venerdì 23 marzo 2012

Elementi per una soluzione politica in Siria.

Elettra Deiana, Francesco Martone

La tragedia siriana dura ormai da mesi, senza che né le Nazioni Unite, né “potenze” vecchie e nuove, né i paesi arabi direttamente interessati , né tanto meno l’Unione Europea siano state finora in grado di proporre una via d’uscita. Per questo la recente pubblicazione della lettera del Presidente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nella quale si annuncia il sostegno di tutto il Consiglio al piano di sei punti dell’inviato speciale Kofi Annan, e la missione di quest’ultimo in Cina e Russia di questi giorni, possono aprire la strada ad una transizione negoziata. Certamente non automatica né di facile realizzazione, se tutte le parti contendenti non se ne assumeranno la responsabilità attraverso un’ immediata cessazione delle ostilità, accompagnata dall’impegno della comunità internazionale a garantirne il mantenimento. Solo così si potranno porre le basi per un processo di transizione politica e democratica, che non sarà tale, tuttavia, se non verranno prese in dovuta considerazione la complessità del conflitto e le sue cause.

All’inizio nata come spontanea rivolta di popolo contro il regime tirannico di Assad, sull’onda delle primavere arabe, la rivolta si è via via caricata di altre valenze, dovute all’entrata in campo di altri soggetti e di interessi politici ed interlocuzioni diverse e tra di loro contraddittorie. Dai paesi arabi, Qatar in testa, pronti a sostenere l’opposizione armata, alla Turchia preoccupata della sicurezza delle proprie frontiere già provate dal conflitto in Kurdistan, al combinato disposto di ciò con l’incombente rischio di un’escalation militare occidentale verso l’Iran, ai rischi di conseguente instabilità in Libano. Anche la cosiddetta comunità internazionale non è andata oltre una “cacofonia” di fondo (come l’ha definita l’International Crisis Group) , con la UE concentrata solo sulle sanzioni, Sarkozy preoccupato per la sua campagna elettorale, la crisi economico-finanziaria in Europa, ed un basso profilo mantenuto dalla Casa Bianca verso la Siria, concentrato com’è Obama su Teheran . Dall’altra parte Russia e Cina determinate ad impedire qualsiasi forma di ingerenza politica o militare per rimuovere un alleato storico. Per non dimenticare la disomogeneità delle forze di opposizione, divise in più fazioni, all’interno della Siria ed all’estero, e formazioni armate fuori controllo.

Così, per l’ennesima volta, la scena mondiale è stata dominata dall’inerzia delle Nazioni Unite, prive di potere esecutivo, e depotenziate del loro ruolo di moral suasion. Per questo, con tutti i suoi limiti, l’iniziativa di Kofi Annan obiettivamente va presa come un’occasione per restituire – attraverso adeguate politiche internazionali - pace e dignità al popolo siriano. La vicenda siriana conferma che oggi chiavi di analisi della politica estera fondate sulla classica contrapposizione tra blocchi e la presa di posizione a favore di uno di essi, non può più essere – come in un riflesso pavloviano - il punto di partenza.

Sono invece da mettere al centro la salvaguardia ed il diritto alla sicurezza della propria vita per le popolazioni civili inermi, disarmate, che rimangono intrappolate negli scontri e nell’escalation di violenza tra fronti opposti. Quelle popolazioni che in Siria, ad Homs come a Damasco, come riportato dalle cronache, si sentono imbelli e senza protagonismo, vittime di giochi di potere ed interessi strategici e politiche di potenza interne ed esterne, che nulla hanno a che vedere con i loro diritti e la loro incolumità.

Mettere al centro le persone e la loro dignità non esclude ovviamente la necessità di una valutazione ed una condanna netta verso regimi liberticidi e repressivi tra i quali annoveriamo quello di Assad. Neanche permette però che le forze di opposizione possano sempre e comunque essere esentate dalle proprie responsabilità. Basti pensare alle recenti denunce delle organizzazioni per i diritti umani riguardo a crimini di guerra compiuti in Siria dalle milizie contrarie ad Assad.

La vicenda siriana conferma anche l’urgenza di fare chiarezza su principi universalmente riconosciuti quali quello dell’ingerenza umanitaria, che devono essere effettivamente messi a disposizione delle popolazioni inermi, e nettamente scissi da usi strumentali di intervento fondato su criteri d’interesse politico di qualsiasi parte o di pure strategie geopolitiche.

