martedì 16 dicembre 2014

Dalla parte degli ultimi, ricordando Vittorio Arrigoni

Domani Abu Mazen presenterà all'Assembla Generale delle Nazioni Unite una bozza di risoluzione nela quale si chiede il ritiro delle truppe israeliane al di là dei confini fissati nel 1967. ieri Bibi Nethanyahu, evidentemente già in campagna elettorale, da Roma dove ha incontrato il segretario di stato USA John Kerry e Matteo Renzi, ha annunciato che Israele non si ritirerà mai. E chiede a Washington di assicurare il proprio veto alla risoluzione. Oggi Kerry incontra i mediatori palestinesi. Il caso vuole che siano gli stessi giorni nei quali si ricorda la storia coraggiosa di Vittorio Arrigoni. Un caso che ci mette di fronte per l'ennesima volta all'inadeguatezza della “politica” di raccogliere e dare risposta alle sofferenze di un popolo e di applicare il diritto internazionale. Ma anche di fronte al coraggio di chi si mette a disposizione in prima persona accanto agli ultimi, a coloro che per la “politica” vengono considerati come merce di scambio, Lo erano i civili di Gaza in un tragico gioco al rimpiattino tra Hamas e Gerusalemme, lo sono i palestinesi di Gerusalemme Est, gli arabo-israeliani, chi vive in una prigione a cielo aperto o in un campo profughi. Si dice che Abu Mazen qualche tempo fa abbia deciso di congelare la richiesta di adesione alla Corte Penale Internazionale, un atto di distensione possibile per tenere aperta la porta alla trattativa. Invano. A fronte di questo stallo, è assai importante la presa di posizione di vari parlamenti europei, che hanno riconosciuto più o meno simbolicamente lo stato di Palestina. Laddove i governi non danno risposte imbrigliati in loro stessi e nella loro realpolitik, sono i parlamenti a prendere la parola, ed a dare voce agli ultimi.
Si attende ora che altrettanto accada in Italia, dove stride il silenzio del governo. Basta dare una scorsa ai siti di Palazzo Chigi e Farnesina, e si nota che l'unico riferimento alla visita è una fotina con Renzi che sorridente, l'ombrello in mano accoglie Bibi. Nulla di più. Oggi Renzi sarà alle Camere per riferire sulla riunione degli Consiglio dei Ministri degli Esteri dell'Unione tenutasi ieri a Bruxelles. Tra i temi, Ucraina, Siria, Iraq, Di Palestina neanche l'ombra. Nel dibattito di oggi alle Camere Sinistra Ecologia Libertà presenterà una risoluzione al riguardo, nella quale tra l'altro si chiede un forte impegno dell'Europa per riaprire il negoziato tra Israele e Palestina, e di riconoscere lo stato palestinese. Questa la risposta al silenzio di Renzi ed all'equidistanza del ministro degli esteri Gentiloni.

sabato 13 dicembre 2014

Con gi occhi degli altri - contributo alla conferenza programmatica di SEL - Human Factor

Con gli occhi degli altri.

“Je suis l'autre” diceva il filosofo Emmanuel Levinas, in un approccio ripreso anche da uno dei principali filosofi inglesi d'oggi, Simon Critchley, nel suo troppo poco conosciuto in Italia, “Responsabilità infinita” o “Infinitely Demanding” ovvero etica dell'impegno, politica della resistenza. Da questa prospettiva credo si possa partire per tentare di ricostruire il senso dell'agire politico oggi, in una fase di crisi e di interregno.

La prima domanda propedeutica che mi viene alla mente leggendo Human Factor é :”dove sono gli altri?” Dove sono le migliaia di persone che quotidianamente costruiscono alternative, praticano modalità differenti, esercitano il potere senza comandare, si sforzano di aprire spazi di agibilità, sono in prima linea nelle periferie, negli spazi virtuali del lavoro che non c'è, nelle occupazioni, nella costruzione di distretti dell'economia solidale, o per bloccare opere inutili, o l'espansione della frontiera petrolifera, che coltivano biologico, o producono cultura e saperi. Se si mette il naso fuori dai nostri spazi, le nostre “comfort zones”, si sentono le loro voci. Ci chiedono: “dove siete?”. Forse anche noi ci domandiamo la stessa cosa, dove sono loro? Sempre dalla parte dell'osservatore che si accinge a mettersi per l'ennesima volta in viaggio mentre gente già in viaggio ce ne sta tanta e da tempo, magari non su un jet supersonico, ma lentamente, profondamente, e con dolcezza per dirla con Alex Langer. Ecco io credo che dovremmo essere noi l'altro.

L'altro, che poi dovremmo essere noi stessi, viene assimilato, fino forse a sparire, nel concetto di “fattore umano-human factor”. Non ho nulla in contrario all'uso di un anglicismo che nei fatti assume una critica diretta alla trasformazione della politica in “infotainment” e degli esseri umani in “risorse” o fattori di produzione. Quello che mi preme sottolineare è l'urgenza di andare oltre il concetto di un nuovo “umanesimo” , quando oggi il punto è quello di ricostruire una visione del mondo nel quale l'umano (che non è solo lavoro, o lavoratore, ma essere umano detentore di diritti fondamentali, in primis) è solo una delle parti, e dove la dignità umana è parte integrante assieme alla salvaguardia degli ecosistemi. 

Non ci può essere giustizia sociale senza giustizia ambientale. Se guardiamo quindi al nesso tra umani ed ecosistemi, il principale elemento di crisi con il quale fare i conti oggi è l'emergenza dei cambiamenti climatici, giustamente accolto come punto chiave nel documento. Una crisi che non può essere semplicemente risolta con un'enfasi salvifica dalla semplice conversione ecologica dell'economia, quando il problema è – per dirla con Serge Latouche, del quale però stento a condividere appieno la mistica della decrescita – quello dell'occidentalizzazione del mondo, della trasformazione in economia di tutto, della finanziarizzazione dei nostri diritti, dell'aggressione quotidiana agli stessi. Allora, per permettere una vera conversione, che non sia alla fine “maquillage verde” fatto di false soluzioni, quali il carbon trading, o l'uso di meccanismi di mercato, una cosa va detta. E le parole di Eduardo Gudynas ascoltate qualche giorno fa alla Cumbre de los Pueblos per la giustizia climatica a Lima sono state di grande chiarezza: non possiamo permetterci di tirare fuori altro petrolio, punto. Il tema della conversione ecologica deve partire da questo, dall'assuzione del “limite”, (“Limiti alla crescita” diceva decenni or sono – era il 1972! - un essenziale testo dell'ambientalismo, il rapporto Meadows del Club di Roma) una critica alle politiche energetiche, di sviluppo, dalla rottura del ricatto del debito e dell'austerity per fare cassa. L'ambiente non è questione di riforma del sistema di mercato o di rispetto e culto del paesaggio o della bellezza, è un tema di profonda trasformazione del modello, una transizione non nello sviluppo ma “dallo” sviluppo. Non è possibile però alcuna trasformazione del modello economico estrattivista, che estrae petrolio dalla terra, valore finanziario dall'aria o dalla vita, che estrae tempo ed energie vitali al nostro diritto alla felicità, senza una profonda trasformazione del sistema politico, una revisione a tutto tondo che rimetta al centro la democrazia reale, e che riconosca l'entita della vera sfida: da una parte quella di “democratizzare realmente la politica” e dall'altra di contribuire alla “ri-politicizzazione dello spazio pubblico”.

Uno spazio pubblico che è anche “comune”, politica come “commons” necessario per la ricostruzione di uno spazio pubblico transnazionale, ad esempio l'Europa. Questo passaggio rimette in discussione anche le vecchie categorie della sinistra, il pubblico, l'intervento dello stato, la cittadinanza. A vedere bene, oggi la crisi del concetto e della pratica della governance (o governabilità della compatibilità) è infatti anche la crisi del sistema che vedeva tradizionalmente legati in un rapporto quasi contrattuale stato, mercato e società civile. Un sistema nel quale irrompe la finanza, l'economia speculativa, fino a procurarne la trasformazione. Lo stato restringe le sue attribuzioni e ruolo, non scompare ma si mette al servizio del mercato, che a sua volta viene trasformato dalla finanza, il cittadino o società civile si trasforma in cliente o utente. Oggi ci sono elementi che attraversano tutt'e tre le dimensioni della governance, fino a metterla in discussione profonda. Oltre alla finanza, il “comune” o “commons”, allo stato attuale forse l'unico antidoto alla finanziarizzazione. Ma non la spuria ricostruzione di una nuova forma di comunismo, o “benicomunismo”. Sono i “commons” come intesi da Ivan Illich, non definibili o normabili, ma che da una parte sono beni materiali ed immateriali essenziali per la vita e la dignità di questa generazione e delle generazioni a venire, dall'altra devono essere resi indisponibili al mercato e gestiti in modalità collettive. E si badi bene, con un profondo senso di responsabilità e cura, perché sono beni ereditati dalle prossime generazioni.

Torniamo alla domanda iniziale. Chi è l'altro? Da una parte chi cerca l'alternativa forse, e la esercita, assai probabilmente senza più percepire la necessità di una rappresentanza politica. Dall'altra chi è altro da noi, dal nostro universo di riferimento valoriale, etico, politico, sociale e culturale. Quella mucilagine di cui parlava a suo tempo il CENSIS. Allora, il compito arduo è quello di indagare, di scandagliare, di andare a recuperare ciò che resta, ciò su cui tentare, in un'opera collettiva, di ricostruire il senso dell'agire politico. Nel mentre non possiamo abbandonarci alla mera ricerca, piuttosto dovremmo rimettere al centro l'urgenza di intervenire contro le diseguaglianze, metter freno all'erosione progressiva dei diritti, contrastare l'avanzata dei nuovi poteri “duri”, che usano strumenti come il ricatto del debito, del pareggio di bilancio, la deregulation, l'aggressione alle risorse naturali, la conversione del sistema produttivo in apparato industrial-militare. Accanto al contrasto, la proposta, con l'attenzione di non cadere nella sindrome della “lista della spesa”, ma modulando ipotesi di lavoro coerenti, e legate tra loro. Su questo la proposta di struttura di lavoro delle giornate di Human Factor mi pare azzeccata.

Azzeccata perché orientata all'azione e non alla contemplazione. Giacché è ormai ineludibile chiedersi se oggi l'agire politico non debba essere fatto di concretezza, di risposte concrete ai bisogni materiali delle persone, di resistenza nonviolenta e partecipata all'avanzare del mercato e della finanza, da una parte e di costruzione di spazi di liberazione dall'altra. Spazi reali o virtuali, concreti o immateriali, dalla produzione di cibo, alla creazione di orti urbani, alla sperimentazione artistica, alla resistenza nei territori, dall'uso degli strumenti di democrazia diretta (si vedano le raccolte di firme per l'abolizione del pareggio di bilancio o in passato i referendum sull'acqua ed il nucleare), cyberattivismo e costruzione di reti. Ho detto non a caso resistenza nonviolenta, riferendomi alla nonviolenza come modalità di creazione di relazioni e nessi, una pratica che riconosce il conflitto come elemento essenziale di una democrazia viva, attiva, ma che lo metabolizza, lo abita, lo decostruisce nello sforzo di costruire un legame differente tra i cittadini ed il potere, tra i cittadini e lo stato. Ha ragione Annah Arendt, quando dice che lo spazio politico è un “rifugio dalla violenza” piuttosto che la sistemizzazione della violenza. Ed è questo spazio politico e pubblico che dobbiamo mettere al centro della nostra indagine e proposta.

