martedì 24 luglio 2012

Le guerre dimenticate dell'Africa


Secondo le statistiche dell'ultimo recentissimo Global Peace Index dell'Institute for Economics and Peace” l'Africa subsahariana sembrerebbe avviarsi verso un futuro di pace giacché per la prima volta dal 2007, quando venne lanciata l'iniziativa, la regione è stata superata dal Medio Oriente e dal Nord Africa in termini di livelli di conflittualità. Il rapporto – a scanso di equivoci - ci dice anche che il primo paese al mondo in termini di violenza e conflittualità è la Somalia, seguito da Afghanistan, Sudan, Iraq e Repubblica Democratica del Congo. Ciononostante nel nostro paese quando si parla di guerra il pensiero va all'Afghanistan o alla Libia o alla Siria, e ciò che avviene in Africa raramente fa notizia, suscita indignazione, chiama all'iniziativa. Forse perché il percorso per una rilettura in chiave post-coloniale delle relazioni con l'Africa non è ancora talmente sviluppato, o perché quei conflitti nascosti rifuggono una lettura tradizionale delle guerre. 

Basta prendere l'esempio della Repubblica Democratica del Congo ed in particolare la regione del Nord Kivu che vive oggi il rischio di un'escalation militare. In questa regione si muovono varie milizie tra cui l'M23 un gruppo insurgente tutsi (già National Congress for the Defense of the People) che, secondo un accordo stipulato con il governo il 23 marzo 2009, avrebbe dovuto essere integrato nell'esercito regolare. Secondo molti osservatori, la mancata attuazione dell'accordo, assieme alla decisione dei governo di Kinshasa di dar seguito al mandato di cattura spiccato dalla Corte Penale Internazionale contro il leader del M23 Generale Bosco Ntaganda sarebbe causa del recente ammutinamento del generale e dei suoi fedeli. Giovedi 13 luglio scorso per la prima volta alcuni elicotteri delle Nazioni Unite e della RDC hanno attaccato posizioni ribelli nei villaggi di Rumangabo e Bukuna. 

Tre giorni prima la Missione ONU MONUSCO aveva inviato nella zona truppe ghanesi, e forze speciali del Guatemala, Egitto e Giordania mentre a Goma veniva inviato un battaglione governativo addestrato dagli Stati Uniti, fino ad allora usato contro la Lord Resistance Army di Joseph Kony. Ciò segue ad un duro scambio di accuse tra Ruanda e RDC, all'indomani della pubblicazione di un dossier confidenziale delle Nazioni Unite fatto trapelare alla stampa a giugno, secondo il quale il governo ed i militari ruandesi avrebbero appoggiato l'M23 con armi e reclute. Denuncia poi amplificata da Human Rights Watch e Global Witness, che puntano il dito su due elementi in particolare: il reclutamento per procura di bambini soldato e il legame tra conflitto e risorse naturali. A metà Aprile Bosco ed i suoi (circa 600 miliziani) hanno iniziato una frenetica campagna di reclutamento, anche di minori. Secondo Global Witness, Ngaganda ed altri membri del M23 si sarebbero arricchiti contrabbandando attraverso il Ruanda minerali quali il coltan e lo stagno. 

La rivolta dell'M23 non è la sola ad essere fonte di destabilizzazione del paese. La città di Pinga è sotto il controllo di un'altra milizia l'APCLS, mentre ad ovest di Goma un gruppo ribelle Mai Mai del Sud Kivu, Raia Mutomboki, ha stretto alleanza con un altro gruppo i Mai Mai Kifuafua. Da allora sarebbero morte almeno 111 persone. C'è poi la caccia a Joseph Kony, capo della Lord Resistance Army. Da aprile a giugno l'LRA avrebbe compiuto almeno 9 attacchi armati nel'est della Repubblica Centrafricana e ben 62 nella RDC. Da alcuni mesi una task force di forze speciali di Washington (Special Forces A) sta operando assieme agli eserciti di Sud Sudan, Uganda e Repubblica Democratica del Congo alla caccia di Kony, suscitando qualche imbarazzo riguardo la presenza di soldati americani in Uganda, il cui presidente Museveni non è certamente esempio di integrità e democrazia o di rispetto dei diritti umani. 