Il fallimento dell’intervento internazionale in Libia, testimoniato dallo stato di anarchia e dai rischi di conflitti interetnici ed intertribali, questo ci insegna. Ovvero che l’intervento militare con il pretesto di salvare civili, ma con il reale intento di rimuovere un regime scomodo seppur sanguinario come quello di Gheddafi per riaffermare il controllo neocoloniale su una regione in rapida trasformazione, avrebbe segnato la fine del principio di responsabilità di proteggere (la cosiddetta R2P). E con esso il rischio di una messa in mora definitiva della legalità internazionale, dei principi della Carta delle Nazioni Unite e della stessa elaborazione del diritto internazionale sulle modalità di tutela dei diritti umani in aree di crisi.

Le vicende del Mediterraneo e del Medio Oriente riguardano noi e soprattutto l’Europa. Un continente oggi in preda ad una crisi politica interna senza precedenti , incapace di guardare alle grandi trasformazioni che coinvolgono mondi così vicini e così legati alla sua storia. Un’ Europa che non sa o non riesce a mettere in campo soluzioni o proposte all’altezza delle sfide, che non siano, come sono invece, fondate su un’interpretazione obsoleta della democrazia e della preminenza dei propri interessi commerciali, come dimostrato di recente negli accordi con il Marocco ed altri paesi del Maghreb.

Guardare alla Siria con uno sguardo cosmopolita fa parte del nostro impegno per gli Stati Uniti d’Europa, che passa anche attraverso la costruzione di un’Europa attore globale responsabile e di pace. Una pace che non può essere una declamazione di principio ma deve essere il risultato di concrete politiche di prevenzione dei conflitti, mediazione diplomatica, relazioni solidali e cooperazione tra i popoli.

I Marò e la superficialità delle istituzioni

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La sempre più intricata e drammatica vicenda che da settimane ormai vede implicati due marò italiani accusati dell’omicidio di due pescatori indiani va vista sotto vari punti di vista. Allo stato delle cose, non risultano affatto chiare né le circostanze né i fatti veri e propri che hanno portato alla messa sotto accusa dei due fanti di marina. Non è chiaro ad esempio se al momento del presunto attacco e della reazione armata la nave italiana si trovasse in acque territoriali indiane o internazionali.

Questo dettaglio è di grande rilevanza giacché nel primo caso – a norma del diritto internazionale – sarebbe del tutto legittimo per l’India esercitare la propria giurisdizione ovvero il diritto a giudicare. Altrettanto diritto avrebbe l’Italia qualora risultasse che l’episodio si è svolto in acque internazionali.

L’India è un paese sovrano che ha tutto il diritto a far valere le proprie ragioni se le ha, altrettanto vale per l’Italia, questa è la regola aurea delle relazioni internazionali e diplomatiche. Fermo restando l’aspetto più importante da chiarire e che sarà materia del giudice che verrà ritenuto competente secondo il diritto internazionale, cioè la reale dinamica dei fatti e l’eventuale specifica responsabilità dei due militari.

Questo drammatico episodio che ha acceso una crisi diplomatica senza precedenti tra due paesi, apre un capitolo finora affrontato con troppa superficialità dal Parlamento e dal governo. Se è vero che da anni ormai le forze armate vengono utilizzate per operazioni di contrasto alla pirateria anche nel quadro di operazioni NATO, è pur vero che solo di recente si è deciso di imbarcare soldati a bordo di navi civili. E questo nell’ambito di una tendenza molto negativa di uso progressivo ed iperflessibile della forza armata senza adeguata discussione ed indirizzo parlamentare.

Negli ultimi decreti sulle missioni militari il governo ha fatto approvare dal Parlamento l’uso di truppe speciali a bordo di navi mercantili, oppure la possibilità che le stesse possano imbarcare personale armato privato come se le due cose fossero equivalenti. E’ stato stipulato anche un protocollo d’intesa tra il Ministero della Difesa e CONFITARMA (la Confederazione Italiana Armatori) secondo il quale l’armatore dovrebbe predisporre strumenti di difesa passiva per dissuadere i pirati (ad esempio filo spinato, dissuasori, idranti, aree protette) come prima linea di difesa. Una pratica di autodifesa – tra l’altro – sempre più invocata dalle grandi compagnie armatoriali che temono, con l’uso della forza, un’escalation di violenza che metterebbe a serio repentaglio l’incolumità dei propri equipaggi. La prima domanda da porsi è : sulla nave coinvolta tutto questo era stato predisposto per evitare che si ricorresse immediatamente alla forza che deve rimanere sempre e comunque “extrema ratio” ?