Per questo oggi come non mai è dalle pratiche – ed anche dai conflitti (“abitati”) - sociali che si può ricostruire un progetto di società giusta, orizzontale, che metta al centro la dignità degli umani, e la tutela del Pianeta e la proposta di lavoro delle tre giornate appare coerente con tale obiettivo. Per questo la nostra discussione dovrà lasciare spazio o meglio lasciarsi compenetrare dalle pratiche sociali e politiche “altre” , farsi “aprire” dagli altri oltre che aprirsi agli altri.

Passiamo ora allo spazio: il nostro sguardo dove si rivolge? In alto? In basso? Attraverso? All'altezza degli occhi? Oltre il proprio naso? Prova a superare frontiere e confini? Si tratta forse di mettere a punto una visione cosmopolita dell'agire politico, saper cogliere l'altro oltre i confini ormai usurati – nel bene o nel male - dello stato-nazione, il rimettere in discussione la costruzione di “frontiere” visibili o meno. Da quella in mare che condanna migliaia di esseri umani a morire nel fondo del Mediterraneo, a quella invisibile ma tragica che separa i centri dalle periferie, nele città come nel mondo. Un mondo che ormai non ha confini per le merci, ma che fa la guerra per difendere o per far saltare confini politici, al seguito di utopie nazionaliste o identitarie, che siano di razza o religione. Questo dimostra la difficoltà di essere cosmopoliti, e di accettare di vivere in una società multiculturale e plurietnica. Credo che per poterlo fare sia necessario ed essenziale decolonizzare il nostro linguaggio e la nostra pratica. Dove sono i migranti, o le seconde generazioni? Dov'è l'interculturalità nella nostra analisi, proposta e pratica politica? Dov'è l'Islam? Dove sono i Rom, Sinti, Camminanti, Khorakané? Non basta invocare l'antirazzismo, o ritualmente condannare l'ennesimo atto di xenofobia, o strage in mare. Occorre vedere l'altro, comprenderlo, quando l'altro non è solo pratica politica ma soggetto di diritto al quale i diritti vengono negati. 

A questo si collega anche il concetto proprio del pensiero femminista di “agency”, ossia la determinazione e la consapevolezza dei cittadini e cittadine, o meglio di soggetti incarnati, di essere soggetti attivi, e quindi la necessità di adottare un modello di analisi dei processi politici e sociali che metta al centro gli “agenti” e decostruire quegli approcci che vedono i soggetti detentori di diritti come vittime dell'ordine delle cose. Senza scordarci che l'altro esiste comunque e a prescindere dalla capacità di un partito politico di “svelarlo” o comprenderlo, qualora ci siano gli strumenti o la volontà politica di farlo. E mettendo in conto che alla fine è anche possibile che - come acutamente disse Julia Kristeva - “nous sommes etrangeres a nous memes” siamo stranieri a noi stessi.

C'è poi lo spazio per l'azione di trasformazione politica,   coordinata essenziale per un soggetto che vuole essere ponte, cerniera tra il potere e la società. Chritchley ci dice che la vera politica si pratica in quello che lui definisce “uno spazio interstiziale all'interno dello Stato”, spazio e spazi che non sono dati, sono creati dalla pratica politica. Forse il soggetto o la soggettività politica multiforme che potrebbe originare anche dal confronto sul “fattore umano” dovrà – e per farlo dovrà dotarsi degli strumenti necessari – definire, coltivare, arricchire lo spazio interstiziale tra il potere dello Stato e l'assenza di potere, tra la critica e la costruzione di alternative. Credo infatti, e l'esempio più evidente mi pare essere la genesi di Podemos, che il tema sia quello di ricostruire uno spazio pubblico, attraverso la ridefinizione della sfera del potere (quel potere oggi in mano alle banche, agli organisimi finanziari, all'apparato industrial-militare ad esempio) e l'ampliamento della sfera della potenza , di quella della società che costruisce, pratica, elabora. Allora, ne consegue che la nostra azione politica dovrà essere orientata alla rielaborazione della sfera del “potere” per contribuire ad allargare quella della “puissance”, della potenza dei soggetti di diritto, degli “agenti”, dell'altro. E così facendo scoprirsi di essere “degni di ciò che accade”, per dirla con Gilles Deleuze.

Per farlo, dovremo immaginare una profonda riconfigurazione della forma dell'eventuale soggetto politico giacché la forma è sostanza, il processo è contenuto. Quale forma darsi, dovrà essere determinato dall'obiettivo politico, sarà la partita a definire lo strumento e non viceversa. Ed allora, si dovrà immaginare una struttura orizzontale, policentrica, diffusa, aperta, che si ispira ai modelli di open source, intelligenza collettiva, condivisione in rete. Un insieme di nodi, soggetti, realtà che mettono in comune storie, competenze, pratiche, analisi, elaborazioni. Un nuovo soggetto politico più che concentrare o coordinare dovrà agevolare sinergie, alleanze, relazioni tra coloro che già praticano il cambiamento sociale. In sommi capi significa che piuttosto che dotarsi di un organigramma classico, verticale, si dovrà pensare a qualcosa di radicalmente differente. Ad un nodo centrale, che irradierà verso gli altri nodi informazioni, strumenti di azione politica, competenze, conoscenza. Un nodo centrale orientato su temi che connotano la “missione” , da quella sui diritti civili, a quella della pace e della cooperazione, a quella dell'Europa federale, a quella della trasformazione ecologica dell'economia, i diritti del lavoro...Dal nodo centrale partono stimoli, proposte di campagne ed iniziative, verso i nodi decentrati. Questi non saranno altro che le vecchie “sezioni” o “circoli” riconfigurati come spazi aperti, di innovazione e buone pratiche, snodi di incontro ed iniziativa politica. Eppoi a livello territoriale, nei nodi, sarà possibile proporre anche forme e patti federativi con realtà di base esterne a SEL, associazioni, movimenti che condividono gli obiettivi e le priorità politiche. Stesso rapporto “federativo” può essere sperimentato attraverso una riattivazione dei forum, luoghi di connessione, terzi spazi tra soggetto politico, ed altri soggetti, individui o organizzati che lavorano sui temi specifici. Giacché quelle realtà associative intendono costruire relazioni con la “politica” sulla base di obiettivi chiari e competenze comprovate. Dal nodo centrale partono anche proposte di campagne su temi chiave, mirate a conseguire obiettivi chiari e qualificabili, da perseguire con gli strumenti della rete, dell'ciberattivismo, ed anche con strumenti classici o innovativi di comunic-azione, dai flashmob, alle azioni dirette nonviolente, agli strumenti di democrazia diretta, dai referendum alle leggi di iniziativa popolare. Nei nodi vige la regola del consenso, e la rotazione delle funzioni di facilitazione e coordinamento. Altro nodo sarà quello delle rappresentanze istituzionali, dai parlamentari eletti agli amministratori locali. La rappresentanza istituzionale deve essere parte integrante di questo processo di creazione di intelligenza collettiva,e di azione politica, attraverso gli strumenti, le risorse e le prerogative proprie. Dovranno anche loro contribuire a costruire questi terzi spazi di relazione, rappresentanza, iniziativa politica dal basso e verso l'alto. 

E per chiudere il tema che comunque al netto di tutte le analisi torna e tornerà alla nostra attenzione. Ma poi, come ci mettiamo alle prossime scadenze elettorali? Aspettiamo che gli eventi altrui determinino le nostre scelte? O decidiamo di evitare di cadere nella trappola così efficacemente descritta da Jacques Derrida, quando sottolinea come sia difficile pensare al nuovo quando ciò dipende dall'evento di altri? Ritorna quindi il tema del potere e del rapporto con le istituzioni. Su questo, e per concludere, prendo in prestito le parole di Immanuel Wallerstein, tratte da un suo illuminante articolo di qualche anno fa sulla sinistra del XXI secolo:
 
.”..Ci sono quelli che vogliono essere pragmatici, Vogliono lavorare dall'interno - all'interno del principale partito di centrosinistra laddove esiste un sistema multipartitico. (...) Ed ovviamente ci sono quelli che condannano questa politica di scegliere il male minore. (...) Il fatto è che la stragrande maggioranza del 99% sta soffrendo duramente nel breve periodo. Ed è questa sofferenza la loro principale preoccupazione. Stanno cercando di sopravvivere, ed aiutare le loro famiglie ed i loro amici a sopravvivere. Se pensiamo al governo non come agente potenziale di trasformazione ma come strutture che possono avere una certa influenza sulla sofferenza a breve periodo, attraverso decisioni politiche immediate , allora la sinistra è obbligata a fare ciò che può per ottenere da questi decisioni che possano minimizzare la sofferenza.

Con gli occhi degli altri , lo sguardo rivolto all'altro, e quindi a noi stessi.



mercoledì 10 dicembre 2014

La terra del Buen Viv

 LIMA – Una cerimonia rituale attorno ad un caracol fatto di frutti della terra e di pannocchie di mais sparsi a terra. La leader indigena ecuadoriana Blanca Chancoso cammina tra i dirigenti e le dirigenti dei movimenti sociali qua a Lima per la Cumbre de los Pueblos, con una coppa nella quale arde legna profumata. É per dar loro il benvenuto, mentre intorno si organizza un picchetto spontaneo di contadini che poi marceranno nel grande parco delle esposizioni per protestare contro la megadiga di Conga. Spunta anche una bandiera No Tav.

Il fulcro della Cumbre è al centro di Lima al Parque de las Exposiciones, un anello di tela verde, intorno al quale sono stati costruiti stand dei movimenti sociali che testimoniano la resistenza e la tutela della terra e della biodiversità. Più in là grandi tende verdi pistacchio. L’entrata, accanto al Museo Metropolitano di Lima, sede di una esposizione su arte, estetica e sostenibilità è presidiata da poliziotti in tenuta antisommossa. Incontro Rosa Guillen della Marcha Mundial de las Mujeres e responsabile internazionale della Cumbre, conosciuta sei anni fa quando assieme organizzammo una sessione del Tribunale Permanente dei Popoli per giudicare le imprese europee in America Latina. “Dobbiamo risentirci presto e con calma, Rosa – le dico – l’Italia sta ratificando il trattato di libero commercio tra Ue, Perù e Colombia”.

Passata la cerimonia, l’odore dolce del pau santo nell’aria, riprendono i seminari, uno in particolare richiama la mia attenzione. È un seminario sui mutamenti climatici e le economie di transizione, con due oratori di eccezione, Eduardo Gudynas del Cleas Uruguay, che finalmente riesco ad ascoltare di persona, e l’amico di vecchia data ormai, Alberto Acosta, della Flacso, Ecuador. Si è parlato di come arrivare gradualmente alla costruzione di un’alternativa fondata sul buen vivir, sganciandosi progressivamente dalla dipendenza dall’estrazione di combustibili fossili, alla progressiva decarbonizzazione dell’economia, così necessaria per assicurare la sopravvivenza del pianeta.


