mercoledì 24 febbraio 2016

War is in the air

Per il Manifesto, 25 febbraio 2016


L’ennesimo rinvio della votazione del parlamento di Tobruk sul  governo di unità nazionale  di Al Serraj, ed i recenti sviluppi sugli aspetti  militari del dossier Libia confermano quel che già si immaginava per il futuro della Libia,  ma chiamano ancor di più in causa la politica di casa nostra. C’è  del già visto nel susseguirsi di notizie “ufficiali” ed “ufficiose” nel detto e nel non-detto che permea  la comunicazione del governo Renzi sulla Libia. Da una parte la versione “ufficiale” politicamente corretta, che mette in secondo piano l’uso della forza, la spada nascosta dalla feluca della diplomazia, quella che dovrebbe vedere come “condicio sine qua non” di ogni intervento in Libia   la creazione di un governo di unità nazionale. Una diplomazia cui l’Italia vorrebbe mettersi per la stabilizzazione e ricostruzione della Libia. 

Continua così lo “spin” sulla subordinazione   di ogni opzione militare alla soluzione politica, ma tale “subordinata” è ormai saltata nei piani di Washington e Parigi, ed è comunque destinata a fallire. Lo dice chiaramente in un articolo su Foreign Policy Issandr El Awkani “How much of Libya does the Islamic State control?” quando afferma che senza un dialogo dal basso tra i vari attori un governo di comodo di unità nazionale che chiederebbe un intervento esterno creerebbe ancor più caos dal quale il DAESH potrebbe beneficiare. Un approccio dal basso, che veda ad esempio la convocazione di una “jirga” dei leader locali, tribali, e quel che resta della società civile libica dovrebbe essere la chiave , come suggerito da Mattia Toaldo dell’European Council for Foreign Relations. La feluca appunto. 

Invece, la realtà ci  dice che la spada viene già usata seppur a dosi omeopatiche. Come si potrebbero spiegare altrimenti la decisione di spostare in Sicilia 4 AMX italiani, e più di recente quella presa in tutta segretezza e rivelata ben un mese dopo dal Wall Street Journal, di autorizzare l’uso della base di Sigonella per drone armati a stelle e strisce da mandare proprio in Libia?  Ed il  recente bombardamento delle postazioni ISIS A Sabratha parte degli F16 USA prontamente condannato dal parlamento libico internazionalmente riconosciuto, e che ha ucciso -  tra gli altri - due ostaggi serbi, scatenando l’indignazione di Belgrado? La realtà dei fatti  svuota di significato ogni tentativo di dare legittimità alla soluzione politica, per quanto debole se non controproducente essa sia. E’  inquietante  questa divaricazione tra retorica e realtà, questo camminare sul filo del rasoio dell’ambiguità, al solo scopo di assicurare all’Italia o meglio al premier,  un posto adi capotavola del futuro della Libia. Scelte strategiche e tattiche di comodo, dettate forse più dall’urgenza di tutelare gli interessi dell’ENI ed  arginare l’eventuale flusso di profughi dalle coste libiche. 

Anche se non nella figura dell’inviato speciale ONU sulla Libia, l’Italia le sue pedine le ha piazzate eccome e portano l’elmetto non la feluca: dal generale   Serra “consigliere” militare di Kobler, all’Ammiraglio Credendino a capo della Euronavfor Med “Sophia”.  Il quale in un memo interno pubblicato da Wikileaks nei giorni scorsi ribadisce che un domani le forze dell’Unione Europea - oggi sulla carta  in missione di “salvataggio” e contrasto al traffico di esseri umani -  si troveranno ad operare anche sul terreno libico , e che semmai il problema sarà quello di coordinare le iniziative e le attività con la “coalizione internazionale”.    