Nonostante i ripetuti appelli e condanne da parte del Consiglio di Sicurezza, gli Stati Uniti non si sono mai impegnati a contribuire alla soluzione dei conflitti in RDC, perché sostengono il governo ruandese, vedendo nel presidente tutsi Kagame un elemento di stabilità nella regione e perché impegnati più a fondo con Africom nella lotta al terrorismo qaedista nel Sahel. Ciò lascia spazio alla soluzione panafricana. Solo di recente, ai margini del vertice dell'Unione Africana di Addis Abeba, che ha eletto per la prima volta una donna ai suoi vertici, Nkosazana Dlamini Zuma, i presidenti della RDC e del Ruanda si sono parlati trovando accordo sulla possibile soluzione. Gli stati membri della Conferenza Internazioale della Regione dei Grandi Laghi lavoreranno assieme alle Nazioni Unite ed all'Unione Africana per creare una forza internazionale con l'obiettivo di “sradicare l' M23, il FDLR e tutte le altre forze negative (sic!) nella regione est della RDC”. 

Spostandosi verso est, lungo quello che viene definito “ arc of instability” troviamo di nuovo il mix di tensioni etniche, interessi geopolitici “esterni”, controllo ed utilizzo di risorse naturali strategiche, povertà indotta e commercio di armi. E' il caso del Sudan e del neonato stato del Sud Sudan, un parto difficile sempre sull'orlo di una nuova guerra. Molti sono stati infatti gli episodi di conflitto armato tra i due paesi nel corso dell'ultimo anno, a seguito della difficoltà nel definire i dettagli dell'accordo di pace, ed in particolare lo status della città di Abyei, zona ricca di quel petrolio Sud Sudanese che rappresentava i 2/3 del petrolio prodotto in tutto il Sudan. Nei mesi scorsi, il governo di Khartoum decise di intercettare il petrolio sudsudanese in transito attraverso gli oleodotti posti sul suo territorio, di fatto privando il governo del Sud Sudan del 98% delle sue entrate e facendo precipitare il paese in una grave crisi. A questo si aggiunge l'emergenza umanitaria causata al afflusso di migliaia e migliaia di profughi che dal Sudan entrano in Sud Sudan (almeno 170mila). 

Nell'aprile di quest'anno il Sud Sudan ha ripreso il controllo dei giacimenti di petrolio di Heglig scatendando furiosi combattimenti. L'Unione Africana condannò la mossa come occupazione illegale, e le Nazioni Unite hanno minacciato sanzioni se i due Sudan non riusciranno a accordarsi sui dossier più caldi relativi alla frontiera ed il petrolio entro il 2 agosto prossimo. Nei giorni passati sempre ad Addis Abeba i leader di Sudan e Sud Sudan si sono incontrati per riaprire un dialogo diretto dopo le violenze dei mesi scorsi, senza però giungere ad un accordo che possa risolvere definitivamente le tensioni. Nel frattempo si è riacceso il conflitto intertribale in Darfur, dove 60 persone sono morte in scontri tra gruppi etnici del Darfur Orientale ed il Sud Kordofan. 

E poi c'è la Somalia. Paese dilaniato dalla guerra tra le milizie di Al Shaabab e l'esercito del governo di transizione, una guerra che ha coinvolto, direttamente ed indirettamente Eritrea ed Etiopia ed ora vede sempre più impegnato il Kenya, e di riflesso gli Stati Uniti. Insomma, dalla Nigeria, al Mali, al Niger, attraverso la Repubblica Democratica del Congo, la regione dei Grandi Laghi, fino al Sudan ed al Corno d'Africa l'Africa continua ad essere attraversata da una faglia di conflitti irrisolti, legati l'uno all'altro in un increccio mortale e che sfuggono ad un'analisi convenzionale. 

A fronte di un certo protagonismo dell'Unione Africana fa riscontro l'inadeguatezza della risposta europea. Nel corso dell'ultima riunione del maggio scorso dell'iniziativa UE-Africa per la prevenzione dei conflitti si discusse di Somalia, di Sahel, di Sudan, ma la Repubblica Democratica del Congo era assente dall'agenda. Qualche giorno dopo le armi iniziarono a sparare. Sul fronte antiterrorismo-antipirateria invece il quadro cambia. A maggio di quest'anno per la prima volta le forze della task force anti-pirateria europea che stazionano al largo della Somalia hanno bombardato l'entroterra contro supposte posizioni di pirati, di fatto marcando un'escalation nel conflitto. E nei giorni scorsi il Consiglio dei Ministri ha approvato l'invio di un contingente civile europeo di 50 unità per l'addestramento delle forze di sicurezza del Niger contro il terrorismo e la criminalità nella regione del Sahel. La missione, inizialmente prevista per due anni, al costo di 87 milioni di euro, potrebbe poi essere estesa a Mauritania e Mali. Paese quest'ultimo nel quale si sta prospettando un intervento militare internazionale contro l'insurrezione tuareg. 