Gudynas snocciola cifre, dice “ci troviamo come un paziente in stato grave al pronto soccorso, dobbiamo iniziare la cura, non possiamo aspettare ancora. Al massimo possiamo ancora immettere nell’atmosfera 1.800 gigaton di anidride carbonica. Le riserve fossili conosciute ad oggi ammontano a cinque volte tanto, e se si prendono in considerazione anche le fonti non-convenzionali la cifra sale. Per mantenerci in vita dobbiamo limitarci ad usare un terzo delle riserve conosciute. Non c’è via di scampo, o smettiamo gradualmente di pompare petrolio o è la fine. Ma proprio dall’America Latina può partire l’alternativa”.

Come fare? Si parte dalla riduzione delle emissioni, e si arriva alla riduzione della dipendenza dai mercati internazionali con un programma chiaro. Stop a nuove estrazioni petrolifere in zone a rischio, dove vivono popolazioni indigene.

Poi sostenere uso selettivo del petrolio, solo per scopi di trasporto collettivo, riducendo i sussidi, frenando la speculazione sui prezzi, e stimolando la mobilità sostenibile, Proteggere le foreste, e ridurre la dipendenza dai fertilizzanti, attraverso agricoltura organica. Pensarci insomma nella prospettiva delle sette generazioni, quella indigena. E prefiggerci di arrivare al buen vivir entro 175 anni. Gudynas mostra una agevole infografica , e ridendo dice:” si ma non ci vengano a proporre la Pachamama nucleare!”, in riferimento al sogno atomico di Evo Morales.

Alberto Acosta rincara la dose. “Siamo un paese che esporta quasi solo petrolio, ma poi lo reimporta come benzina perché non sappiamo raffinarlo. Il tema però è come usare il petrolio disponibile meno e aumentarne il prezzo. Non si deve reinventare la ruota – dice Acosta -, basta ascoltare la conoscenza indigena, quella del Sumak Kawsay, assicurando armonia con la natura e con la dignità umana. Noi in Ecuador dipendiamo dal petrolio , il petrolio rappresenta il 18 per cento del Pil, ma mica siamo Sstato, è anche prerogativa delle comunità, dei municipi, di un progetto di sovranità energetica a livello territoriale, decentrato. Non grandi dighe ma piccoli impianti di produzione di energia idroelettrica ad esempio. Sostegno al rinnovabile su piccola scala, il solare ed il geotermico in primis. Il significato della campagna ITT Yasuni – “Lasciare il petrolio sottoterra” è anche questo. “Peccato che poi questa è stata stravolta dalla decisione di Correa di archiviare il tutto” dice Acosta. La contraddizione propria del Socialismo del XXI secolo continua: per pagare un debito sociale per le generazioni attuali, attraverso l’aumento della spesa sociale, si accumula debito ecologico per quelle a venire.

E non solo visto l’effetto devastante delle attività di estrazione, e l’apertura delle infrastrutture necessarie. Una costante nelle vertenze e nelle denunce delle comunità indigene aggredite. La loro voce si è sentita il giorno prima, poco lontano l’accampamento verde della Cumbre nell’auditorium del museo di arte di Lima, Mali. All’apertura della Cumbre si è tenuta un’“udienza” dei popoli indigeni su deforestazione e cambio climatico, alla presenza della relatrice Speciale delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, la leader indigena Igorot delle Filippine Vicky Tauli Corpuz. Nel corso dell’udienza l’ong Forest Peoples Programme ha lanciato un rapporto globale sulla deforestazione ed i diritti dei popoli indigeni, il rapporto di Palanka Raya, dal nome della città nel Borneo in cui si è tenuto a marzo il primo seminario di lavoro collettivo che ha prodotto la dichiarazione di Palangka Raya sulla deforestazione ed i diritti dei popoli delle foreste, e poi il rapporto globale. Venti milioni di ettari di foresta tropicale sono scomparsi solo nel 2012, in alcuni paesi del bacino del Congo l’accelerazione è ancor più evidente, ed i popoli indigeni sono ormai sotto assedio,

Un assedio causato dall’espansione delle attività estrattive, piantagioni di palma da olio e biofuel, grandi infrastrutture, per alimentare il modello di sviluppo e consumo globale. Gli effetti sono aggravati dall’assenza di leggi per tutelare il diritto alla terra, al territorio ed alle risorse dei popoli indigeni, sempre più marginalizzati nei processi decisionali, e minacciati se non uccisi per il loro impegno in difesa della Madre Terra. L’udienza ha avuto momenti di grande emozione fin dall’apertura con il minuto di silenzio per ricordare il leader indigeno ecuadoriano Jose Isidro Tendetza Antun, poi citato nche dal presidente della Conaie José Herrera, e nelle parole rotte dal pianto della fiera leader indigena Sharon Atkinson, dell’Amerindian Peoples’ Association della Guyana.

Sempre dalla Guyana, Nicholas Frederick del popolo Wapichan, illustra le alternative alla deforestazione, programmi comunitari di mappatura partecipata e produzione di piani di sviluppo comunitario. La conoscenza tradizionale e il riconoscimento dell’autonomia e del diritto alla terra sono al centro degli interventi di Onel Masardule, Kuna di Panama che ricorda la lotta del suo popolo settant’anni fa contro lo stato centrale, e il rifiuto del congresso Kuna di ogni forma di commercializzazione delle proprie terre. O Simon Valencia Lopez della Colombia leader di uno dei più grandi territori indigeni “demarcati” dell’America Latina.

A fronte delle alternative restano però le minacce: i piani di sviluppo infrastrutturale dell’Iirsa denunciati da Robert Guimaraes Vazquez della regione di Ucayali, o le grandi miniere dall’impatto devastante come testimonia Rene Ngongo, della Repubblica Democratica del Congo, già insignito del prestigioso Goldman Environmental Award. Grida la sua indignazione e determinazione Ruth Buendia del popolo Ashaninka del Perù pronto alla resistenza ad oltranza, dopo aver perso alcuni suoi leader come Edwin Chota che si opponevano alle imprese del legname. O Josias Manhuary, capo dei guerrieri del popolo Mundurucu dell’Amazzonia Brasiliana in resistenza contro le grandi dighe portato all’udienza da Greenpeace Amazzonia. O ancora, il capo cinto da un copricapo piumato, il viso “pintado” con i colori del guerriero, Manari Ushiugua, del popolo Sapara dell’Ecuador, minacciati di estinzione dalle invasioni delle imprese petrolifere. Ecco il volto umano della Cop (Conferenza delle parti sul clima), quello che nel Pentagonito di Lima scompare dietro il linguaggio “onusiano”, asettico e ambiguo per non urtare la suscettibilità di nessuno.

Lontano anni luce. Sono all’aeroporto per rientrare in Italia, sento parlare due delegati, un africano ed un’indonesiana. “Ecco anche stavolta ci proporranno l’ennesimo piano di azione, per tenere tutti intorno al tavolo prima di Parigi, A Doha hanno parlato di via d’entrata, a Cancun di accordo, a Durban di piattaforma. Che si inventeranno ora?”. Lo sapremo il 12 dicembre.

lunedì 8 dicembre 2014

L'AGIP ed i diritti della Madre Terra


LIMA – Josè Isidro Tendetza Antun doveva venire a Lima per testimoniare davanti ad un Tribunale di opinione sui diritti della natura. Era scomparso dal 28 novembre, il suo corpo è stato ritrovato con segni di tortura dopo una soffiata. Tendetza era un leader indigeno shuar che si opponeva alle attività di un’impresa mineraria sino-ecuadoriana ed aveva già subito gravi intimidazioni. Il suo omicidio è ulteriore riprova della violenza verso gli attivisti ambientalisti e indigeni in Ecuador.

L' avevo già potuto constatare in agosto quando ero a Quito e ho incontrato vari rappresentanti di organizzazioni ambientaliste e contadine, per una ricerca sull’industria della palma da olio. Domenica 7 dicembre, mentre partecipavo alla catena umana organizzata da AmazonWatch sulla spiaggia di Miraflores, incontro una leader indigena ecuadoriana, amica di vecchia data. “Francesco, è il caso che ci sentiamo presto. L’Agip sta riprendendo a trivellare, sta allargando il campo delle sue attività nelle nostre terre”.
Ricordo quando anni or sono andai a Puyo, ospite dell’Organizzazione dei Popoli Indigeni del Pastaza. Mi fecero sorvolare campo Villano per farmi vedere la contaminazione, feci un’assemblea nella quale mi diedero il testo di un contratto tra i Huaroani e l’Agip con cui in cambio di petrolio si regalavano tra l’altro magliette e palloni da calcio, e si impegnavano i Huaorani ad assicurare il corretto svolgimento delle attività di estrazione. Qualche anno dopo li rividi, a Quito, negli uffici di Fundacion Pachamama (chiusa d’autorità poco meno di un anno fa dal governo Correa), venivano da Puyo e da Sarayaku, la comunità di origine di Paty Gualinga, leader indigena presente qua a Lima.

Ricordo che ogni volta che presentavo un’interrogazione parlamentare sul caso Agip in Ecuador ed in Nigeria la risposta pareva una velina dell’ufficio stampa del cane a sei zampe. Certamente con il clima che si respira ora in Ecuador, l’impresa avrà vita facile. Non sarà così per le comunità minacciate dall’avanzata della frontiera estrattivista e petrolifera. Tra queste i Sapara – è qui a Lima una loro agguerritissima leader Gloria Ishugua Santi  in prima linea per difendere il suo popolo dalle imprese petrolifere. Pati mi dice con un velo di tristezza, se non le fermano i Sapara spariranno, ne sono rimaste poche centinaia.

Nel frattempo le cancellerie di Quito e Berlino sono sull’orlo di una crisi di nervi e non solo. Il motivo? La decisione perentoria del governo ecuadoriano di vietare una missione di una delegazione di parlamentari della commissione ambiente del Bundestag che volevano visitare Yasuni e incontrare gil Yasunidos. Gli stessi che sono stati accolti come eroi dal Tribunale per i Diritti della Terra, svoltosi all-hotel Bolivar, dopo essere stati bloccati più volte dalla polizia ecuadoriana assieme ad una carovana climatica che dal Messico si stava dirigendo verso Lima per partecipare alla Cumbre de los Pueblos ed alla Marcia per la giustizia cimatica il prossimo 10 dicembre.

sabato 6 dicembre 2014

Il clima secondo il piccolo Pentagono

LIMA – Terzo giorno di negoziati qua al Pentagonito, nel quartiere di San Borja. I delegati stanno ora negoziando su vari fronti, finanze, mitigazione, metodologie tecniche, assetti istituzionali: il succo del negoziato sul clima è nella trattativa sulla Piattaforma di Durban. Ora si tratta paragrafo per paragrafo il programma di lavoro per l’avanzamento della Piattaforma, che contiene una serie di “desiderata” rispetto alle attività di mitigazione finanze, riduzione delle emissioni. Il risultato probabilmente verrà rinominato “Lima Action Plan”, Piano di Azione di Lima.
Intanto, le delegazioni non governative stanno elaborando le loro proposte di emendamento, paragrafo per paragrafo. Continuano anche le attività nell’area contigua al Pentagonito, quella delle “Voci del Clima” dove tra l’altro è collocata un’installazione sui popoli indigeni dell’Amazzonia, il “padiglione indigeno”.
Da fuori arrivvano notizie sulla Carovana Climatica che sta attraversando l’Ecuador per arrivare a Lima. Bloccata dalla polizia ecuadoriana, con giustificazioni pretestuose, ennesimo esempio di criminalizzazione dei movimenti sociali e ambientali, un tema che attraversa le discussioni sottotraccia. Qua in Perù una decina di leader indigeni sono ancora sotto processo per terrorismo dopo il “Baguazo”, i fatti di Bagua di qualche anno fa quando la polizia peruviana assaltò un blocco stradale indigeno, e dagli incidenti che ne conseguirono persero la vita indigeni e poliziotti. Stesse parole vengono dalle rappresentanze indigene indonesiane. Insomma il tema del cambio climatico è un tema che racchiude in sé tutte le contraddizioni del modello di stato e di sviluppo correnti.

