martedì 18 ottobre 2016

Quella domanda infinita di libertà


"let us not forget the impact of Tahrir Square and the Occupy movement all over the world. And (...) let us not forget the Taksim Gezi Park protesters. Oftentimes people argue that in these more recent movements there were no leaders, there was no manifesto, no agenda, no demands, so therefore the movements failed. But (...) There is a difference between outcome and impact. Many people assume that because the encampments are gone and nothing tangible was produced, that there was no outcome. But when we thin about the impact of these imaginative and innovative actions, and these moments when people learned how to be together without the scaffolding of the state, when they learned to solve problems without succumbing to the impulse of calling the police, that should server as a true inspiration for the work that we will do in the future to build these transnational solidarities. Don't we want to be able to imagine the expansion of freedom and justice in the world (...) in Turkey, in Palestine, in South Africa, in Germany, in Colombia, in Brazil, in the Philippines, in the US?
If this is the case, we will have to do something quite extraordinary. We will have to go at great lengths. We cannot go on as usual. We cannot pivot the center. We will have to be willing to stand up and say no with our combined spirits, our collective intellects, and our many bodies" 

Angela Y. Davis, Transnational Solidarities" Speech as Bogazici University, Istanbul, Turkey, (January 9, 2015) su A. Y Davis, "Freedom is a constant struggle - Ferguson, Palestine and the foundations of a movement", 2016.


NOTA: Quella che segue è l'introduzione che ho scritto per il libro "Rivoluzioni violate. Cinque anni dopo: attivismo e diritti umani in Medio Oriente e Nord Africa" a cura di Osservatorio Iraq e Un Ponte Per.. che verrà presentato il 30 ottobre a Roma al salone dell'Editoria Sociale.

 