Attanagliata nella sua crisi, nei suoi Fiscal Compact ed affini, l'Unione Europea pare ingessata in una approccio alla gestione delle crisi essenzialmente “securitario”. Anche in questo andrà misurata la costruzione di un'Europa politica da contrapporre a quella dei mercati, che sia in grado di svolgere un ruolo responsabile ed all'altezza delle sfide globali.  

lunedì 16 luglio 2012

Le varie anime di Rio



In un suo scritto inedito del lontano 1939, solo di recente reso pubblico, Albert Camus, ebbe a dire che:”in ogni filosofia degna del suo nome, un precetto importante afferma che non si dovrebbe mai indulgere in lamentele inutili circa uno stato di cose inevitabile”. In virtù di tale precetto, ad un iniziale valutazione estremamente negativa dell’esito della Conferenza di Rio +20, deve  seguire una disamina più accurata, volta ad identificare punti di forza e debolezza sui quali insistere per riaffermare la centralità dell’imperativo della trasformazione ecologica dell’economia, della giustizia ambientale, e dei diritti umani e della natura, come chiavi di volta di una politica capace di futuro.

La prima domanda è se sia possibile valutare un processo così complesso  secondo gli esiti dello stesso in un dato momento nel tempo. Forse per nascondere la sua forte delusione la presidente del brasile Dilma Rousseff ha tenuto a sottolineare nel suo discorso ufficiale che Rio rappresenta solo una piattaforma di partenza, l’inizio di un percorso, non il suo apice.

Le parole di Dilma  in realtà si fondano su un dato di fatto proprio della trasformazione dei processi di formazione del consenso a livello internazionale, in virtù dei quali non esistono più tappe decisive, ma processi dinamici di produzione di consenso e di aggiustamento progressivo delle varie agende verso un obiettivo comune. Ogni negoziato complesso viene interpretato come “rolling process”, processo dinamico, nel quale ogni impegno preso e concordato dovrà rappresentare una convergenza tra ciò che i paesi già stanno facendo a livello nazionale. Indubbiamente questo è il segno della crisi di un modello multilaterale classico, secondo il quale ogni paese avrebbe invece dovuto abdicare parte della propria sovranità in nome del bene collettivo, e che oggi si traduce in un insieme di accordi e mere dichiarazioni d’intenti, non vincolanti  nella forma.

Insomma, un segno dei tempi, tempi di crisi o forse di profonda trasformazione dei processi di governo globale che rischia di confinare la discussione sulla trasformazione ecologica dell’economia in ambiti esclusivamente teorici, senza invece offrire sponda e cittadinanza a quella miriade di esperienze concrete che da tempo praticano vie alternative.

Se prendiamo invece come punto di partenza il fatto che ormai gli stati hanno perso il monopolio nelle politiche globali, ormai teatro di azione anche di attori non-statuali, quali il settore privato, enti locali, società civile, movimenti transnazionali, allora il quadro di valutazione si fa ben più complesso, sia per quanto riguarda i rischi che le eventuali opportunità.

Quella che inizialmente era stata etichettata a caldo come una grande occasione persa sulla strada verso la sostenibilità ambientale e sociale, ha messo in evidenza processi la cui validità potrà risultare solo dal combinato disposto di iniziativa dal basso e di partecipazione attiva ai processi che da Rio si svilupperanno.

Il risultato di Rio+20 non può essere elaborato esclusivamente secondo chiavi di analisi che mettono al centro la volontà politica (o l’assenza della stessa) dei governi. Se così fosse, indubbiamente il risultato di quelle giornate non lascia molto spazio ad entusiasmi.  Anzi. Non c’era da aspettarsi molto né in termini d’impegni chiari dal punto di vista quantitativo, né in termini di scadenze temporali verificabili, né tanto meno in termini di cassa, ossia di impegni di stanziamento di risorse finanziarie per lo sviluppo sostenibile.

