Oltre questo resta il nostro impegno a sostenere politiche di accoglienza nei confronti di coloro che fuggono dalla guerra e di assistenza umanitaria, oltre che lasciare aperto un canale di dialogo, discussione e scambio reciproco tra le due sponde del Mediterraneo, nella prospettiva di costruire - come evocato a suo tempo da Alexander Langer - un nuovo progetto di fratellanza euromediterranea.