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I dati e i casi presentati in questa pubblicazione forniscono ulteriore riprova che nei Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa qui analizzati lo spazio per la società civile si sta restringendo, o forse in alcuni non si è mai davvero aperto. Uno spazio materiale ed immateriale di agibilità democratica ed iniziativa politica che intercorre tra il demos e chi governa. Una crepa aperta nel sistema dell’autoritarismo e della cleptocrazia, del malgoverno popolato da  tortura, arresti arbitrari, persecuzioni di varia foggia. Il quadro globale è allarmante, e fa il pari con quello che si registra in questa regione attraversata 5 anni or sono dalle rivolte arabe, e 15 anni fa, in parte, dall’irrompere della guerra globale al terrorismo. Primo intento di questa nostra pubblicazione è pertanto quello di offrire un quadro ed una mappa della situazione relativa ai difensori dei diritti umani in alcuni Paesi della regione, prioritari per le relazioni internazionali dell’Italia ma anche per l’azione dell’associazione “Un ponte per…” che da 25 anni opera per costruire ponti di solidarietà con popolazioni vittime di guerra o di occupazione militare. Pensiamo ad esempio all’Iraq di oggi, che con i suoi conflitti inter-religiosi manovrati ad arte da chi governa, le violazioni dei diritti umani, l’appropriazione delle leve del potere da parte di élites vecchie e nuove,  stride con la mission che giustificò  la guerra dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Una mission inizialmente mirata a evitare l’uso di armi di distruzione di massa - mai trovate - da parte di Saddam Hussein, e poi , in pieno delirio neo-con, a disarticolare il tessuto sociale e politico per ricostruire un modello di democrazia di stampo occidentale. Il tutto condito con la retorica del rispetto e della tutela dei diritti  umani, come se fosse possibile garantirla manu militari. In alcuni dei Paesi della regione la guerra è stata ed è tuttora il leitmotiv con il quale confrontarsi, con le sue conseguenze immediate o di lungo periodo. Lo sanno gli attivisti iracheni che guardano oltre, attraverso il lavoro paziente di costruzione di reti quali il Forum sociale iracheno, e lo sanno le associazioni internazionali che con noi li sostengono nell’Iniziativa di solidarietà con la società civile irachena (Icssi). Questa guerra è combattuta dagli eserciti o - giorno per giorno -  dalle polizie, dai servizi di sicurezza degli stati, dalle organizzazioni terroristiche o dai gruppi paramilitari. Restringe gli spazi di agibilità, li comprime in un permanente stato di eccezione,  spoglia le persone della propria dignità e dei propri diritti con legislazioni di emergenza, securizzazione di ogni spazio, militarizzazione dell’ordine pubblico.
Una guerra che per il popolo palestinese, in realtà, c’è sempre stata. L’attacco sistematico ai difensori dei diritti umani in Palestina ed Israele permea ormai la politica di stato, si fa legge. Basti pensare alle decisioni del Parlamento israeliano volte a perseguire le organizzazioni che si occupano di diritti umani e delle violazioni che conseguono all’occupazione, utilizzando anche il pretesto della lotta al terrorismo. Guerra e terrorismo, allora, sono i due poli tra i quali si comprime oggi lo spazio di agibilità delle società civili. Lo sa bene la Siria, teatro di un conflitto agghiacciante che si protrae da anni scalzando un moto legittimo di libertà e democrazia, nel quale si è inserito Daesh .Lo spazio che occorre tenere aperto, in questo caso, è anche nelle nostre menti, per permetterci di leggere gli eventi e di cogliere gli sforzi e le pratiche di autodeterminazione e rivendicazione di diritti e dignità oltre la visione mainstream. Il caso siriano è emblematico dell’urgenza di un cambio di passo nella visione del mondo e delle cose, uno sguardo che sia finalmente ‘decolonizzato’. Che riconosca cioè quella che la sociologa Judith Butler definisce come “agency”, la capacità dei soggetti di essere artefici dei propri processi di liberazione ed emancipazione. All’immagine della Siria in frantumi si contrappongono allora le migliaia di organizzazioni, associazioni, cooperative locali, iniziative per la difesa dei diritti umani e radio comunitarie che resistono, e tentano di tenere aperto un altro spazio: quello che andrà popolato nella Siria del domani. Un luogo di comunità, dialogo, rispetto, convivenza. 
E poi, quale spazio possibile nella Libia di oggi? Le cronache ci raccontano di un paese sull’orlo della spartizione, attraversato da mille rivoli di violenza e sopraffazione, da Daesh, dai disegni strategici contrapposti delle fazioni politico-militari di Tripoli e Tobruk. Quali spazi si possono tenere aperti allora per i difensori dei diritti umani in un paese verso il quale il solo interesse delle cancellerie mondiali sembra essere la sicurezza delle frontiere per prevenire nuovi flussi di migranti o l’approvvigionamento di petrolio? La realpolitik  sfrutta ad arte – con le ambiguità e gli opportunismi del caso - la retorica dei diritti umani.  Come si spiegherebbe altrimenti l’uso strumentale fatto in Libia del principio della “responsabilità di protezione” dei civili, preso a pretesto per un’operazione militare volta a rimuovere con la forza il regime? Il vulnus persiste, e dimostra la fallacia di qualsiasi dottrina mirata a costruire la democrazia dall’alto, a tavolino o per mano armata, come se la società fosse un luogo asettico, un laboratorio di sperimentazione. Che però riguarda persone in carne ed ossa, come quelle che 5 anni fa hanno occupato piazza Tahrir al Cairo, scintilla di un sussulto di rivolta che ha attraversato in varie intensità tutta la regione. Per un po’ i media e la vulgata ufficiale pareva si fossero dimenticati di quel fermento, di quella legittima aspirazione di libertà. Non per errore, ma per deliberata decisione, si è deciso di chiudere uno spazio di visibilità per interesse o calcolo. Oggi il regime egiziano di Al-Sisi è un fido alleato dell’Occidente nella lotta al terrorismo, nella tutela della “pax americana” di Camp David, nella guardia alle immense risorse petrolifere. E poco conta la sistematica persecuzione di attivisti, sindacalisti, intellettuali,  giornalisti, avvocati. Uno spaccato che la vicenda di Giulio Regeni ha riportato all’attenzione, ma che rischia di sparire nuovamente nei meandri degli opportunismi di rito. Nella vicina Tunisia l’onda lunga delle rivolte arabe sembrava avesse attecchito più che altrove. Ma la navigazione nelle acque dell’autodeterminazione è una domanda infinita, per parafrasare uno splendido saggio del filosofo inglese Simon Critchley. La crepa che si apre è come un rompighiaccio, ma si rischia di restare schiacciati come il vascello di Schackleton. E su quel vascello ci siamo anche noi. “Freedom is a constant struggle”, questo il titolo di una raccolta di interviste e saggi di Angela Davis, che spiega i paralleli tra la recente rivolta degli afroamericani di Ferguson, negli Stati Uniti, e la Palestina. Una lotta costante. Anche per tante associazioni che in Italia, assieme a “Un ponte per…”, stanno lanciando una campagna per la protezione dei difensori dei diritti umani sulla scia di quanto chiesto dalle Nazioni  Unite ai Paesi dell’Unione Europea. Per provare a tenere aperto uno spazio di visibilità e protezione, e permettere loro di lasciare i propri Paesi  se minacciati. Questa pubblicazione è dunque uno strumento di informazione e mobilitazione che vogliamo offrire a chi si adopera per sperimentare percorsi di lavoro comune, giacché se quello spazio si chiude non lo fa solo per i cittadini e le cittadine del Medio Oriente e del Nord Africa. Rischia di chiudersi anche per noi.