C’è poi un altro capitolo di problematiche relative alle regole d’ingaggio ed ai protocolli, ed all’addestramento all’ uso della forza. In un’audizione presso la Commissione Difesa il 14 giugno dello scorso anno fu proprio il Capo Di Stato Maggiore della Marina, Ammiraglio Branciforte, a sottolineare l’urgenza di regolamentazione dell’uso della forza, annunciando l’imminente emanazione da parte del Ministero della Difesa di direttive e regole d’ingaggio per il cosiddetto Nucleo Militare di Protezione, che avessero riguardo dei limiti costituzionali e di legge. Tuttavia neanche nel protocollo Difesa-CONFITARMA che risale all’ottobre 2011 se ne trova traccia. Anche questo è un dettaglio non di poco conto per stabilire le responsabilità e la catena di comando, chi fosse al capo del Nucleo Militare di Protezione, chi abbia dato ordine di sparare ed in base a quali considerazioni .

Questo episodio conferma ulteriormente una preoccupante tendenza di autonomizzazione dell’uso dello strumento militare nelle mani dei vertici militari e del governo, rispetto al ruolo di monitoraggio, intervento ed indirizzo del Parlamento. Esiste poi il problema politico più grande quello relativo all’assenza di una vera e propria strategia di sicurezza nazionale che faccia leva non tanto sulla repressione delle presunte minacce, ma sulla loro prevenzione e gestione pacifica e nonviolenta. Senza un quadro di riferimento chiaro e condiviso le autorità si possono arrogare di volta in volta il diritto ed il potere di trovare le soluzioni più convenienti al momento.

Per chi come SEL ritiene ancora importante muoversi sulla linea della certezza del diritto ed è impegnata nella costruzione di proposte di sicurezza rispettose dei diritti umani l’insieme di questi punti costituisce la base essenziale per una soluzione giusta al problema. A Giuliana Sgrena che – esercitando il suo inalienabile diritto di opinione – ha coraggiosamente ha aperto un dibattito su un tema così scomodo ma di grande importanza e che per questo è stata oggetto di inaccettabili attacchi e insulti va tutta la nostra solidarietà.

Gennaro Migliore, Elettra Deiana, Francesco Martone

venerdì 16 marzo 2012

Un mondo nuovo è fattibile

Prefazione alla traduzione italiana del libro di Vicky Tauli Corpuz su pratiche di auto-sviluppo dei popoli indigeni (Marzo 2012)
Costruire un mondo nuovo è fattibile, non è una proposta romantica, ma interamente pragmatica” . Con queste parole Gustavo Esteva, sociologo che da anni lavora nelle esperienze di municipi autonomi a Oaxaca ed in Chiapas, dice al mondo che solo attraverso culture e pratiche autoctone sarà possibile uscire dalla crisi complessa che ormai da anni colpisce il pianeta e gli esseri umani.

Da qualche anno ormai la comunità internazionale discute animatamente sulla necessità di costruire un nuovo paradigma, che possa sostituirsi progressivamente a quello economicista e sviluppista che sta portandoci dritti verso una crisi ecologica e sociale senza precedenti. Si scoprono concetti e valori anche mutuati dalle culture indigene, il Buen Vivir, il Sumak Kawsay, i diritti della Madre Terra, spesso assunti acriticamente come soluzione immediata (“quick fix” direbbero gli anglofoni) al progressivo sgretolamento delle basi culturali e sociali delle società industriali e post-industriali. Oppure la cronaca quotidiana - nei rari casi nei quali ciò accade - ci racconta i drammi di popolazioni che vivono gli effetti nefasti dei mutamenti climatici, della perdita di biodiversità, di mancanza di accesso al cibo ed all’acqua potabile, di esclusione sociale, di impoverimento.