La pressione continua su risorse naturali scarse e ecosistemi delicati porta con sé la repressione militare e poliziesca di chi lotta per proteggere le proprie terre. La catena logica, secondo Mayra dell’Ong colombiana Dedise, è questa: il tema della mitigazione riguarda anche il sostegno alle piantagioni di palma da olio per biofuel; il settore della palma da olio in Colombia è quasi tutto nelle mani degli ex-paramilitari, che si convertono in attori economici, e si stabiliscono nei territori dai quali l’esercito e i paramilitari avevano scacciato i contadini e le popolazioni autoctone. “Sai, forse non lo sapete che un’impresa italiana, con capitali italiani, opera nel settore dell’olio di palma e si sta stabilendo proprio in un territorio sotto il controllo degli ex-paramilitari?“.
Quelli di Dedise raccontano anche del legame stretto tra questo caso e l’Accordo di Libero Commercio tra Unione Europea, Perù e Colombia attualmente in fase di ratifica alla Commissione Esteri della Camera. E del rischio di landgrabbing. Il tema del cambiamento climatico sempre più diventa anche tema di interesse dei militari. Da qualche anno ormai nelle visioni strategiche degli stati maggiori il climate change è visto come una delle principali minacce alla sicurezza, se non la principale. Siccità, spostamenti forzati di popolazioni, ma principalmente necessità di proteggere tali risorse scarse anche con l’uso della forza. Il rischio di una “securitizzazione” del discorso ambientale quindi è evidente, con tutte le conseguenze che ne derivano. Mayra sorride: “Francesco ma pensaci su, mica è un caso che la conferenza COP il governo peruviano principale alleato di Washington ha deciso di farla nella basemilitare del Pentagonito” . Già il “Piccolo Pentagono”.

giovedì 27 novembre 2014

Diritti e rovesci a C-Lima

 
Si avvicina la data di inizio della Conferenza delle Parti ONU sui cambiamenti climatici qua a Lima. Prima del 1 dicembre si susseguiranno iniziative di movimenti sociali ed indigeni, che culmineranno con l'apertura di un Padiglione degli indigeni amazzonici e dall'8 dicembre con la “Cumbre de los Pueblo” con la marcia dei popoli per la giustizia climatica ed i diritti umani. Nel mentre rappresentanti indigeni si riuniscono in questi giorni per mettere a punto la loro piattaforma ed aprire un tavolo di dialogo con rappresentanti di governi. Tra i punti all'ordine del giorno l'urgenza di assicurare che il nuovo accordo sul clima che verrà approvato alla COP21 di Parigi 2015 sia centrato su un approccio fondato sui diritti umani e dei popoli indigeni in particolare, tema che sarà il “leitmotiv” di tutte le ONG e movimenti sociali che confluiranno nei prossimi giorni a Lima. Questo significa che ogni programma o progetto relativo al climate change, che sia di protezione delle foreste, o altre forme di "mitigazione" dei cambiamenti climatici, deve rispettare i diritti umani, e quelli dei popoli indigeni alla terra, territori e risorse, assicurare la piena partecipazione e il principio del consenso previo libero ed informato. Eppoi che se da una parte i popoli indigeni oggi sono in prima nel subire gli effetti dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi dai quali dipendono, dall'altra attraverso le loro pratiche di gestione e conoscenza tradizionale possoo svolgere un ruolo di primo piano nella prevenzione, mitigazione ed adattamento. Ed attraverso la loro resistenza all'invasione delle loro terre prevengono il rischio di ulteriore "landgrabbing" su terre e territori già messi a dura prova. Il secondo punto critico è che centrando tutto sulla mitigazione, si lascia scoperto un punto chiave quello del debito ecologico sofferto da popolazioni vittime dei cambiamenti climatici. E' lì che assume rilievo invece il tema dell'adattamento, ma adattare è meno appetibile alle imprese che mitigare, ed allora meglio concentrarsi sulla green economy piuttosto che la giustizia ecologica. Il documento base di negoziato su questo tema non ha alcun riferimento a diritti umani, ambientali o sociali, chiede solo ai governi se lo desiderano di informare su come le attività di mitigazione contribuiscono alla riduzione delle emissioni di carbonio. Questo non è sufficiente. Mentre il documento che formerà la base del negoziato di Parigi a differenza di quanto scritto in precedenza ora contiene un riferimento esplicito alla necessità di ripsettare i diritti umani e dei popoli indigeni. Ma il tema che resta aperto è quello di andare oltre un testo "cosmetico" di buone intenzioni e provare a rimettere in discussione l'intero paradigma. Giacchè il tema dei cambiamenti climatici non può essere ridotto ad un mero calcolo di benefici e costi economici ed in termini di gas serra. “System change not climate change” come dicono e reti per la giustizia climatica. Dall'altro capo del mondo parte un messaggio che dovrebbe entrare dritto nelle orecchie di chi a casa nostra dalle parti di Palazzo Chigi ha deciso di rilanciare l'estrazione di petrolio e combustibili fossili. E dall'altra parte stanzia oltre 300 milionidi euro per il Fondo Verde per il Clima. Già perché a vederla da qua l'Italia oggi è un mix tra territori che soffrono gil effetti dei mutamenti climatici (e che hanno diritto a politiche di adattamento, ad esempio attraverso piani di gestione del territorio) e territori e comunità che resistono all'espansione della frontiera petrolifera, spinta dall'urgenza di fare cassa e rimettere a posto i bilanci sotto la pressione della Trojka. Qua la versione andina è prerogativa del Fondo Monetario, ma mutando l'ordine dei fattori il risultato non cambia.

sabato 15 novembre 2014

Roma, ovvero la ciambella con il buco

Quando i miei amici stranieri mi chiedono cos'è Roma, gli rispondo " a donut", una ciambella. Sai una ciambella? Con il vuoto dentro e la pasta intorno? Solo che Roma è il contrario. Dentro c'è la città dei sogni, quella patinata dei turisti, quella che voi immaginate e sognate. La Roma storica, un museo a cielo aperto, che a guardare bene è piena di conflitti sociali, ambientali. gentrificazione, potere e privatizzazione degli spazi pubblici. La Roma papalina e delle lobby. La ciccia della politica sta là. Ma la Roma che non vedete, è quella che sta attorno al buco. Quella vera, a volte indigesta, dura. Quella delle periferie, della marginalità, di quelle linee di confine spinte sempre più oltre il GRA. E dico loro di leggersi " il contagio" di Walter Siti, che a mio parere in un suo capitolo contiene un saggio breve di antropologia culturale urbana da antologia. Quella Roma del lumpen, dei migranti, della marginalità ed anche di quella piccola borghesia spinta sull'orlo dell'indigenza. Quella Roma che ha come cordone ombelicale con il buco del centro la metro, e l'immaginario. La ciambella la vedi solo se vivi nelle zone liminali, tra la borgata e i quartieri ricchi. E dico loro di prendere il 19 ed attraversarla dal Vaticano, i Parioli, San Lorenzo fino a Centocelle per darsi un'idea. Tor Sapienza è solo un caso estremo, purtroppo. CI sono stato spesso a Tor Sapienza, ad accompagnare la mia compagna in un anno e mezzo di lavoro difficile, di frontiera assieme ai bambini e bambine dei campi nomadi. E ricordo la tensione, la violenza sotterranea. quella dei "pischelli" e quella degli "anziani". Ma a poco a poco quegli anziani hanno iniziato a guardare con altro occhio i bimbi e le bimbe rom, che andavano ad intervistarli, che costruivano orti comunitari. Mica erano loro che andavano a distruggere il campo di bocce del centro anziani. Anzi ad un certo punto hanno attraversato il quartiere a suon di "murga". Ma quell'esperimento ha portato un raggio di luce. In un quartiere, che ha una storia tutta sua, "rossa". Nato da un'occupazione di terre da parte di braccianti. Per ricostruire Roma non serve rifare l'arena del Colosseo, ma costruire spazi ed opportunità di condivisione, ricostruzione di un tessuto sociale, economico, culturale. Serve rigirare la ciambella. Capovolgerla. Perché la Roma del buco al centro è quella dei privilegiati, appena morsa da chi ci vive attorno.

domenica 9 novembre 2014

io sto con i Rom

E' vero che quello se l'è andata a cercare, e gli altri ci sono cascati. E non si venisse a dire, ah ma la violenza contro i rom, o le ingiustizie....su sta vicenda di Salvini io la penso così: in tutto questo i rom del campo hanno avuto la possibilità di dire la loro? Hanno chiesto loro di essere "difesi"? Sono stati interpellati? Perché il fascista di turno arriva per provocare incidente mediatico, quelli zompano sulla macchina di un fascista, il fascista li mette sotto, si apre la polemica, ognuno da casuccia sua, o dietro una tastiera mentre quei rom stanno là , vivono una vita di merda, (sfido chiunqe ad andare ad un campo per rendersene conto, altro che privilegi, lì ci sono le vere umiliazioni), magari arriva una ruspa per buttargli giù casa. Io sto dalla parte loro

giovedì 6 novembre 2014

Renzi-Juncker: burocrate a chi?