Tra questo detto e non detto, nel gioco degli specchi tra cosa viene comunicato, cosa si decide e quali siano le conseguenze e le implicazioni di tale decisione,  Matteo Renzi si appresta ad assicurare il contributo italiano alla guerra all’ISIS non solo in Libia ma anche in Iraq, dove il contingente italiano, con i suoi 1300 effettivi  sarà secondo solo a quello americano, e poco conta anche in questo caso se andranno o meno a difendere la diga di Mosul, o a partecipare ad operazioni di evacuazione di feriti in campo di battaglia. Questo era stato chiesto dal segretario alla difesa Ashton Carter e da Obama questo Renzi concede, con l’avallo del presidente del Consiglio Supremo di Difesa. Tutto questo stride con il rinnovato appello del Presidente Mattarella per un seggio per l’Italia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di quelle Nazioni Unite il cui Segretario Generale proprio nei giorni scorsi aveva invocato con forza la soluzione politica alla questione DAESH, in un nuovo rapporto sulla lotta al terrorismo internazionale. Parole che si perdono ormai tra i venti di guerra.

sabato 13 febbraio 2016

Nel labirinto di sabbia della Libia

articolo per Mosaico di Pace, marzo  2016

L’annuncio dell’accordo per un governo unitario in Libia potrebbe, a cinque anni dall'intervento internazionale che portò alla caduta del regime di Gheddafi, dare il via libera ad una nuova avventura militare in Libia, in un contesto caratterizzato dalle difficoltà di raggiungere una soluzione politica tra le varie fazioni e dalla presenza crescente del Califfato islamico (DAESH). Di fronte alla prospettiva di una nuova guerra alle nostre porte, dei rischi che questo potrebbe comportare per una soluzione politica e diplomatica alla crisi che attraversa tutto il Medio Oriente ed il Maghreb, all'incolumità di migliaia di persone in cerca di rifugio o asilo politico, è urgente uno sforzo comune per la pace. 
 La Libia racchiude molti aspetti legati tra loro e se non si fanno i conti una volta per tutte con il passato e la storia coloniale dell’Italia non ci sarà soluzione politica che tenga in Libia, come nelle crisi nel Corno D'Africa o nei tentativi di governare i flussi migratori da quella tormentata regione. La Libia di oggi è  risultato  del fallimento della dottrina dell'ingerenza umanitaria. Odyssey Dawn, sulla carta sferrata  per proteggere la popolazione civile, si dimostrò essere  pretesto per un cambio eterodiretto di regime. Senza nulla condonare allo spietato regime di Muhammad Gheddafi, resta un bilancio fallimentare, conseguenza della scelta di smantellare ogni residuo di “architettura” di governo del paese, quell'ossatura sulla quale ricostruire semmai un tessuto connettivo sociale e politico di dialogo e condivisione.  Così la Libia si è spaccata in due, tra governo e parlamento di Tripoli, più vicina alla Fratellanza Musulmana, e Tobruk, sostenuto dall'Egitto e dalle potenze “occidentali” preoccupate di prevenire l'islamizzazione del paese.   
 Questa segmentazione “verticale” della Libia   non rende giustizia della complessità della questione, testimoniata dalle grandi difficoltà incontrate nel tentativo dell'inviato speciale delle Nazioni Unite Martin Kobler di costituire un governo unitario nelle mani di un premier, Al Serraj,  fino a poco tempo fa “esiliato” in Tunisia e che nonostante l'accordo raggiunto sulla carta a febbraio non gode di tutta la legittimità necessaria né a Tobruk che Tripoli. Una soluzione eterodiretta fondata su basi fragili quindi ulteriormente pregiudicata dall'altro fronte di instabilità, oltre al DAESH, delle tribù, numerosissime in Libia, che rappresentano un potere territoriale di grande rilevanza, e che rischiano di sentirsi escluse dalla partita della ricostruzione dell'assetto di governo del paese.  Ciononostante, si è rinunciato a perseguire una via alternativa che mettesse attorno allo stesso tavolo tutti gli attori politici e sociali in Libia, incluse le tribù e le autorità di governo locali.  Una situazione nella quale la fretta di sferrare un colpo micidiale al DAESH, che   in Libia sta  consolidando la sua presa dopo varie battute d'arresto in Siria ed Iraq, è pessima consigliera. 