 

Le rivolte di ieri, quelle di oggi, quelle di domani.

 
(nota per il lettore: questa nota va letta integralmente, assaggiando passo per passo gli ipertesti video inseriti nel testo, oltre che il videoclip alla fine.....Bon Voyage)

“They say ev’rything can be replaced Yet ev’ry distance is not near So I remember ev’ry face Of ev’ry man who put me here I see my light come shining From the west unto the east Any day now, any day now I shall be released”
 
B.Dylan
 
 
Sono appena rientrato da Parigi, dopo quasi tre settimane di viaggio attraverso l'Europa ed il mondo. Tre settimane intense, iniziate a Berlino, città magnifica, dove aleggia lo spirito di libertà e rivolta, la Berlino del passato, di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, https://www.youtube.com/watch?v=wDa...
 
quella di Kreuzberg e degli squatters, della dissidenza e dell'autonomia. Ci ero stato per la prima volta a Berlino nel lontano 1979 quando c’era ancora il Muro - ci pisciai sopra, ricordo - e le prendemmo di santa ragione dagli uni e dagli altri, mentre cercavano di bloccare pacificamente il Check Point Charlie chiedendo l’abolizione della NATO e del Patto di Varsavia. Abbiamo parlato di repressione, di movimenti sociali, di disarmo, e mi sono lasciato andare ad una "dérive", attraverso il Tiergarten, che mi ha portato nella storia di quella città e dell'Europa. Sono tornato a Roma per pochi giorni, per accompagnare nella sua tappa romana Bertita Caceres Zuniga, figlia di Berta Caceres, da lei ho imparato la tenerezza della resistenza, la determinazione nel chiedere giustizia. E il mio cuore e la mia mente sono andati al Centroamerica, a quei popoli indigeni che resistono da 500 anni, quegli stessi popoli indigeni di Nicaragua, Filippine, Kenya con in quali ho poi lavorato per cinque giorni a Song-Do, in Corea per chiedere il rispetto ed il riconoscimento dei loro diritti all'autodeterminazione, nell'uso di fondi per i cambiamenti climatici. Song-Do città che incarna la presente e futura distopia del capitalismo finanziario, la costruzione di zone urbane asettiche che sono solo contenitore di speculazioni ed investimenti. https://www.youtube.com/watch?v=eEV...
 
Torno a Roma per ripartire per Parigi. Ed a Parigi, forse perché l'ultima volta che sono stato, alla COP21, ho passato tanto tempo con persone, indigeni del "Nord"- dal Nordamerica all'Oceania - ho assaporato il gusto del dissenso, della radicalità, della necessità di de-colonizzare e de-colonizzarci. Forse perché era quella la Parigi che avevo nella mente, e che ho dovuto abbandonare allora anzitempo per correre accanto alla mia mamma che stava lasciando questa Terra. Era la Parigi di pochi giorni dal Bataclan, e della legislazione di emergenza, della determinazione a riprendere comunque la piazza e la parola. Lì a Parigi si tracciò una “red line” una linea rossa invalicabile per proteggere la Terra. Quella linea che oggi è tracciata a Standing Rock in Nord Dakota ad esempio. https://www.youtube.com/watch?v=AeU... Forse c’è era ancora qualcosa che Parigi aveva in serbo per me. E così stavolta Parigi si è fatta leggere in altra maniera. Ossia, questo virus mi era entrato da qualche tempo, e non ha trovato anticorpi o resistenza. Forse era un'influenza che covava da tanto, (non credo fosse effetto collaterale del jetlag che pure ferocemente colpiva quando meno te lo aspettavi) e che ho provato a curare per un pò con la medicina allopatica della "politica", ma il virus è stato più forte. 
 