Il documento “The Future we want” ha rappresentato nei fatti  un punto minimo di convergenza tra agende differenti e contrapposte dei vari blocchi di paesi che fino ad allora non erano riusciti a trovare accordo sui temi portanti del negoziato. Era risultato evidente fin dall’inizio delle lunghe maratone negoziali antecedenti l’incontro del Segmento di alto livello (ossia la riunione dei capi di stato e di governo che avrebbe suggellato l’accordo finale) che troppi erano i punti dirimenti ancora irrisolti, e che si faceva sempre più evidente il rischio di un flop clamoroso che avrebbe fatto il pari con quello di Cancun dal quale l’Organizzazione Mondiale del Commercio non si è ancora ripresa, o quello della Conferenza del Clima di Copenhagen che tuttora fa sentire con forza i suoi postumi sul negoziato post-Durban.

In estrema sintesi lo snodo centrale era rappresentato dal binomio sovranità-responsabilità, Da una  parte  i cosiddetti paesi in via di sviluppo (ormai paesi emergenti quali Cina, India, Brasile) erano determinati a far valere le proprie ragioni ed i propri diritti sovrani sulle scelte e la gestione delle proprie politiche economiche, ambientali e produttive. Dall’altra i paesi industrializzati portavano con se il carico di un enorme debito ecologico accumulato del corso della storia, e l’urgenza di trarre dal cilindro della “green economy” l’artificio che potesse offrire una soluzione alla crisi economica e sociale che li sta attanagliando.

Questi ultimi chiedevano ai paesi in via di sviluppo di prendersi carico delle proprie responsabilità , a pari livello, nella dura strada verso un futuro sostenibile. Dal binomio sovranità-responsabilità scaturivano quindi i concetti di equità e delle responsabilità comuni e differenziate. Su questi due principi, consacrati a Rio venti anni fa, si è sviluppato lo scontro, dapprima nel negoziato climatico e poi a Rio. A Durban, a dicembre dello scorso anno   pur di tenere in piedi il negoziato multilaterale post-protocollo di Kyoto, Unione Europea ed altri alleati riuscirono a far passare l’impegno per un processo negoziale detto “Durban Platform for Enhanced Action”. Questo processo negoziale, che tuttora stenta a decollare, dovrebbe produrre una roadmap ed impegni di riduzione delle emissioni per tutti i paesi entro il 2015. A Durban, Stati Uniti ed altri paesi industrializzati si opposero duramente ad ogni richiamo ai principi di equità e responsabilità comuni ma differenziate che rimasero quindi non esplicitati. Un punto questo che ha rappresentato il principale casus belli alla ripresa del negoziato a Bonn nel maggio scorso. Seppur  all’ultimo minuto, dopo la forte resistenza degli USA, a Rio il documento finale richiama i principi dell’equità e delle responsabilità comuni ma differenziate per ogni impegno relativo ai mutamenti climatici. Insomma, per alcuni osservatori non governativi e think-tank vicine ai G77 come il South Centre, questo è un risultato di tutto rilievo che influenzerà notevolmente il percorso della Durban platform,  e non solo.

Il documento “The future we want” quindi può essere anzitutto  valutato secondo la misura in cui  riafferma o introduce criteri e concetti chiave che informeranno l’attività della comunità internazionale in futuro. Letto secondo questa lente, i negoziatori brasiliani hanno fatto di tutto per assicurare la messa in sicurezza di un documento da far approvare formalmente dai capi di stato e di governo. 

Indubbiamente mancano riferimenti chiari a principi come il principio di precauzione e il “polluter pays”, ma il documento contiene importanti riferimenti ai diritti umani e dei popoli indigeni, seppur senza dar loro una connotazione operativa e sempre riconoscendo la centralità della sovranità nazionale degli stati.   Introduce definitivamente il concetto di “green economy” nel dibattito globale, mitigandone però  gli aspetti più controversi, riconoscendo il diritto ad ogni paese di perseguire la propria via, e specificando che tale “green economy” dovrà essere indirizzata verso lo sradicamento della povertà e lo sviluppo sostenibile.  I paesi industrializzati speravano di usare la “green economy” come opportunità per rilanciare le proprie economie, e proteggerle dai prodotti dei paesi emergenti. I paesi emergenti temevano che la “green economy” diventasse un elemento prescrittivo e condizionante le proprie scelte economiche ed ambientali.  Si è così optato per una formulazione complessa che potesse accontentare tutte le parti in causa, senza ulteriori implicazioni dal punto di vista operativo o programmatico.