La fragilità della soluzione politica condizione necessaria per un’intervento militare, verrebbe aggravata da un intervento militare internazionale che potrebbe trasformare la Libia nell'ennesimo teatro di una guerra “santa” del DAESH contro l’Occidente, nella quale si innesta una guerra per procura tra potenze regionali e non. Basta leggere la trama dietro il generale Khalida Haftar, signore della guerra già gheddafiano, fortemente sostenuto dal Cairo, reo di crimini di guerra nella sua operazione “Dignità” volta a reprimere assieme al DAESH ogni formazione islamica organizzata. Dietro Haftar  soffiano gli interessi geopolitici e strategici del Cairo che vorrebbe maggior controllo, fino a prefigurare la sua annessione,  sulla regione della Cirenaica, chiave per le rotte energetiche. Quelle del gas naturale, che per Roma rappresentano una partita di tutto rilievo, in particolare nella strategia ENI di creare un hub per la redistribuzione del gas proveniente da Egitto, Libia e Israele. Il prezzo da pagare per Roma è il silenzio sulle violazioni dei diriti umani in Egitto, paese tornato alla ribalta con l’efferato assassinio di Giulio Regeni, o sui diritti del popolo palestinese.   
Dai pozzi dell'ENI di Mellitah   già sotto attacco da parte delle milizie del DAESH, al gasdotto Greenstream, alla partecipazione del Fondo Sovrano Libico (il LIS) con quote azionarie in varie imprese e banche italiane, risultano evidenti le ragioni dell'insistenza di Palazzo Chigi per un ruolo guida nella ricostruzione e stabilizzazione del paese. Che  si tratti o meno di mettere a disposizione assetti aerei o truppe speciali, addestratori o carabinieri incaricati di assicurare l'ordine pubblico a Tripoli,   ci si sta preparando ai vari scenari, ognuno con i suoi rischi evidenti di trascinarci in un Vietnam tricolore, pena l'essere anticipati da altri alleati, quali gli Stati Uniti, o l'Inghilterra o la Francia, che già spinsero sull'acceleratore dell'intervento militare a suo tempo. Per non parlare infine della questione migranti e di una nuova possible ecatombe dopo quella che nel corso degli anni ha trasformato il Mediterraneo in una fossa comune, e che potrebbe riattivarsi qualora in Libia esploda un conflitto sanguinoso e senza prospettive di pacificazione effettiva. Con persone che spingono per entrare in un'Europa nella quale rischia di saltare tutto il sistema Schengen. 
In questo quadro quale sarebbe il compito di chi ha a cuore la pace? Anzitutto quello di mettere in crisi il ricorso allo strumento militare, evidenziarne le contraddizioni ed i rischi per la pace e la stabilità e rilanciare su ipotesi di lavoro che mettano al centro la politica ed il dialogo per la Libia e di polizia internazionale rigorodamente sotto l’egida ed il comando dell’ONU, intelligence e prevenzione per quanto riguarda il DAESH. Andrà poi svelata senza mezzi termini la vera posta in gioco nella  politica italiana in Medio Oriente, tra cui gli interessi d'impresa dell'ENI rilanciando e chiedendo con forza una strategia energetica che preveda l'uscita dalla trappola dei combustibili fossili . Infine, andrebbero lanciate nuove iniziative per l'accoglienza, la “smilitarizzazione” delle politiche migratorie, e la  creazione di canali umanitari . Tre cardini di un'agenda di lavoro che può rappresentare un'occasione di importante e necessario rilancio delle iniziative di movimenti e società civile nel nostro paese e far si che dal no alla nuova guerra in Libia nascano proposte concrete di costruzione della pace, di giustizia ambientale e di rispetto e tutela della dignità e dei diritti delle persone.


venerdì 12 febbraio 2016

Fermiamo l'escalation nel Mediterraneo e Medio Oriente, si convochi l'Assemblea Generale ONU