Ed allora devi conviverci e fare di necessità virtù. Allora già a Montreal al Forum Sociale Mondiale e nella comunità Mohawk di Kahnawake https://www.youtube.com/watch?v=W9Q... questo virus ha ripreso ad uscire con forza, per poi entrare nella mente e nella mia retina e farmi leggere i luoghi sotto altro sguardo. Così a New York mi apparivano, come d'incanto, dalla superficie della città di ogni giorno, piccole tracce di resistenza, nelle librerie, nella street-art, nelle aule della New School, nelle opere di Bruce Conner https://www.youtube.com/watch?v=1ZO... al MoMa. O a Washington, tra i murali della U Street, e la sua storia, quella dei movimenti per i diritti civili, quella di Malcolm X e di Martin Luther King, di James Baldwin, di Black Lives Matter. https://www.youtube.com/watch?v=-JI... Proprio a Washington tanti anni fa ebbi la sorte di essere al Mall, assieme ai partecipanti della One Million Man March, quella immortalata dal grande Spike Lee. Ancora ricordo la retorica infuocata del Reverendo Farrakhan. https://www.youtube.com/watch?v=U8U... Sarei stato poi di nuovo a New York, a Black Harlem qualche anno dopo ad alcune iniziative del Brotherhood of Islam, ospite sconosciuto ma accolto a braccia aperte. E là ho ascoltato le storie di chi era accanto a Malcolm X, quelle parole che ho riascoltato anni dopo ancora ad Oakland, in California, patria dei Black Panther, in occasione di un “re-enactment” di uno dei più famosi discorsi di Angela Davis contro la guerra in Vietnam. https://www.youtube.com/watch?v=dg8... un virus che covava, che era apparso per poi acquietarsi, per poi farsi sentire ancora e che a Parigi ha preso il sopravvento. Così i miei piedi e la mia mente hanno voluto andare a Père Lachaise, a ripercorrere la memoria della Comune, e della resistenza antifascista. Ho saputo solo dopo che a Père Lachaise si combatté la battaglia più sanguinosa della Commune.https://www.youtube.com/watch?v=y65... Per poi finire al Jeu de Paume, perdendosi nella narrazione fantastica che Georges Didi-Huberman fa della rivolta, dei segni, delle parole. http://soulevements.jeudepaume.org/
 
Eppoi ho capito la natura di questo virus, che le parole di Didi-Huberman descrivono meglio di ogni altra cosa. 
 
"La "potenza" sopravvive al "potere", Freud disse che il desiderio era indistruttibile. Anche quelli che sapevano di essere condannati - nei campi, nelle prigioni - cercano ogni modo per trasmettere una testimonianza o lanciare un appello. Come evocato da Joan Mirò in una serie di opere intitolate "La speranza di un uomo condannato in omaggio allo studente anarchico Salvador Puig I Antich, giustiziato dal regime di Franco nel 1974. Una rivolta può finire con le lacrime delle madri sui corpi dei figli morti. Ma queste lacrime non sono un fardello: possono ancora dare “potenza” per le rivolte, come nelle “marce della resistenza” delle madri e delle none a Buenos Aires. Sono i nostri figli che insorgono: Zero in Condotta! Non era Antigone per caso anch’esso un figlio? Che sia nelle foreste del Chiapas o sulla frontiera tra Grecia e Macedonia, in qualche posto in Cina, in Egitto o a Gaza o nella giungla delle reti informatiche considerate “vox populi”, ci saranno sempre figli che salteranno il muro” 
 
Come dice Angela Davis in un suo recente libro, la libertà è una lotta costante, che accomuna chi scende in piazza a Ferguson per rivendicare che le vite dei neri hanno importanza, “Black Lives Matter”, e chi resiste a Gaza. E, aggiungo io, chi resiste sotto le macerie di Aleppo, o in una piccola strada romana, parlo del Baobab per intenderci, per accogliere rifugiati, o in una fabbrica recuperate ed autogestita, parlo ad esempio di RimaFlow , o nella Jungle di Calais, ed in Rojava, o chi resiste con piccoli gesti di ogni giorno, quei gesti, quel braccio alzato, quella parola detta, quel desiderio che, come cerca di farci capire Didi-Huberman, è quello che accomuna e ci accomuna. Ci fa diventare un pò tutti “comuneros”, o “comunardi” dei nostri tempi. 
 