Continua la querelle tra Renzi e Juncker. Uno dà all'altro del burocrate, l'altro ribatte. Non certo un gran spettacolo con il semestre italiano di Presidenza del Consiglio UE agli sgoccioli, con il premier impegnato nella sua corsa sfrenata per le "riforme", la "rottamazione", e lo "sblocco dell'Italia": E dall'altra parte preso a sfoderare una retorica anti-casta verso Bruxelles. Il punto centrale è uno: La Commissione potrebbe chiedere una manovra aggiuntiva di 3 miliardi di euro all'Italia, ed esiste il rischio di una procedura di infrazione. Ci saremmo aspettati qualche mossa più audace, piuttosto che quella di usare un tono suppostamente aggressivo per mitigare l'impatto di scelte di politica economica ed industriale che alla fine rispecchiano per filo e per segno gli ordini di "Bruxelles". Così le parole di Renzi restano sospese nel vuoto, nel tentativo di salvare la faccia dopo una performance "europea" assai scarsa. Nei giorni scorsi come in questi mesi di semestre. In un colpo la Commissione è di burocrati, ed il nostro dimentica di aver fatto il possibile e l'impossibile per conquistare con Federica Mogherini il posto di vicepresidenza e Alto Commissario. Dice bene oggi su un editoriale Antonio Polito, ricordando che se da una parte Renzi non è un leader eletto, dall'altra, volenti o nolenti, se guardiamo alla forma piuttosto che alla sostanza, per la prima volta un presidente della Commissione viene nominato in quanto candidato dello schieramento che ha vinto le EUropee e previo scrutinio e votazione al Parlamento Europeo. Sempre oggi in un'intervista il sottosegretario Gozi tiene a puntualizzare che il governo si aspetta da Junkcer proposte concrete sul piano di investimenti di 300 miliardi di euro, un piano che esiste in teoria ma che sulla carta andrebbe tutto definito. Altro che Green New Deal europeo. Il sottosegretario Gozi sfida Juncker a reperire le risorse, noi lo sappiamo dove andare a trovare i soldi: eurobond BEI, carbon tax, armonizzazione delle politiche fiscali, lotta all'evasione fiscale ed ai paradisi fiscali, tassazione sulle transazioni finanziarie. E sappiamo anche cosa farci: conversione ecologica dell'economia, creazione di posti di lavoro "green", sostegno alla mobilità sostenibile, cura del territorio, risparmio energetico e rinnovabili su picocla scala. Ma questo presuppone da una parte l'abbandono della mistica della "crescita" ed una profonda riforma "politica" dell'Unione, attraverso una revisione dei trattati. Questa resta il vero convitato di pietra di questo semestre italiano che non resterà certo alla storia.

venerdì 31 ottobre 2014

La sculacciata del Presidente e poi la boutade. La politica estera Mr. Renzi, è una cosa seria

  
La decisione a sorpresa di Matteo Renzi di designare Paolo Gentiloni (dallo scarnissimo se non inesistente curriculum al riguardo) a Ministro degli Esteri e della Cooperazione dopo la ridda di voci su eventuali candidate alla Farnesina, e seguita alla rampognata del Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio raccontata oggi da qualche quotidiano, non può passare inosservata. Anzi indica una serie di questioni politiche rilevanti. Anzi forse una in particolare. A prescindere dalle dichiarazioni retoriche o di facciata sulle varie emergenze internazionali, o ai cosiddetti "lip-service" (pure chiacchiere) rispetto al resto della politica estera, il Presidente del Consiglio non sembra avere chiaro che fare politica estera è una cosa seria. Non solo per l'immagine sua e dell'Italia nel mondo. Ad oggi il semestre di presidenza italiano pare essere stato una mera opportunità di facciata per trattare "pro domo sua" rispetto alla legge di stabilità, ai parametri fissati dalla Troijka, al tanto fantasticato piano Juncker di 300 miliardi di euro per il rilancio e la crescita. Giochi di numeri, percentuali, dati, scadenze, che rilevano come in realtà tra lo jobs act, lo sblocca-italia, la legge di stabilità si sta sferrando un attacco ad alzo zero su ciç che resta dei diritti sociali, ambientali, economici, e su ciò che resta del welfare. Una pantomima le cui ricadute alla lunga saranno durissime per tutti. Oltre questo e la nomina di Federica Mogherini ad Alto Commissario, abbiamo per caso sentito qualche parola su Gaza? (vale la pena rammentare che dietro le quinte la Farnesina assieme ad altri paesi europei sì mandò una lettera di dura protesta a Nethanyahu per i nuovi insediament a Gerusalemme Esy) Sui kurdi? sulle stragi nel Mediterraneo? Sull'urgenza di proporre una profonda revisione delle relazioni tra Europa e Maghreb? Nessun baloon d'essai rispetto ad una conferenza regionale per il Medio Oriente? Nulla. Magari un accenno al TTIP, da concludere il prima possibile, o accelerare, e da offrire sul piatto alla Commissione ed al fido alleato d'oltreoceano. O un timido accenno del sottosegretario Gozi, convinto federalista - così en passant - sulla necessità ora, a due mesi dalla scadenza della Presidenza italiana -  di porre mano ad una revisione dei Trattati. Non è solo una questione di silenzio mediatico. E' il sintomo preoccupante che le relazioni internazionali del paese possano essere sacrificate alla frenesia comunicativa, all'ossessione di rottamazione. Il capo decide, nel toto ministri, ma decide così all'ultimo come se questa decisione riguardasse una casella da riempire per la sua squadra non una decisione di merito e di capacità. Imbarazzante. come mbarazzante fu la visita in extremis in Iraq mentre il Ministro Pinotti stava annunciando la decisione di inviare armi ai kurdi -senza ancora avere consultato il governo irakeno. O la mossa malandrina di rendere pubblica la lettera di Barroso con le "conditionalities" da imporre all'Italia. Un atto di insubordinazione che forse a prima vista potrebbe anche attrarre simpatie, ma Renzi non é né Assange né Snowden, che pagano con la oro pelle le loro scelte. Ultimo ma non da meno, va ricordato un fatto. Il vero conflitto sottotraccia che probabilmente né il presidente della Repubblica né Renzi vorranno risolvere, è quello che vede la Farnesina progressivamente in subordine rispetto alla Difesa e semmai ai ministeri economici e produttivi. A maggior ragione con un ministro “debole” e senza esperienza. Ossia un progressivo cedimento di sovranità sulla politica estera alle armi ed al mercato. Ma questo non sembrerebbe un criterio per informare la decisione di Renzi troppo preoccupato di dar prova di grande innovazione sulla scia del "politically correct", che ala fine si trasforma in quella che un tale Velleio Patercolo in tempi di Roma antica definì, "imago sine re", immagine senza sostanza.

mercoledì 29 ottobre 2014

con il popolo ungherese per la libertà, contro nazionalismo e fascismo

Orban, la vergogna d'Europa. Dopo l'annuncio dell'introduzione di una tassa su internet le piazze ungheresi si riempiono di nuovo nella più grande manifestazione anti-regime degli ultimi tempi. Quello che succede in Ungheria non ci può lasciare indifferenti, riguarda la nostra visione dell'Europa, la qualità stessa della democrazia, la necessaria costruzione di un argine al dilagare delle forze xenofobe e nazionaliste. Noi dobbiamo essere dalla parte di chi ora scende di nuovo in piazza per la libertà.

Con i kurdi, con Kobane

 



In sostegno e solidarietà con il popolo kurdo che oggi lotta contro l'avanzata delle milizie di ISIS a Kobane. Un popolo che con dignità e determinazione da anni chiede che venga riconosciuto il proporio diritto all'esistenza ed all'autodeterminazione. Un popolo che nel Rojava sta praticando forme di democrazia diretta e convivenza pacifica esemplari e che potrebbero fornire una chiave per ricostruire il tessuto sociale e politico in quella regione così martoriata della guerre. Un caso emblematico quello kurdo, simile in tutto e per tutto a quello di altre popolazioni, con la loro identità , storia, lingua, cultura che restano schiacchiate tra le logiche della realpolitik , quelle di potenza, la geopolitica, e le spinte all'assimilazione culturale, sociale, politica, ed economica.
La lotta per l'autodeterminazione oggi va al di là della forma di stato, è una rivendicazione di dignità e di diritto alla propria esistenza. Al di là di retoriche da crociata contro il nuovo feroce Saladino, oggi la trincea di Kobane è la trincea di tutti noi contro un progetto politico e culturale che vuole portare il mondo indietro di migliaia di anni. Per sostenere quel popolo, non basta la retorica delle armi, o l'opzione militare, - opzione verso la quale è sempre doveroso un principio di precauzione. Anzi per come si è configurata e si sta configurando, l'opzione militare - dall'invio di armi alle milizie kurde, all'invio di istruttori militari o la partecipazione a campagne di bombardamento dall'alto - rischia di porre le basi per ulteriori conflitti o lacerazioni. O addirittura di rafforzare il Califfato. Ce lo hanno detto chiaramente in un recentissimo  incontro organizzato da Un Ponte Per con il dipartmento esteri di SEL due rappresentanti di ONG irakene, una delle quali è una associazione di yazidi, minoranza religiosa perseguitata da IS. Le armi sono usate come merce di scambio politico, per contendersi il dopo guerra in Iraq, in un'eventuale spartizione del paese. Hanno invece bisogno di aiuti umanitari per quel milione di rifugiati senza nulla. Lo rimarcheremo al momento nel quale il governo presenterà il prossimo decreto missioni, nel quale certamente  ci sarà la richiesta di copertura finanziaria per l'invio di un centinaio di istruttori militari in Iraq.
Spostandosi sul fronte siriano, intorno a Kobane appunto, la situazione è aggravata dalla contiguità della Turchia da sempre restia ad aprire varchi per rifornimenti a Kobane, anche se nei giorni scorsi la situazione pareva essersi sbloccata. Resta però il gioco geopolitico tra Ankara e Washington, che si dipana lungo la richiesta di una zona cuscinetto, chiesta a gran voce dalla Turchia per allontanare una presunta minaccia kurda. Recentissima poi la denuncia secondo la quale i turchi starebbero ostacolando il transito di peshmerga verso Kobane, mentre la guerra di propaganda nella quale si è dimostrata assai abile IS, ci mostra un reportage da Kobane presumibilmente - ma non effettivamente - conquistata. L'Italia e l'Europa dovranno far sentire la propria voce verso Ankara affinché non vengano frapposti ostacoli all'invio di rifornmenti ed aiuti a Kobane, in linea con la recente decisione del Consiglio dei Ministri Europei  svoltosi in Lussemburgo il 20 ottobre scorso.
Sinistra Ecologia Libertà non vuole far mancare la propria voce e la propria presenza accanto al popolo kurdo, ora come sempre, in passato ed in futuro. Aderiamo alla giornata di manifestazione internazionale del 1 novembre, nella convinzione che oggi la vera soluzione sia necessariamente da affidare alla politica. Alle Nazioni Unite, alla convocazione di una conferenza regionale, alla riconciliazione in Iraq, (il nuovo governo ha ora un ministro kurdo ad esempio) , ad un impegno per la transizione democratica in Siria, all'attuazione rigorosa delle sanzioni previste dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU per tagliare le fonti di sostegno ad IS. E poi una volta per tutte escludere il PKK dalla lista delle organizzazioni terroristiche, ed impegnandosi con determinazione  per la liberazione di "Apo" Ocalan,

mercoledì 22 ottobre 2014

Commissione Juncker- molto fumo e poco arrosto

Si vota oggi al Parlamento Europeo la proposta di composizione della  Commissione Juncker. I verdi voteranno contro, spaccatura nel gruppo S&D con gli spagnoli che non voteranno a favore delle proposte Juncker ed i belgi ancora indecisi. I liberali cercano di ottenere qualche concessione dell'ultim'ora. Sul tavolo il programma di investimenti di 300 miliardi di euro proposto da Juncker, e considerato dal governo Renzi la grande panacea ai mali dell'economia e della finanza europea. Non a caso il presidente del gruppo S&D il renziano Pittella sta facendo di tutto per convincere i suoi della bontà delle proposte. Peccato che oltre alle cifre, Juncker non formula alcuna proposta concreta ( a parte qualche rassicurazione sul fatto che le politiche relative all'industria farmaceutica ricadranno nelle competenze del Commissario alla salute o sulla revisione di alcune direttive sul lavoro) , nessuna specifica rispetto ai progetti o alle strategie.

domenica 19 ottobre 2014

Soldati italiani in Iraq: un ritorno al futuro?