Altro elemento sul quale valutare l’esito di Rio+20 riguarda i processi che da Rio verranno avviati, e che offrono opportunità , ma anche rischi. I nodi centrali verso un accordo, ossia gli  obiettivi di sviluppo sostenibile, gli strumenti di attuazione (“means of implementation”), e l’architettura istituzionale e della “governance” ambientale sono stati “sciolti” in altrettanti processi intergovernativi sotto l’egida dell’ONU, che dovrebbero in tempi relativamente stretti portare ad accordi vincolanti e fornire opportunità per un rinnovato protagonismo della società civile e dei movimenti.  

Per quanto riguarda gli obiettivi di sviluppo sostenibile, da Rio prende vita un gruppo di lavoro di 30 membri sotto l’egida dell’Assemblea Generale, che dovrà sciogliere i punti principali relativi alla definizione degli obiettivi, un approccio equilibrato tra i cosiddetti tre pilastri dello sviluppo sostenibile (ambientale, sociale, economico), la relazione con gli obiettivi di sviluppo del millennio, ed un  processo di negoziato intergovernativo.   Sulla questione relativa al quadro di riferimento istituzionale per lo sviluppo sostenibile (IFSD) viene costituito un forum politico di alto livello per lo sviluppo sostenibile da definire con un processo intergovernativo e di è trovato accordo sulla necessità di rafforzare il Programma ONU sull’ambiente, (UNEP).   Per i cosiddetti “Means of implementation”ovverossia, il trasferimento di tecnologie, la riforma dei termini di scambio e delle politiche commerciali, l’aiuto pubblico allo sviluppo, è stato lanciato un processo intergovernativo sempre sotto l’egida delle Nazioni Unite, per produrre una strategia per il finanziamento dello sviluppo sostenibile con un insieme di azioni da intraprendere allo scopo.  Certamente un risultato non all’altezza della sfida e delle richieste dei paesi G77 - Cina in testa - per un fondo per lo sviluppo sostenibile di 100 miliardi di dollari.


Insomma a livello di governi la partita è ancora tutta da giocare. Sullo sfondo però si stanno muovendo altri processi ed altre dinamiche che potranno definire in corso d’opera i criteri e precedenti ai quali ispirare le regole comuni.

Accanto alla diluizione dei processi decisionali in “rolling processes”, ed alla riaffermazione della sovranità nazionale,  il terzo elemento cardine dei processi di elaborazione del consenso nella “governance” globale è quello delle regole che derivano dalla pratica. Sono le pratiche , le buone pratiche, che ispirerebbero le regole e non viceversa.  Al vuoto della politica ufficiale, incapace di tener testa alla sfide globali, per le ragioni espresse in precedenza, si sostituisce così l’attivismo di soggetti non-statuali.

Il sito della Conferenza rimanda ad una lista di ben 700 azioni e programmi lanciati a Rio per un valore di 513 miliardi di dollari, da soggetti che spaziano da imprese multinazionali, alla Banca mondiale, ad amministrazioni locali, ad ONG, a centri di ricerca e agenzie specializzate ONU. Un proliferare di iniziative pilota quasi sempre senza obiettivi definiti e quantificabili, che spesso nascondono strategie di “greenwashing” o maquillage verde. Così a Rio +20 il settore privato ha annunciato oltre 220 programmi e progetti in settori quali l’acqua, la biodiversità, la mobilità sostenibile, l’energia, i diritti umani, l’educazione.  Spiccano tra gli altril Eskom, Suez, BASF, ABB, ENI (con un progetto su diritti umani, trasparenza ed anticorruzione), UNILEVER, Santander, Sumitomo, NIKE, Procter and Gamble, Dow Chemicals, Walt Disney, Lockeed martin, Rio Tinto. Tutto senza regole vincolanti, nel quadro del Global Compact o del programma SE4ALL (Sustainable Energy for All) lanciato da Ban Ki Mun alla vigilia del vertice.

Al rischio correlato al rilancio dei partenariati pubblico-privati a di fuori di una cornice normativa vincolante sugli obblighi delle imprese o di capacità di monitoraggio dal basso,  fa da contraltare l’opportunità fornita dalle iniziative dei soggetti non-governativi, ONG , movimenti sociali ed indigeni, società civile organizzata.

I movimenti indigeni si sono riuniti in tre iniziative centrate su una serie di parole d’ordine condivise: rispetto dei diritti internazionalmente riconosciuti, (ad esempio nella Dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni), il riconoscimento della conoscenza tradizionale e della cultura come quarto pilastro dello sviluppo sostenibile (tema sostenuto anche dalle reti di amministrazioni locali),  la piena ed effettiva partecipazione ai processi decisionali, il riconoscimento del ruolo delle pratiche di autosviluppo. 