Puntando il dito sulla crisi, viene però ignorato, o lasciato sottotraccia, un pezzo di umanità che da tempo immemorabile e con perseveranza vive e resiste nel rispetto profondo dei valori spirituali e non della natura, nell’intreccio indissolubile tra viventi e cosmologie millenarie. Milioni d’ indigeni di ogni parte del mondo praticano modelli di gestione, conservazione delle risorse naturali che rappresentano un contributo prezioso alla sfida continua di coloro che si ostinano a voler coniugare benessere con rispetto degli ecosistemi e della vita.

In tale prospettiva, portare alla luce queste esperienze, queste modalità che rappresentano l’esistenza incarnata di persone, uomini e donne, è un primo atto politico di grande rilevanza. Serve in sostanza a riconoscerne l’esistenza, la capacità “agente” in processi di trasformazione del modello di sviluppo. Portare alla luce la loro esistenza è il primo passo, necessario ed irrinunciabile, per costruire un nostro punto di vista decolonizzato, che si lasci dietro le spalle facili pietismi o complessi ancestrali di colpa.

I popoli indigeni, prima raffigurati come oggetto di civilizzazione, poi come vittime della stessa, rivendicano con la loro stessa modalità di vita il proprio diritto alla dignità. Da vittime della storia da anni si sono fatti soggetti attivi, che in quanto tali interrogano anche le culture e le pratiche della solidarietà del mondo “sviluppato”. Si sono trasformati in un soggetto “politico” transnazionale e globale, il cui agire però e fortemente ancorato ai territori, alle comunità di appartenenza.

Le storie raccontate in queste pagine pertanto non possono essere derubricate facilmente a raccolta quasi “accademica” di buone pratiche, un termine fin troppo asettico ed abusato, che rischia di svuotarne la portata. Dobbiamo saperle leggere mettendoci dalla parte dell’altro.

Allora si dipanerà davanti ai nostri occhi un’altra realtà, quella di storie intessute nella resistenza diaria di chi comunque continua a soffrire l’esclusione da diritti fondamentali internazionalmente riconosciuti, quali il diritto alla terra, alle risorse, ai territori, il diritto al rispetto dei propri modelli di autogoverno, alla propria conoscenza tradizionale, spesso accusata di distruggere l’ambiente. Un pretesto per riesumare vecchie ossessioni di civilizzazione e d’integrazione forzata, dapprima nelle scale “valoriali” del mondo moderno, ora nelle leggi e nelle regole ferree del sistema di mercato. E su tutti il diritto all’autodeterminazione, al diritto al consenso previo, libero ed informato, chiave di volta di ogni ipotesi di sviluppo nelle terre indigene, se ancora di “sviluppo” si può parlare.

Un concetto che deve invece lasciare il passo ad una pluralità di approcci, ad una molteplicità di culture, e visioni profondamente ancorate nel rispetto dei diritti umani, dei viventi, della natura. Che deve inevitabilmente riscoprire il senso della mutualità, delle culture e della spiritualità come elementi imprescindibili nella costruzione collettiva di nuovi paradigmi.

Ecco allora come queste storie narrate, assumono una potenzialità di cambiamento notevole. Modelli di gestione e valorizzazione delle risorse che affondano le radici in culture ancestrali, che di esse si alimentano e le stesse alimentano, che non potrebbero essere senza la determinazione e la resistenza quotidiana di chi li pratica. E che sono il frutto di una condivisione dei saperi, che si tramanda di generazione in generazione, di uno sforzo millenario, che potrebbe educare anche noi alla cura delle relazioni e del vivente.

Non a caso, molte di queste persone sono donne, come l’autrice di questi scritti, Vicky Tauli Corpuz, (donna Igorot come ama definirsi) con la quale da qualche anno mi trovo a condividere molte occasioni di impegno e di lavoro. Già Presidente del Forum Permanente delle Nazioni Unite per le questioni indigene, prominente rappresentante di quella che forse troppo affrettatamente viene definita società civile globale, (concetto che però difficilmente riesce a raffigurare pienamente la soggettività altra dei popoli indigeni), da sempre attivista globale per i diritti dei popoli indigeni, Vicky Tauli Corpuz ci consegna con questa raccolta di scritti, uno strumento importante di conoscenza.