 
(ps. Ovviamente la notizia del Nobel al grande Bob Dylan, oltre a riempirmi di gioia, ha avuto una qualche influenza sul rafforzamento della resistenza del virus a improbabili medicine o ineffabili anticorpi. https://www.youtube.com/watch?v=rKX...)

giovedì 13 ottobre 2016

Yemen, bombe italiane e crimini di guerra

 
Per il Manifesto, 15 ottobre 2016
 La vicenda delle bombe italiane e dei crimini di guerra in Yemen solleva alcuni pesanti interrogativi. Il primo:  inviare  bombe all’Arabia Saudita equivale a  fare la  guerra per interposta persona  contro il DAESH in Yemen?  Che l’invio di armi a paesi in conflitto fosse considerato una “soluzione win-win” per la quale da una parte si partecipa alla guerra senza inviare “scarponi sul terreno” e dall’altra si privilegia la crescita del settore industriale degli armamenti, è chiaro. 
Un  ’articolo uscito nel luglio scorso sul New Inquirer ed intitolato “Recoil operation  approfondisce la questione del commercio legale ed illegale di armi leggere negli States . “La reticenza a livello nazionale ad inviare “scarponi sul terreno” fa il pari con gli impegni a livello nazionale per la crescita del settore occupazionale legato all’industria delle armi, e rende ancor più appetibile l’opzione di armare alleati stranieri invece di andare noi di persona a combattere” si legge.  Nel nostro caso  invece di  mandare aerei   o soldati sul terreno, si mandano bombe, ma non è come se  a combattere partecipasse anche il nostro paese?  E chi partecipa potrebbe essere ritenuto  corresponsabile di eventuali crimini di guerra commessi da chi viene sostenuto?   
Interessanti al riguardo alcune importanti notizie dagli Stati Uniti riportate nei giorni scorsi dalla Reuters e dalla BBC. Non che il tema dell’eventuale chiamata a correo dell’amministrazione USA per il sostegno dato all’Arabia Saudita per complicità in crimini di guerra fosse una novità. Da tempo ormai le organizzazioni per i diritti umani statunitensi sollevano questo pesante interrogativo. Le ultime notizie però sono confortate  da una serie di documenti ottenuti grazie al Freedom of Information Act (FOIA) e raccontano un’altra storia, i cui dettagli meritano di essere approfonditi anche in riferimento al protratto invio di bombe italiane a Riad. Va detto che, a differenza del nostro paese, gli USA collaborano in tre modalità a sostegno dell’Arabia Saudita, ovvero attraverso operazioni di rifornimento in volo, acquisizione di bersagli con drone, e fornitura di bombe. Per questo da tempo l’amministrazione USA si era impegnata a a fornire ai sauditi una lista di obiettivi “santuarizzati” al fine di evitare vittime civili. A nulla è valso visto che, come specificato in uno dei documenti desecretati ed ora accessibili al pubblico, i Sauditi non hanno esperienza e addestramento necessario per evitare vittime civili, e molti rappresentanti dell’Amministrazione americana erano assai scettici sulla loro capacità di bombardare gli Houthi senza uccidere civili o danneggiare infrastrutture critiche. 
 Quindi chi autorizza l’invio di bombe italiane ai Sauditi – al netto delle considerazioni circa il rispetto o meno della 185/90 che vieta l’invio di armi a paesi in guerra - sa o non sa?  Se sai puoi essere corresponsabile, se non sai hai commesso una grave omissione che potrebbe corrispondere a corresponsabilità? I documenti citati dalla Reuters ci raccontano di una discussione interna per meglio comprendere le eventuali ricadute legali del sostegno di Washington a Riad. Anche se poi gli avvocati del governo conclusero di non avere elementi sufficienti per affermare che sostenere Riad equivalesse ai sensi del diritto internazionale, essere considerati come co-belligeranti. In realtà – e a Washington lo sanno bene – la definizione di co-belligerante, e con essa di eventuali corresponsabilità in crimini di guerra,  oggi è assai ampia. Non c’è bisogno di partecipare direttamente al crimine in questione, basta fornire assistenza pratica, incoraggiamento e appoggio morale. Questo determinò la Corte Penale Internazionale nel caso di crimini di guerra commessi dall’ex-presidente della Libera Charles Taylor. Viene da pensare allora a casa nostra. Autorizzare ed inviare  bombe ai sauditi  potrebbe equivalere   a dare assistenza pratica? Incontrare  nei giorni scorsi il ministro della difesa Saudita potrebbe essere una forma  di incoraggiamento?   
Quando  l’Italia venne chiamata a ratificare il Trattato di Roma che istituì la Corte Penale Internazionale ci si limitò ad accogliere solo le parti che riguardavano la collaborazione con la Corte, ma non ad integrare nel proprio codice penale le fattispecie di crimini contro l’umanità previste dal Trattato. Potrebbero però bastare le norme già previste dal LOAC, (Law Of Armed Conflict) le norme di diritto internazionale di guerra. Lo sapeva bene . come ci dice una e-mail desecretata - il vicesegretario alla Difesa Anthony Blinken che nel gennaio 2016 convocò i suoi per capire meglio come evitare che gli Stati Uniti potessero essere perseguiti per il loro sostegno alla guerra saudita in Yemen. Una bomba ad orologeria che rischia di scoppiare nelle mani dell’amministrazione americana e non solo.