Chi si è riunito nell’incontro di Karioka II ha privilegiato la riaffermazione del diritto all’autodeterminazione, e il rigetto di ogni possibile “finanziarizzazione” della natura, assieme alla riaffermazione dei diritti della Madre Terra e la critica radicale al capitalismo. Chi invece, (latinoamericani e centramericani) si è incontrato all’interno del controvertice della Cupula de los Povos nell’”Accampamento per la vita piena e la terra libera” ha dato maggior enfasi al tema dei diritti alla terra ed alla resistenza contro le politiche sviluppiste ed estrattiviste, la cui icona principale è rappresentata dalla megadiga di Belo Monte nello stato brasiliano di Parà.

Altri rappresentanti indigeni di Asia, Africa, Americhe si sono invece incontrati nella Conferenza dei popoli indigeni  per lo sviluppo e l’autodeterminazione. La dichiarazione finale adottata riafferma il valore centrale della cultura, l’obbligo di rispetto dei diritti umani e collettivi e l’urgenza di rafforzare le economie locali ed i processi di gestione collettiva dei territori.  Rigetta anch’essa il modello neoliberista, e propone un rilancio della cooperazione tra popoli indigeni e della resistenza a progetti distruttivi, assieme a regole vincolanti per le imprese.

Prossima tappa del movimento indigeno globale sarà la preparazione della Conferenza Mondiale dei Popoli Indigeni che si terrà a New York nel 2014.  

Lungo questo percorso si snoderà anche l’agenda di lavoro adottata dai partecipanti alla “Cupula de los Povos” , l’incontro dei movimenti sociali “per la giustizia sociale ed ambientale – in difesa dei beni comuni, contro la mercantilizzazione della vita”. Dopo alcune giornate di lavoro i movimenti sociali hanno adottato una dichiarazione che condanna il capitalismo verde della “green economy” e l’operato di governi, imprese transnazionali ed organizzazioni finanziarie internazionali riaffermando il ruolo centrale delle alternative praticate dal basso. Alternative che sono nelle mani dei popoli, delle comunità, nelle pratiche e nei sistemi produttivi tradizionali, e che devono essere ancorate alla tutela degli spazi pubblici e dei bei comuni. Dandosi appuntamento ad uno sciopero generale globale, i movimenti sociali ribadiscono l’ importanza del riconoscimento dei diritti dei popoli alla terra, dei diritti umani, del necessario cambiamento di paradigma energetico, il riconoscimento del debito storico ed ecologico, la sovranità alimentare. Insomma un manifesto per la giustizia ambientale e sociale che ispirerà le iniziative del dopo Rio.

Accanto a questo processo se ne sono sviluppati altri, uno, quello più istituzionale  dello “stakeholder forum” e dei “dialoghi” promossi dal governo brasiliano, che sono risultati ingessati nelle procedure, e di poca rilevanza in termini di proposta politica innovativa, al limite della cooptazione.

Da tenere a mente invece quello messo in campo da una rete di ONG e società civile che hanno ripreso il testimone di quei Trattati alternativi adottati al Global Forum 20 anni fa. Un processo largo di consultazione on-line su temi chiave quali il cibo, il debito, l’economia ecologica, le imprese, il clima, l’energia, i modelli di consumo, che ha portato a Rio all’adozione di un manifesto ne quale i firmatari si impegnano ad una serie di azioni ed una piattaforma comune di intenti . Temi che spaziano dall’equità intergenerazionale e nelle relazioni tra umani e natura, alla rilocalizzazione dei sistemi economico-produttivi, al decentramento dei processi decisionali ed il sostegno a stili di vita sostenibili, dalla protezione dei diritti della Madre Terra, alla democrazia ecologica radicale, alla costruzione di un movimento globale che sia in grado di localizzare vertenze ed alternative possibili, sempre con uno sguardo globale. 

A Rio sono stati finalizzati 14 trattati dei popoli sulla sostenibilità, tra cui quello sulla Madre Terra, sui valori etici e spirituali dello sviluppo sostenibile, sulla democrazia ambienale, i diritti, i modelli di consumo e produzione, il trattato sulla transizione verso un mondo senza combustibili fossili.

Insomma, portando lo sguardo fuori dai palazzi “istituzionali” e dai negoziati ufficiali, emerge una molteplicità di   processi di elaborazione collettiva, alcuni dei quali indubbiamente con limiti dovuti sia a carenze organizzative che a dinamiche politiche interne, ma che nel loro insieme  rappresentano una agenda multiforme alternativa rispetto a quella dominante.