Un messaggio di speranza e di liberazione, quanto mai necessario per chi oggi, nel nostro paese, dall’Europa dalla quale partì la Conquista, guarda al mondo con gli occhi della crisi, e fatica a trovarne una via d’uscita possibile. Ecco, oggi le prospettive si capovolgono, e da quei milioni di indigeni, in queste pagine, forse potremmo trovare la giusta ispirazione per fare anche del nostro mondo un nuovo mondo fattibile.

lunedì 5 marzo 2012

Appunti per una riforma della cooperazione allo sviluppo nell'era delle crisi

Si è tenuta la scorsa settimana a Roma, convocata dalle principali associazioni di Organizzazioni Nongovernative operanti nel settore (Link2007, Associazione delle ONG, CINI) una conferenza sulle prospettive della cooperazione italiana allo sviluppo.
Quest’ iniziativa si svolge in una congiuntura particolare. Per la prima volta in Italia esiste una figura istituzionale di Ministro della Cooperazione, Andrea Riccardi. Il Ministro ha svolto una relazione introduttiva nella quale ha abbozzato una serie d’ipotesi di lavoro e tentato di contestualizzare la cooperazione e le sue prospettive nel quadro di un mondo in rapida evoluzione, con l’emergere di nuovi soggetti, ed il bisogno di un ripensamento dell’aiuto allo sviluppo. In realtà il Ministro e la grande maggioranza dei relatori hanno omesso di ricordare che già in passato, nella corsa legislatura, si è tentato un processo del genere, attraverso gli Stati Generali della Cooperazione e le iniziative dell’allora Vice Ministro della Cooperazione Patrizia Sentinelli.

Questo finale di legislatura può fornire quindi l'occasione per un percorso di rilancio del dibattito sulla cooperazione allo sviluppo e sulla sua riforma, che ponga le basi concrete, concettuali e partecipative per poi riattivare un iter parlamentare verso l’effettiva riforma della legge 49. Il Ministro ha annunciato l’intenzione di svolgere una Conferenza nazionale a maggio, e di ottenere dal governo garanzie sul suo ruolo centrale di “coordinamento” delle attività di cooperazione internazionale dei vari ministeri, Ministero dell’Economa e Finanze in primis. Giacché è proprio il Ministero delle Finanze che controlla e gestisce la stragrande maggioranza dei fondi internazionali di sviluppo da quelli che vanno alla cooperazione europea a quelli destinati alle Banche multilaterali quali la Banca Mondiale.

Oggi le agende dello sviluppo sostenibile, della lotta alla povertà, della governance globale, dei beni pubblici globali, dei processi di globalizzazione, commercio, investimenti, assieme alle grandi crisi ambientali sono strettamente legate, e chiamano ad un impegno rispetto alla coerenza delle varie politiche. Tale impegno però non potrà esaurirsi in modelli gestionali o istituzionali ma presuppone un ripensamento che va alla radice del significato stesso dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo.

Un aiuto pubblico oggi caratterizzato da una deriva “emergenziale”, dalla commistione tra cooperazione civile e attività militari, dall’enfasi sulla cooperazione come leva per il settore privato e per i partenariati pubblico privato. Al punto che oggi spesso la povertà, (o meglio l’impoverimento) più che prodotto di violazioni di diritti fondamentali, o di esclusione e marginalizzazione dai processi di partecipazione, rischia di diventare solo un prodotto di marketing per la raccolta fondi. Questo in uno scenario nel quale in termini quantitativi, l’impegno italiano nell’aiuto allo sviluppo ha raggiunto minimi storici, minando non solo la credibilità del paese a livello europeo e globale ma anche e soprattutto le attività di una gran parte di soggetti che tentano a fatica di praticare una cooperazione “altra” rispetto al modello dominante.

Ecco il secondo punto. Tra qualche mese si terrà la Conferenza ONU Rio+20 che tratterà temi quali la lotta alla povertà, il reperimento di nuove risorse finanziarie per lo sviluppo, la necessaria integrazione dei pilastri dello sviluppo sostenibile. La UE ha già annunciato che uno degli obiettivi sarà quello di ottemperare agli impegni finanziari per la lotta alla povertà, e l’Italia dovrà fare la sua parte. Quello che a Rio si muoverà in termini di società civile organizzata e movimenti sociali rappresenterà non solo un’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte degli impegni internazionali sullo sviluppo sostenibile, ma anche per mettere a sistema varie elaborazioni critiche, e pratiche di soggetti che provano a costruire processi di uscita dalla povertà e dalla pluralità di crisi (economica, finanziaria, alimentare, energetica e climatica) che siano alternativi a quelli proposti dal paradigma centrato sulla crescita, seppur “sostenibile”. E lo faranno anzitutto mettendo in discussione cosa sia oggi lo sviluppo, provando a capovolgere l’ordine dei fattori, partendo dai diritti fondamentali, dai beni comuni, dal riconoscimento del debito ecologico e sociale, affrontando quei meccanismi d’impoverimento causati dal modello liberista a danno della grande maggioranza dei popoli del Pianeta non più solo nel tradizionale Sud ma ormai anche nella nostra Europa.