 La situazione in Medio Oriente, e Mediterraneo nel giro di tre giorni si è fatta davvero incandescente: invio nella NATO nel mar Egeo, richiesta della Pinotti di estendere la missione NATO "Active Endavour" alle coste libiche, minaccia di intervento armato in Siria dell'Arabia Saudita, la Russia che evoca la terza guerra mondiale, migliaia e migliaia di civili siriani chiusi sotto assedio ad Aleppo. E forse è il caso di farsi sentire. Anzitutto chiedendo la convocazione di una riunione straordinaria dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sulla crisi politica, sociale, umanitaria nel Medio Oriente e nel Mediterraneo, visto che la diplomazia sta seguendo strade che certamente non si possono definire multilaterali, anzi l'intervento della NATO nella crisi migratoria e (come prospettato dal segretario della difesa USA Ash Carter) nella coalizione contro l'ISIS, mette da parte l'ONU oltre che l'Europa. E che da tale Assemblea esca un messaggio chiaro di un cessate il fuoco in Siria (prospettato nella riunione di Monaco di ieri, ma di assai difficile attuazione), della trasformazione delle missioni navali NATO e UE (Euronavfor Med) in missioni a comando ONU, con obiettivo di creazione di canali umanitari, un piano straordinario per l'assistenza ai rifugiati e profughi, la convocazione di una "shura" o consiglio nazionale di tutti i soggetti politici e sociali della Libia per sbloccare l'impasse del piano Kobler."

venerdì 5 febbraio 2016

In memoria di un giovane ricercatore italiano inghiottito nel buco nero dell'Egitto di Al Sisi


Non è facile evitare di cadere nel banale o nell'inappropriato quando si tenta di esprimere un commento su una vicenda tragica come quella relativa all'assassinio di Giulio Regeni. La cautela e la delicatezza sono doverose e necessarie sopratutto per rispetto a chi oggi lo piange e chiede giustizia. Credo però che non si possa negare che la tragica vicenda di Giulio, della sua morte dopo essere stato sottoposto a torture e prima ancora ad una serie di intimidazioni apra uno squarcio drammatico sulla situazione, sul clima di terrore, che vive l'Egitto di Al Sisi, partner commerciale, economico e militare del governo Renzi nella sua strategia verso il Medio Oriente. Conferma quel che già si sa ma che da Palazzo Chigi alla Farnesina hanno sempre cercato di ignorare o rimuovere. "Un brutto colpo alle relazioni economiche con l'Egitto" titola oggi il Sole 24 ore. Ma i grandi manager dell'ENI che accorrevano al Cairo ad incontrare Al Sisi ed i suoi accoliti per firmare contratti, e per poi dire che le rendite del petrolio avrebbero agevolato il ritorno alla democrazia nel paese che Egitto avevano visto? E Matteo Renzi che aveva a suo tempo descritto Al Sisi come un grande statista, "«In questo momento l’Egitto si salva solo grazie alla leadership di al Sisi. Sono orgoglioso della mia amicizia con lui e sosterrò i suoi sforzi in direzione della pace, perché il Mediterraneo senza l’Egitto sarà un luogo senza pace». aveva detto ad un'intervista ad Al Jazeera nel luglio 2015, dove aveva lo sguardo? Quando venivano incarcerati o condannati a morte migliaia di rappresentanti dei Fratelli Musulmani, perseguitati giornalisti ed attivisti? I rapporti di Amnesty International ed Human Rights Watch parlano chiaro. E chi tace o fa finta di non vedere è complice delle violazioni dei diritti umani. Che ci sia voluta forse la tragica morte di un ragazzo italiano a riportare il governo e gli imprenditori italiani alla realtà? Una realtà di repressione a tutto campo da parte delle autorità di un paese che è il primo partner commerciale dell'Italia in ambito UE? Già i diritti umani non contano, schiacciati tra realpolitik ed interessi di impresa. E sentire ora Renzi che fa la voce grossa con quel "grande statista" fa strano, sa di ipocrita. Va bene tutto affinché per lo meno si faccia chiarezza sulle corresponsabilità per l'omicidio di Guido Regeni, ma la questione non si può risolvere così. E forse un pò di autocritica anche da parte di chi " a sinistra" accolse Al Sisi come il salvatore dal "fascismo dei Fratelli" non guasterebbe.