Per questi soggetti Rio è stata soprattutto occasione di incontro, costruzione di rete, e di prodotti “immateriali” che sortiranno effetti nel corso degli anni, a seconda della capacità e volontà di far derivare dagli stessi progetti politici comuni di trasformazione della società e dell’economia globale.

Tra tutti i limiti che Rio ha evidenziato, uno su tutti: quello della forte carenza di “politica”, schiacciata tra gli imperativi della “realpolitik” e l’assenza di attori capaci di dare rappresentanza e sostegno alle istanze dei movimenti e dei soggetti sociali transnazionali. Una carenza sottolineata anche da molti partecipanti alla Cupula de los Povos e che senz’altro sarà la cifra delle iniziative e delle proposte che seguiranno all’appuntamento di Rio, a livello istituzionale e non.



  

Dal Welfare al Warfare: per una riduzione delle spese militari, il disarmo dell'economia e della politica


Editoriale per il dossier sulle spese militari di Mosaico di Pace (Settembre 2012)


Questo dossier è stato ideato  e prodotto in una congiuntura temporale  nel corso della quale il Parlamento discuteva di Spending Review e di ridefinizione dello strumento militare, il SIPRI rendeva noto il suo ultimo rapporto sulle spese militari, trapelavano notizie sull’escalation del coinvolgimento italiano in operazioni offensive e di bombardamento a terra in Afghanistan, la campagna “Taglia le ali alle armi” presentava i risultati della sua mobilitazione in Parlamento, ed a New York i rappresentanti dei governi si riunivano per negoziare il trattato ONU sul commercio di armi (ATT). Proprio dall’analisi della spesa militare nel tempo della crisi (oggetto dell’articolo di Giulio Marcon) si può partire per ricostruire un percorso collettivo di proposta sulla riconfigurazione dei modelli di difesa e sicurezza, la conversione dell’industria bellica, la regolamentazione del commercio di armi. Tre punti sui quali la partita è tutta da giocare. Sulla riconfigurazione dei modelli di difesa, la discussione in corso in Parlamento sulla ridefinizione dello strumento militare denota un approccio più vicino agli interessi delle imprese del settore che al contributo che questo strumento potrebbe fornire in una visione di politica estera fondata sulla prevenzione   nonviolenta dei conflitti, e la gestione degli stessi attraverso gli strumenti propri della diplomazia e della mediazione. Insomma, quella che viene proposta come decisione puramente contabile  nei fatti nasconde la decisione tutta politica, (sganciata però da una dottrina o “vision” sulla sicurezza), di dare prevalenza all’acquisizione di armamenti altamente sofisticati, che presuppongono un ruolo puramente offensivo e di proiezione globale della forza delle forze armate. Ci troviamo di fronte ad una definizione “per default” delle priorità delle politiche di difesa. Questo sembra essere il primo vero vulnus del dibattito sulle spese militari, relativo a democrazia e  trasparenza, Di democrazia giacché il Parlamento viene chiamato solo a decidere su capitoli di spesa e non ad un ruolo di indirizzo politico (visto che delegherebbe la definizione del modello di difesa al governo). Di trasparenza perché se nono fosse stato per opera meritoria dei movimenti e di alcuni operatori dell’informazione, questo dibattito sarebbe passato in sordina. Fa bene a ricordare Carlo Tombola nella sua analisi del rapporto OPAL come “guardare all’interno del mercato della armi è un esercizio essenziale della libertà democratica e del diritto di espressione dei cittadini”. A ciò  si aggiunge l’incongruenza rispetto alle vere emergenze sociali e lavorative che oggi affliggono il paese. Sulle inaccettabili sperequazioni tra i costi - crescenti ed al di fuori di ogni controllo - del programma F35 (tema del contributo di Don Renato Sacco) e la riduzione delle spese sociali si detto molto. Un dato su tutti dà la cifra del passaggio da un sistema di “welfare” ad uno di “warfare”: con un solo cacciabombardiere F35 si potrebbero costruire 387 asili nido con 11.610 famiglie beneficiarie e circa 3.500 nuovi posti di lavoro  o aiutare con servizi di assistenza 14.742 famiglie con disabili e anziani non autosufficienti.  Va   sottolineata con forza  l’infondatezza dell’argomentazione secondo la quale un sostegno all’industria bellica è necessario per proteggere o costruire nuove opportunità lavorative. Nel suo articolo sulla discussione parlamentare sullo strumento militare, Massimo Paolicelli, cita  uno studio dell’Università del Massachussetts, secondo il quale un miliardo investito nella difesa produce 11mila posti di lavoro, che passano a 17mila se la stessa somma fosse stanziata per energie rinnovabili ed a 29mila se fosse investita nell’educazione.  La discussione su occupazione e industria bellica può qundi essere affrontata secondo alcuni criteri. Il primo è quello dei posti di lavoro “negati” dalla spesa militare, il secondo quello della riduzione dei posti di lavoro  di competenza del Ministero della Difesa. Nella sua proposta di revisione dello strumento militare, che prevede tagli al personale militare, il Ministro Di Paola  propone una redistribuzione delle risorse così risparmiate su sistemi d’arma sofisticati e capacità operative e di proiezione globale.  Il terzo, oggetto del contributo di Gianni Alioti, riguarda quei posti di lavoro che vengono persi in seguito agli sviluppi strutturali del comparto difesa. Si calcola che solo per il comparto aerospaziale europeo dal 1980 al 2008 i posti di lavoro nel settore militare si sono dimezzati a fronte di un aumento del 40% dell’impiego nel settore civile, Questo a causa dell’innovazione tecnologica, dell’aumento del fatturato per addetto e delle strategie di fusione di imprese in grandi conglomerati. A questa situazione va contrapposto il rilancio di un percorso di conversione dell’industria bellica, sulla scorta di esperienze già fatte  a livello europeo e italiano. Tema - quello della riconversione -   già riconosciuto  dalla legge 185/90 oggetto di contini stravolgimenti da parte dei governi di turno -  governo Monti incluso - volti a ridurre i vincoli di trasparenza e rendicontazione delle esportazioni di armi italiane nel mondo. Così il governo italiano mentre da una parte partecipa al negoziato ONU sull’ATT sostenendone l’adozione, dall’altra si adopera a vantaggio delle imprese di un settore sempre in gran salute.  Nel 2011 l’esportazione di armi italiane è aumentata di oltre il 5 percento per un valore di 3 miliardi e 59 milioni di euro. Armi   vendute a paesi che violano i diritti umani, o in aree di conflitto (Egitto, Oman, Qatar, Israele, Marocco, Turchia, Arabia Saudita). Ci sarà allora molto da fare ancora per porre fine a queste incongruenze, doppi standard, discrasia tra politica , interessi imprenditoriali e strategie militari, per  costruire, assieme ad una moltitudine di soggetti, politici, sociali, sindacali, imprenditoriali le premesse per un “disarmo” dell’economia e della politica.  Un compito urgente ed ancora attuale per tutto il movimento pacifista italiano ed internazionale. 