La polemica in corso tra ministro  della difesa Pinotti e L’Espresso sull’eventuale invio di militari italiani a Nassiriya se letta tra le righe disvela una realtà assai preoccupante. Ascoltando l’audizione di Pinotti e del sottosegretario agli Esteri Della Vedova, si nota come di fatto in Parlamento viene semplicemente notificata la decisione di inviare un aereo cisterna e due Predator assieme alla eventualità di inviare circa 200 istruttori militari. Ma nulla ad esempio sull’accordo bilaterale con la Spagna confermato da El Mundo, né l’eventualità di prendere in carico una base militare .
Nassiriya o non Nassiriya, il punto è questo. Se poi colleghiamo questo alla discussione in corso sulla legge quadro sulle missioni all’estero che sottrarrebbe ulteriormente competenza e ruolo al Parlamento, c’è davvero da preoccuparsi. Il quadro che si sta delineando è il seguente: alla Difesa la gestione delle aree di crisi, la “hard diplomacy”, ed agli Esteri la “soft diplomacy” ossia la gestione delle ricadute umanitarie e le implicazioni diplomatiche. Quando dovrebbe invece essere il contrario. Alla diplomazia un ruolo prioritario ed alla difesa un ruolo ad essa subalterno.
Svuotamento del Parlamento, capovolgimento delle priorità ponendo in condizione di subalternità la diplomazia rispetto all’uso dello strumento militare, decisione di entrare nuovamente in Iraq in una pericolosa escalation. Senza nulla togliere alla necessità di contrastare IS, a parte mettersi l’elmetto, o inviare 300mila euro di aiuti, nulla più. Anzi ci si allinea ad una coalizione dei volenterosi (la vecchia “coalition of the willing”) rinunciando invece ad insistere su un approccio multilaterale in ambito ONU, ed al’eventuale configurazione di una proposta di invio di forza armata ONU di polizia internazionale e interposizione.
Quando invece tutti gli osservatori ed esperti del settore, statunitensi in primis, la strategia dev’essere decisamente più ampia dando priorità alle misure “politiche” ed “economiche” volte a sottrarre consenso e supporto ad IS. Su questo, il governo italiano tace. Come tace rispetto alla “querelle” in corso tra due alleati NATO, USA e Turchia rispetto al livello di coinvolgimento di Ankara nella lotta all’IS: Nulla viene detto sui bombardamenti contro i kurdi in Turchia, nulla viene argomentato sulla necessità di permettere l’invio di aiuti a Kobane. Mentre lo stesso governo oggi si oppone all’adozione di sanzioni europee cotro la Siria, in particolare per la fornitura di combustibile per aviazione. Grande è  la confusione sotto il cielo.

mercoledì 8 ottobre 2014

Mogherini passa l'esame del Parlamento Europeo, ed ora?

La Commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo ha approvato all'unanimità la nomina di Federica Mogherini ad Alto Rappresentante dell'Unione Europea. La candidata ha parlato per 3 ore, secondo i resoconti, concentrandosi molto sul dossier russo, adottando una posizione che alcuni commentatori hanno definito "hawkish", da "falco", ricordando l'urgenza di lavorare assieme all''Ucraina per porre freno alla strategia di Putin, scartando ogni possibile soluzione militare ala crisi ponendo qualche perplessità sull'effettivo impatto "politico" delle sanzioni. Con un colpo al cerchio ed uno alla botte ha però sottolineato l'importanza della Russia come interlocutore strategico, se non più come vero e proprio partner. Ha poi trattato la crisi del Medio Oriente e l'avanzata di ISIS, in particolare del rischio di avanzata di ISIS in Libia, rispondendo "correttamente" alle domande poste dagli europarlamentari. Sulla Palestina, ha accolto positivamente l'accordo tra Fatah ed Hamas, non rinunciando alla possibilità di proporre incentivi e discincentivi economici alle due parti per convincerle a tornare al tavolo negoziale. Ha ricordato l'urgenza di trattare allo stesso tempo crisi globali quali ebola e cambiamenti climatici, e fatto accenno alla necessità di avere un rapporto più stretto e positivo con i paesi asiatici. Non a caso nei prossimi giorni si terrà a Milano il vertice UE-ASEAN, un'appuntamento importante nelle relazioni tra i due blocchi, in particolare con la Cina e quelle che venivano definite le "tigri asiatiche". SI è impegnata a rivedere a fondo il funzionamento della "macchina" della diplomazia europea, il cosiddetto EEAS, predisponendo un "libro bianco" ed una valutazione a tutto campo, un passo osteggiato a suo tempo dalla Ashton, ed un maggior coinvolgimento del Parlamento Europeo. Non è mancato un riferimento al TTIP, considerato non solo importante dal punto di vista del commercio ma anche in termini più propriamente strategici. Ossia come cercare di reingaggiare gli Stati Uniti, ormai concentrati sull'Asia pivot, in un partenariato che in cambio di concessioni sul commercio e gli investimenti dovrebbe riattivare una nuova forma di partenariato politico transatlantico. Qualche all'emergenza migratoria. Insomma una performance valutata dai più come "eccellente", svolta abilmente, ma nella quale sembra mancare la concretezza di ciò che l'Unione Europea dovrà fare a fronte delle crisi e delle emergenze attuali. Insomma se da una parte la Mogherini ha passato l'esame della "macchina" burocratica dell'Unione Europea, dall'altra restano aperti molti punti interrogativi, che vanno al di là dei limiti "istituzionali" del suo mandato. Vale la pena di ricordare infatti che la politica estera secondo i trattati vigenti, resta nelle prerogative degli stati membri e l'Alto Commissario dovrà saper trovare un comun denominatore che assicuri un posizionamento "compatto" dell'Unione. Un problema di metodo e processo politico che però rischia di andare a discapito del contenuto dell'azione dell'Europa di fronte a dossier di grande rilevanza oggi e nel futuro.

lunedì 6 ottobre 2014

Bene Parlamento Europeo contro nomina Commissario per la Cultura


La notizia della bocciatura da parte della Commissione Cultura del Parlamento Europeo della nomina a commissario per la cultura del ministro degli esteri ungherese, Tibor Navracsics, del partito Fidesz - lo stesso del premier Orban - e' una buona notizia. Navracsic restera' nella Commissione ma non potra' prendere il 'portafoglio' su cittadinanza, giovani e cultura. Tuttavia il PE lancia un segnale forte verso quel governo definibile in tutto e per tutto fascista, e sta a d...imostrare che il PE nonostante i limiti del Trattato di Lisbona, puo' avere spazio per indirizzare la Commissione. Spazio e poteri che andranno rafforzati ulteriormente una volta che si riaprira' la discussione sui trattati che secondo quanto deciso dal Parlamento stesso dovra' iniziare il prossimo anno. Alla bocciatura di Navracsics potrebbe seguire quella ancor piu' pesante per le ripercussioni, della candidata slovena al portafoglio energetico Alenka Bratushek , dopo la pessima 'performance' di oggi dinnanzi alla commissione parlamentare competente. Cosi' il neoeletto presidente della Commissione Juncker potrebbe trovarsi costretto a rimescolare le carte. Rivendicare la centralita' di un Parlamento Europeo rafforzato nelle sue prerogative in un progetto di Europa federale sara' essenziale. Ciononostante pare che tutta la discussione sull'Europa sia tuttora ancorata al tema delle compatibilita' finanziarie e macroeconomiche. E di segnali verso la costruzione degli Stati Uniti d'Europa se ne sono visti pochini nel semestre italiano, che appare chiuso nella morsa dell'austerity o del suo superamento ipotetico, dimenticando che il problema europeo e' un problema di deficit democratico non di bilancio. La parola dovra' passare ora all'altra politica, quella esercitats dal basso dai cittadini e cittadine d'Europa per innescare, accanto alla resistenza ed alla proposta, un autentico processo costituente. Non e´un caso che la decisione della Commissione Cultura sia stata in gran parte risultato di una forte pressione dal basso di varie associazioni e movimenti europei quali European Alternatives

sabato 20 settembre 2014

Cambiamo il sistema non il clima!

Firenze stravolta da una "bomba d'acqua". Stavolta poco c'entra il dissesto idrogeologico, ma molto c'entrano gli eventi estremi che caratterizzano questa fase ormai irreversibile nel ciclo dei mutamenti climatici. Dovremo limitarci ad adattarci, mitigare l'impatto? Oppure avere il coraggio di prendere un'altra strada? Gli Uffizi e Palazzo della Signoria danneggiati. Qual'è il vero petrolio del paese signor Presidente del Consiglio. Quello della storia, della bellezza, del territorio, o quello che dovrebbe restare sottoterra e che invece con il suo decreto SalvaItalia lei ed il suo governo vorrebbero pompare dalle viscere della Basilicata, o dall'Abruzzo, o dai mari di Sicilia ed Adriatico? Magari con tecnologie di prospezione ad alto impatto che qualche giorno fa avrebbero tanto spaventato un gruppo di capodogli al punto di farli riemergere rapidamente con conseguente spiaggiamento e per alcuni di loro morte per embolia? Oppure continuando ad alimentare il paese con gas naturale, con la fitta rete di gasdotti, TAP ed affini - gas naturale sempre proposto come "combustibile di transizione"per una transizion e verso un futuro libero da combstibili fossili sempre più lontano dalle menti dei nostri decisori politici. Domani si marcerà per il clima e la giustizia climatica in mezzo mondo. Credo sia giunto il momento di rilanciare una campagna nazionale per contrastare l'avanzamento della frontiera petrolifera nel nostro paese, in sostegno alle comunità che resistono, in supporto alle vere economie di transizione. Insomma cambiamo il sistema non il clima.

venerdì 19 settembre 2014

Il diritto alla salute è sacrosanto, altro che rientro sul debito!