Oltre a discutere sulle risorse finanziarie e su come ottemperare agli impegni presi anche di recente a livello europeo e raggiungere così quella soglia di credibilità fissata dall’Unione, sarà allora urgente riaprire la discussione su cosa sia veramente lo sviluppo, quali siano gli attori e le modalità nuove che siano all’altezza delle sfide contemporanee.

Ci si dovrà interrogare e comprendere se oggi l’obiettivo della cooperazione debba essere quello di contribuire ad assicurare attraverso partenariati fondati sull’equità ed il protagonismo diretto dei beneficiari, delle comunità, il perseguimento dei diritti economici, sociali, culturali ed ambientali . Insomma sostenendo processi di “empowerment”, autoproduzione e sovranità alimentare, gestione dei beni comuni, accesso alla salute alla cultura, attività di microimprese, cooperative che operino nelle green economies ed economie di transizione. E collocando questo modello di partenariato, in un quadro più ampio, nel quale si dia centralità alle necessarie riforme delle politiche globali di commercio, investimento, aiuto multilaterale, politiche fiscali, debito estero, per generare risorse economiche in loco per la lotta all’esclusione sociale.

Quello che il Ministro Riccardi ha definito “bisogno di una visione strategica dello sviluppo” andrò quindi affrontato in un percorso di confronto collettivo che valorizzi le pratiche e culture della cooperazione di tutti i soggetti che oggi, in molti casi con enormi difficoltà, fanno cooperazione, non solo ONG, ma reti solidali, movimenti sociali, realtà territoriali, soggetti della cooperazione decentrata.

Ripensare la cooperazione quindi, il modo in cui si fa, chi la fa e come, prendere in considerazione i nuovi attori, il ruolo dell’Italia in un mondo multipolare, che vede l’ascesa di nuovi possibili paesi donatori, i BRICS, e l’affermarsi di una filosofia di fondo secondo la quale l’aiuto pubblico allo sviluppo debba essere “leva” per il settore privato. Quando invece la cooperazione dovrebbe essere “leva” per la tutela e la promozione della dignità delle persone. Ripensare così anche lo sviluppo come mito fondativo di quella visione delle relazioni Nord Sud che oggi non risulta più adeguata alle sfide del futuro. E utilizzare la discussione sulla cooperazione come opportunità per contribuire alla costruzione dell’Europa politica.

Il coordinamento dei vari soggetti istituzionali che oggi fanno cooperazione, è infatti cruciale anche per dare maggior protagonismo al nostro paese nella cooperazione allo sviluppo europea. Oggi la stragrande maggioranza dei fondi di cooperazione italiana vanno al multilaterale e di questi la maggioranza alla UE. Sarà urgente assicurare una maggior partecipazione dei soggetti di cooperazione italiani alla gestione ed utilizzo di questi fondi ed alla definizione delle strategie. Ricordando che anche in Europa esiste un problema evidente di coerenza tra politiche di sviluppo indirizzate alla promozione e tutela dei beni comuni, e dei servizi essenziali, e le strategie commerciali e di investimento, che invece sono tese ad aprire opportunità di mercato per le imprese europee operanti in quei settori.

Così facendo non solo si riuscirà a capitalizzare su un contributo italiano di rilievo e finora poco valorizzato, ma anche a contribuire alla costruzione di un’Europa politica, soggetto ed attore responsabile nello scacchiere globale e nel Mediterraneo in primis, così necessaria a fronte dell’attuale congiuntura politica, economica e finanziaria. Un’Europa che non può esaurirsi nelle prescrizioni della Banca Centrale Europea, ma che deve riscoprire la sua vocazione originaria, di soggetto responsabile nel mondo.