Dov'è l'Africa nei dibattiti politici sull'Europa?





Dov’è il resto del mondo nel dibattito politico nazionale? Dove sono i paesi africani, che oggi rischiano di precipitare in nuovi sanguinosi conflitti? Il Sudan, e la rivalità con il neonato stato del Sud Sudan occupano il dibattito nella campagna presidenziale negli Stati Uniti. In Mali si prospetta un intervento militare panafricano contro il terrorismo, in Repubblica Democratica del Congo per la prima volta un elicottero dei caschi blu ha attaccato milizie paramilitari di un signore della guerra che marcia su Goma, sede del contingente ONU ricco di oltre 14 mila unità. Settimane addietro, per la prima volta le forze di mare della flotta UE che transita al largo della Somalia  hanno bombardato l’entroterra a caccia di pirati. In Eritrea – quanti eritrei scappano per morire in mare – la successione possibile al dittatore Isaias Afeworki rischia di perpetuare lo stato di cose, nonostante la rinascita di un movimento popolare di opposizione. Un continente risucchiato in un buco nero, quello dell’oblio e della violenza, non fa titolo, non ha cittadinanza nelle discussioni politiche rinchiuse all’interno dei confini di un’Europa della moneta e dei mercati, dettate da quei parametri e quei metri di misura. Sia per quanto riguarda le imposizioni del fiscal compact che il suo contrario. Eppure l’Europa è anche quella, quella dei popoli africani che rischiano la morte sotto le bombe o la spada delle milizie private attraversando il Mediterraneo in cerca di speranza.   E’ anche lì che si misurerà la  validità o meno di un progetto di Europa politica che sappia guardare al di là dei propri confini territoriali e si sappia porre come soggetto globale responsabile.