Tagliare le spese per la sanità ( o meglio per il diritto sacrosanto alla salute) e le pensioni per rientrare sul debito è un crimine contro l'umanità. Basti pensare alle denunce della prestigiosa rivista Lancet rispetto all'impatto dei piani di austerità sul sistema sanitario greco, italiano e spagnolo. Vale la pena di ricordare anche che qualche anno fa il Consiglio ONU sui Diritti Umani aveva adottato una risoluzione su debito e diritti umani che riconosceva chiaramente che i governi dovranno mettere al primo posto i diritti dei propri cittadini e cittadine rispetto agli interessi dei mercati e della finanza. Eppoi di recente l'Assemblea Generale delle NU ha adottato una risoluzione sul debito pubblico, nella quale si propone una procedura di arbitrato indipendente. Vero è che tale risoluzione si fonda principalmente sul caso dei fondi avvoltoio in Argentina, ma applicabile anche in altre circostanze. Allora signor Presidente del Consiglio ci pensi su bene prima di dare seguito alle raccomandazioni della signora Lagarde che andrebbero rimandate al mittente con forza e determinazione.

giovedì 18 settembre 2014

Scottish pride, in the name of love

Scottish pride. Per una Scozia repubblicana, progressista, libera dal nucleare. Esistono varie forme di nazionalismo, quello becero, identitario e xenofobo, e quello "positivo" fondato su presupposti di giustizia, internazionalismo, rispetto della propria identità ma anche apertura al mondo. Questo mi pare sia il caso dei movimenti per il si in Scozia. Una scossa forte all'establishment di Londra, alla loro ostinatezza a tenersi la loro sterlina, le loro flotte nucleari, le loro centrali nucleari, la loro regina. Una Scozia indipendente che entra a far parte dell'Unione Europea, metterà in discussione la propria appartenenza alla NATO. Che vivrebbe una contraddizione, certo. quella di fondare il suo benessere possibile sul petrolio, né più e né meno come la Norvegia. Una contraddizione da tenere a mente. Ne parlai con un mio amico e collega di lavoro scozzese qualche tempo fa. Mi disse, guarda ci sarà una sorpresa. Ma la cosa interessante che mi disse riguardava la decisione del governo scozzese di dare in affidamento a cooperative auto-organizzate la gestione e tutela di terre comuni, intere isole, ricoosciute come "commons". Sulle due forme di nazionalismo, ricordo un saggio assai illuminante e "visionario" di John Ralston Saul, un giornalista canadese, che nel suo "The end of globalism" del lontano 2005 già prefigurava a fronte della caduta del mito della globalizzazione, l'insorgere i varie forme di ritorno allo stato nazionale. Credo che nel caso scozzese, vadano invece indagate le radici "sociali" e "di sinistra" del movimento indipendentista, per evitare di cadere in facili malintesi o intepretazioni di comodo. Fatto sta che anche in questo caso, come nel caso del Kurdistan, dell'Iraq, dei Balcani, del Medio Oriente, dell'Africa, dell'Asia Centrale, l'elemento cardine della politica estera e non solo, lo stato-nazione si dimostra essere un contenitore ormai incapace di cogliere le trasformazioni del concetto di cittadinanza, appartenenza e autonomia. Sarà pertanto urgente elaborare nuove categorie, quali quella del country-state, "stato-paese" ad esempio.

Casta e rappresentanza: gli equivoci di Renzi

Allora, una cosa non capisco. tutta sta retorica contro la casta, che i parlamentari devono lavorare, che sono lontani dalla quotidianità, non comprendono la realtà dei cittadini comuni. E' vero, per averlo sperimentato per ben sette anni, ll rischio di vivere in una bolla è alto, l'urgenza di tenere i piedi ben saldi nella realtà pure. Io ho avuto due fortune. Una quella di avere come riferimento una rete di movimenti e società civile che mi indicavano la direzione. Ed una rete di "amazzoni", già di donne, amiche, compagne, la mia compagna, le donne della mia famiglia, attiviste che a volte anche bruscamente decomponevano ogni possibile incrostazione "istituzionale", e mi tiravano fuori da quella bolla. Oggi il piano di Renzi per far rispettare il suo ruolino di marcia e mettere al lavoro i parlamentari 5 giorni a settimana h24 mi pare un ulteriore attacco all'autonomia del Parlamento, e paradossalmente , chiudendo gli eletti e le elette in una campana di vetro, accessibile solo a pochi, preferibilmente alle lobby di turno li fa tornare ad essere "casta". Il Parlamento ed il parlamentare diventerebbero così entità a sé stante, ai suoi servizi. I parlamentari in quanto rappresentanti del popolo devono avere tempo, energie e risorse per incontrare il popolo, dialogare, toccare con mano, creare relazioni essere presenti nei luoghi di conflitto, contraddizione e ingiustizia. Questo è il modo per restituire senso alla politica ed alla rappresentanza

martedì 2 settembre 2014

Ucraina. La neutralità unica via d'uscita, ma come?

Ok ora che Russia e NATO incrociano le sciabole, e forte è la retorica delle armi e della forza. è il caso di riparlare seriamente dell'unica vera prospettiva per l'Ucraina, quella della neutralità attiva o al limite di "doppia partnership". Il concetto è chiaro, si rifà non tanto all Finlandia ma all'Austria del dopoguerra, l'approccio è stato elaborato il punto è decidere come ci si arriva. Anzitutto evitando di almentare il fuoco della politica di potenza, e il rapido U turn di Mrs PESC di oggi certo non aiuta. Poi definire e obbligare le parti in conflitto  ad un cessate il fuoco, sostenere un processo di riconfigurazione dell'assetto territoriale dell'Ucraina che preveda una confederazione con status di autonomia per le provincie "russofone" simile all'Alto Adige, si faccia chiarezza sulle corresponsabilità in crimini contro l'umanità e crimini di guerra da ambo le parti (ossia la cosiddetta "transitional justice"), si disarmino le forze paramilitari da ambo le parti, e si definisca con un processo negoziale sotto la tutela delle Nazioni Unite che preveda il riconoscimento dello status di paese neutrale per l'Ucraina

Quello che Renzi non dice sulle politiche del lavoro in Germania

Dice Matteo Renzi: il nostro esempio per le politiche sul lavoro è la Germania. Ma lo sa Renzi che la Germania è solo seconda all'Italia in termini di "working poor"? E che per cercare di ovviare al problema - quello di salari così bassi da non permettere di poter avere una vita dignitosa - la Germania ha deciso di adottare un salario minimo di 8,50 euro l'ora, fino a ieri inesistente? Certo questa era la condizione principale per l'accordo di Grosse Koalition tra la Merkel e l'SPD. Resta il fatto che minijobs e flessibilità non funzionano neanche nel modello tedesco, e parliamo della Germania dove il welfare state ancora supplisce seppure in parte, ed i fondamentali macroeconomici nulla hanno a che vedere con la recessione cnostrana. Allora, prima di strizzare l'occhio alla Merkel, per tentare di imbonirla su dossier assai pesanti (lo scambio tra Merkel e Draghi e la pantomima della telefonata stanno là a dimostrarlo) si provasse a cambiare la prospettiva. E leggere il tema lavoro dalla lente dei diritti e della dignità di chi lavora ed anche di chi lavoro non ce l'ha (vedi ad esempio attraverso il reddito di cittadinanza) , non viceversa.

lunedì 1 settembre 2014

La nemesi storica della NATO

La prossima settimana si terrà in Galles il summit annuale della NATO. Un incontro che - si prevede - sarà quasi esclusivamente centrato sull'Europa dell'Est e la crisi ucraina. "Back to square one", direbbero a Washington, o forse una nemesi storica, per riassumere in tre parole la NATO di domani Quella di ieri l'altro - dopo la tanto teorizzata "fine della storia" per dirla con Fukuyama, era in cerca disperata di una nuova mission dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del Patto di Varsavia, Quella di ieri interveniva in maniera fallimentare in Afghanistan, prima operazione "out of area and out of mission", e poi di volta in volta tentando di riconfigurarsi come "fornitore globale di sicurezza". Libia docet. Oggi si torna da capo. Il nemico è lì dietro agli Urali, la cortina di ferro diventa una frontiera indefinita, fissata dalla NATO con la sua strategia di allargamento ad est e da Putin con la forza muscolare delle sue armate o della pressione sugli approvvigionamenti energetici. Così vedremo anche forti pressioni per aumentare le spese militari, fino al 2% del PIL. E notare bene, in un "op-ed" recentemente pubblicato dal Wall Street Journal a firma di Fogh Rasmussen e del comandante militare NATO Philip Breedlove si parla del nuovo pericolo ad Est, ma non si cita neanche di striscio l'Afghanistan, forse ad esorcizzare il fallimento della strategia di riconfigurazione del mandato della NATO. Con che posizione andrà l'Italia? Sull'Afghanistan ad esempio, come verrà gestito il passaggio tortuosissimo - viste le forti diatribe sulla convalida delle elezioni presidenziali nel paese - da ISAF alla missione di addestramento alla quale l'Italia ha già detto di voler partecipare con propri militari? Con la Libia alle porte, risultato evidente di ulteriore fallimento della cosiddetta "mission creep"? Tra le tante tracce di analisi che questi sviluppi offrono, due elementi possono essere presi in considerazione. Uno riguarda il rischio che tornando alla sua vecchia "raison d'etre", la NATO ritroverà legittimazione politica e pretesto per chiedere maggior fondi nel suo ruolo di alleanza militare, ricompattando forse anche i paesi membri più recalcitranti dietro un obiettivo comune, e riportando indietro di anni anche l'analisi geopolitica e geostrategica. Così verrà tenuta in ostaggio anche la prospettiva di un'Europa che si possa liberare un giorno dalla cappa della NATO e degli Stati Uniti e diventare soggetto terzo di vera mediazione nei conflitti. Mentre Obama fatica a tenere l'asse del "Pivot" asiatico in chiave anticinese. E' difficile poter immaginare quale spazio potrà esserci per un'alternativa pacifista in questo scenario, nel quale la prospettiva di una politica europea di sicurezza comune è ancora lontana, come anche la revisione dei Trattati, in quella che si preannunciava come legislatura costituente ed invece rischia di restare ancorata alla discussione tra austerità e crescita. Eppoi sulle spese militari, il Pentagono ormai ha due budget uno per il riarmo per guerre convenzionali con deterrente nucleare e via dicendo, l'altro per le guerre asimmetriche. Per i paesi NATO ai quali si chiederà di aumentare le spese militari , e di contribuire al contempo all'annunciato "readiness action plan" verso Est , potrebbe significare doppia configurazione strategica, con alti costi finanziari e politici. Per quanto ci riguarda, questo elemento evidenzia più di una contraddizione. Quali prospettive infatti ci possono essere in questo scenario per un'approccio diverso alla sicurezza e per un rilancio dell'opzione di disarmo nucleare? Giacché l'Italia ospiterà bombe atomiche USA di nuova generazione su F35 riconfigurati che potranno arrivare a Mosca. Allora quale possibile ruolo di "mediazione" così tanto caldeggiato dalla neonominata Mrs PESC sarà possibile se l'Italia - stando così le cose - diventerà la punta avanzata del deterrente nucleare NATO e USA? Insomma una questione che non potrà essere facilmente liquidata a colpi di hashtag.

mercoledì 27 agosto 2014

Human rights for the Eritrean people: Italian role and responsibilities




Francesco Martone, head, international department, Sinistra Ecologia Libertà 

Speech for the Bologna Summit 2014: "Eritrean solutions for Eritrean problems"


30 August 2014


Dear all

let me first of all thank you for the invitation to attend the second edition of the Bologna meeting. It is a great honor and pleasure for me to be here both on a personal basis and as a representative of the Left, Ecology and Freedom Party.

This is a further step towards a stricter exchange and collaboration between my party and you all, in the common quest for democracy and respect of human rights and justice in Eritrea.

I have been engaged on Eritrea since the time when I was a senator in Italy. I was a member of the human rights committee of the Senate then and very much engaged in migrant rights' issues, especially as regards detention camps and the Mediterranean. It was then that I got to meet with Don Mussie Zerai and other Eritrean youth and activists that told me about the root causes of migration and the exodus towards Europe.

Since then I was engaged in trying to highlight the co-responsibilities of Italian companies and political circles in backing up the Afeworki regime, and to try and contribute to develop a truly post-colonial approach to Italian policies towards its former colonies and Africa.

I learned about the hardship of those that struggled to create networks for democracy abroad, the fear and threats they had to resist, the courage that you all have step by step shown in coming out publicly, create linkages, start challenging the Afeworki regime openly. A good friend, daughter of one of your Independence hero, then prosecuted by the regime and left to die in a jail in Asmara, told me when you organized the first demonstration in front of the Eritrean embassy in Rome: “here we go, here they are now. This is a great step”. To me that used to take for granted that people could gather and take to the streets in my country that was somehow a novelty. But then I quickly realized how crucial that moment was for you all.

Since then my party started to actively engage on Eritrea, we invited a representative of the Eritrean Youth Solidarity for Change (EYSC) at our National Congress this year and have been mobilizing our Members of Parliament on various occasions.

I wanted to start with a personal note to try and highlight the three elements that seem to be key to me to define what would be the responsibility and role of Italy in supporting democratic change and justice in Eritrea. When we think about the various levels of action, these can be divided in three, and all three are strictly intertwined.

The first one is here, in Italy, and is related to the obligation of the Italian government to ensure that Eritreans that make it to the Italian shores are given access to the right to seek asylum or refugee status, as well as for those that live here ,the right to be free from fear, to freely exert your citizen's right to freedom of expression, association, political action. It seems to me that there is a sort of tendency to “normalize” the official narrative around Eritrea. I was quite concerned in reading a recent report by the International Crisis group titled: “ Ending the exodus” that among other things almost gave the impression that many Eritreans leave the county just because they want to avoid the draft and then to send remittances back home. This assumption - if gone unchallenged - would in fact help assimilate Eritrean migrants to economic migrants and “depoliticize” the root causes of migration. Under this assumption Eritreans would hardly be eligible for asylum or refugee status.

Furthermore, the Italian government should make a clear effort to ensure that there is no undue interference of the Eritrean government into what Eritrean citizens do and say in my country. I do not want to go too much into the details here but I am sure all you you fully understand what I mean.

Then we have the second level, the in-between. The tragic route between Eritrea and Italy. The detention in camps in Libya, the inhumane treatment of migrants, fell prey of human traffickers, and then risking their very survival sailing through the Mediterranean. When I think of how to try and ensure justice and dignity to the Eritrean people I cannot avoid thinking of those that lost their lives, and their families, those that stay in Eritrea, and that are caught between grief, pain and fear. And those that were waiting for their relatives to join them in Europe. Many of these people have no name, they are “disappared” . Hence dignity in this case can be partly ensured by giving them a name, giving their families the right to mourn them.

Justice here is not a theoretical matter. It has to do with the root causes of migration and with the denial of the people's human right to mobility. Justice can be made when securitarian policies that criminalize migrants and refugees are canceled and substituted with programmes that protect people's lives, accompany them into a right to safe passage, and then access to procedures to seek refugee and asylum status are ensured.

In a word, the Italian government in its current role as chair of the European Council of Ministers should seek to fundamentally change the assumptions behind Frontex and Mare Nostrum . It must ensure that while these are deeply retrofitted to be anchored on a human-rights based approach and not on to securitarian paranoia or the priority to secure borders, the same are linked to a new asylum and migration policy incountry. It would be tragic that while saving a life on the sea, that same life then would be at risk if the person is forcibly returned to his country of origin.

Third, but not least, the very reason for so many people to escape from Eritrea, a brutal regime that leaves no other choice. A regime that is now shaken and on the verge of crumbling down. Eritrea has always been seen as a country in eternal transition, maybe in the hope that the events would lead to the end of Afeworki's rule, be it the long wave of Arab spring, some geopolitical turmoils, the turbulent scenario in the Horn of Africa. Or is health conditions. A transition to nowhere, unless the international community takes a courageous stance and finally decides to deal with the regime and the overall region ina comprehensive and coherent approach. My party believes that the Italian government in its presidency should call for a regional conference on the Horn of Africa, whereas Europe can play a key convening role, to address all the outstanding crises that somehow prop up the Afeworki regime. First and foremost, the solution to the long standing conflict between Eritrea and Ethiopia, the “Badme question”, that require a strong initiative by the UN to achieve a final settlement. 

Like in a domino game, once a piece falls the rest of the pieces might fall. But such a domino effect needs to be governed, accompanied by giving you, your movements, your platforms a proper role and recognition. As the title of this conference rightfully states: " Eritrean solutions to Eritrean problems". 

You are the basis for the future of Eritrea. Experience shows that after the fall of a long standing regime, the risks of civil strife are real in the lack of “intermediate” bodies, and political actors that would “govern” the transition. Now for contingent reasons, this will be your task. In spite of this, and of the fact that this might be the crucial moment to head for change in Eritrea, the Italian government seems to be heading towards a different direction, A recent visit in Eritrea by the viceminister of Foreign Affairs, has given the impression that this government is more interested in propping up the Afeworki regime – an old trick that of preserving the status quo in the fear that a change might unleash unexpected consequences that might not fall into the national interests.

This is “realpolitik” playing, not “smart” politics. Smart politics would look into ways to empower the future actors of a new Eritrea, recognize their role in future state building, while at the same time ensuring that the current regime is put at a corner and forced to negotiate. How? By severing the channels that support the regime, be them investments or economic and trade relations. Stopping smuggling weapons, and support a concerted effort to punish government-backed human traffickers to begin with. And then actively work for an international conference, to develop a road-map to democratic transition, that might also include representatives of the current regime, but not Afeworki or its cronies. Not the kind of message that came from the first visit of an Italian government high ranking official after many years. 

Breaking the isolation is not the best way to contribute to democratic change in this case. Constructive engagement requires a clear strategy. The strategy here, seems more to be that of stemming the flow of migrants to secure the Mediterranean borders rather than securing a path towards freedom ad democracy for you all. Point is that by doing so the Italian government is asking an arsonist to extinguish the fire he has put up.



venerdì 22 agosto 2014

Guerre vere e guerre di parole

Quando rifletto sulla guerra ci sono alcuni testi di riferimento che riaffiorano nella mente. Tra questi due sono imprescindibili, quello di Susan Sontag sul dolore degli altri e quello di Chris Hedges, reporter di guerra, dal titolo “La guerra è una forza che dà significato” “War is a force that gives us meaning”. Da anni ormai, per impegno politico, da nonviolento e pacifista, mi trovo a fare i conti con la guerra, in tutte le sue declinazioni. Umanitaria, asimmetrica, dichiarata o meno, per procura.
E per anni ho assistito a quel mix di propaganda, costruzione del caso, uso strumentale delle vittime, approssimazione o micidiale cinismo che accompagna e precede ogni volta una scelta per l'uso diretto o indiretto delle armi. E' come se saltassero le categorie analitiche. Il ricorso a termini che innescano una reazione quasi pavloviana nel lettore e fruitore per determinarne il posizionamento. Salta la capacità critica di questionare e invocare sempre ed in ogni modo il principio di precauzione. Così se si parla di genocidio, automaticamente si dice che il nemico da combattere è un nazista, e automaticamente si assimila chi lo combatte ai partigiani del “nuovo millennio”. Se si parla di “sterminio di cristiani” si evocano persecuzioni alle quali si deve immediatamente ricorrere con l'uso della spada. Non mi si fraintenda, io credo che oggi ISIS rappresenti qualcosa che deve essere affrontato con determinazione, è una minaccia che va ben oltre l'aspetto religioso, Una minaccia che deve essere neutralizzata. Come. Non certo continuando a discutere in circolo. Si vabbé erano stati armati dagli americani, beh si e allora, c'è sempre di mezzo il petrolio. No però perché i kurdi non hanno l'indipendenza? E torniamo sempre al punto di partenza. Il primo punto che secondo me imprescindibile per affrontare “politicamente” la vicenda è quello di sforzarsi di uscire dalle vecchie categorie di analisi nella consapevolezza che questo fenomeno non rientra in quelle categorie. Secondo, invocare sempre e comunque il principio di precauzione sull'uso della forza, ma non escluderlo a priori. Si vabbé , belle parole mentre la gente viene massacrata. Si vabbé ma quanti poi sono massacrati? E perchè i governi non si indignano per le migliaia di morti a Gaza? Diciamocela tutta: la situazione che si è venuta delineando in Medio Oriente è talmente complessa, intricata, di conflittualità policentrica, che se cerchi di risolvere uno dei conflitti si riaccende l'altro. Per questo c'è bisogno di un lavoro di prospettiva politica, e di elaborazione di una soluzione politica. Si vabbé parli facile, tu, quelli vengono massacrati e c'è bisogno di fare presto. Si però da quando si è iniziato a parlare di mandare armi a quando le armi italiane arriveranno, sono passate almeno due-tre settimane. Lo stesso tempo operativo necessario per proporre - visto che l'Italia sarebbe presidente di turno della UE e ambisce al posto di Alto Commissario - Mr o Mrs PESC a seconda del caso - di far approvare dal Consiglio dei Ministri Europei una proposta di convocazione d'urgenza del Consiglio di Sicurezza per autorizzare e spostare sotto ombrello ONU alcuni “battle group” europei da schierare a difesa dei civili inermi catturati tra due fuochi. Giorno più giorno meno. Quel che manca nella “soluzione” prospettata dal governo italiano è proprio la politica. Senza la quale non sarà possibile alcuna soluzione effettiva alla questione. Mi sarei aspettato una discussione prima del dibattito parlamentare che potesse prospettare vari scenari ed ipotesi, sulle quali discutere, non un “coniglio uscito dal cilindro” che sembra più informato da criteri di propaganda che altro. E che fa leva sulla nostra giusta indignazione ed orrore per l'operato di ISIS. Fatto sta che si assiste di nuovo ad una discussione virtale o meno tra “interventisti o non interventisti”, gente di sinistra che pensa di rispolverare categorie dell'imperialismo o antiìimperialismo, chi ti accusa di legittimare ISIS se cerchi di comprendere le cause della sua avanzata o chi ti dice che sei imbelle se provi a mettere nella discussione proposte alternative, che non precludono – sia chiaro – l'uso della forza. Ecco vedi allora vuoi la guerra. Ed hai voglia a spiegare che l'uso della forza in determinate condizioni e secondo determinati criteri è l'unica maniera per difendere gente inerme. Si ma che interposizione, per l'interposizione ci vuole il consenso di ambedue le parti in conflitto. Altra confusione, non si parla di interposizione ma di polizia internazionale altra cosa. E così via: io sono per l'indipendenza dei kurdi, quindi si diano le armi ai peshmerga. E si scorda che ormai il tema dell'indipendenza magari è solo nella testa di Barzani e dei suoi che gli altri kurdi parlano di “autonomia” democratica. No così giusto per dire. Quel che davvero mi preoccupa oggi non è solo il modo con il quale – in maniera assai sbrigativa e “arimediata” questo governo sta liquidando la questione contingente. É che la maniera con la quale è stata trattata ed “impacchettata”, accede delle spie di allarme alle quali credo sia necessario prestare attenzione. Che non è mica detto che la prossima mossa non sarà quella di proporre un'intervento internazionale in Libia. Quella Libia insanguinata da milizie che si fanno la guerra tra di loro, magari con armi che anche l'Italia “illo tempore” ha provveduto a fornire sottobanco.
Like