lunedì 10 ottobre 2016

Masters of War





Come you masters of war
You that build all the guns
You that build the death planes
You that build the big bombs
You that hide behind walls
You that hide behind desks
I just want you to know
I can see through your masks
(B.Dylan, 1963)

Di Francesco Martone (*)
per Alternative per il Socialismo 
Ottobre 2016


15 anni sono passati dall’11 settembre 2001, dall’attacco alle Torri Gemelle che ha rappresentato un vero e proprio spartiacque nelle relazioni internazionali, con l’avvento della guerra globale permanente al terrorismo. Strategia elaborata per  riaffermare il dominio statunitense in un mondo che alla caduta del Muro di Berlino sembrava sempre più orientato verso una sorta di unipolarismo a stelle e strisce.  Erano i tempi nei quali l’ideologo neocon Robert Kagan beffeggiava l’Europa per la sua ritrosia nel sostenere la teoria e la dottrina della guerra preventiva, tranquilla com’era quella Venere nel vivere la pax kantiana sotto la copertura armata di Marte, del Pentagono. [1]
La stessa Europa che oggi si vuole trasformare in Marte nell’illusoria ricerca di un antidoto alla propria crisi di identità e “mission”. 

A Washington ci s'illudeva allora di poter plasmare con la guerra un’ intera regione, quella Medio-Orientale e di prossimità, disfacendo confini ed assetti statuali per ricomporli a seconda degli interessi delle potenze di turno.  Per poi risvegliarsi in uno stato di “sindrome da stress postcoloniale” che impedisce di leggere gli eventi in altra ottica, e pertanto determina risposte e reazioni a tali eventi e crisi che finiscono per perpetuarle queste crisi,  piuttosto che contribuire a risolverle. Un tragico effetto domino.
Insomma se una cosa l’onda lunga dell’11 settembre ha dimostrato, è stato che la storia non è certamente finita, per parafrasare Francis Fukuyama, anzi, si è nuovamente trasformata in storia di conflitti, corsa al riarmo convenzionale e nucleare, focolai di guerre latenti o guerreggiate, per procura o dall’alto dei cieli. Con l‘invio di truppe speciali, spesso sotto copertura, o l’addestramento di truppe altrui, con l’uso della forza aerea, bombardieri d’alta quota o drone, o con l’invio di armi. Con l’adozione di legislazione e strategie contro il “terrorismo” che hanno aperto pericolose crepe nello stato di diritto, e nella cornice di riferimento fissata dal diritto internazionale. Con l’avanzare di uno scenario da guerra fredda di confronto tra Russia e Stati Uniti che si pensava ormai relegato negli anfratti della storia passata. Ad un conflitto possibile i cui prodromi si stanno ripresentando con frequenza e continuità allarmante si accompagnano le guerre guerreggiate, quelle che mietono migliaia di vittime civili, sotto le macerie di Aleppo.  O insanguinano le periferie del Sud Sudan, nei deserti del Mali, o negli altopiani d’Afghanistan o nelle regioni del Nord Iraq.  Guerre d’occupazione, sapientemente mascherate da operazioni di ordine pubblico, come in Palestina,  o guerre che covano sotto le ceneri, come il conflitto mai sopito tra India e Pakistan in Kashmir, o quello tra popolo Sahrawi e Marocco.
Guerre di egemonia in un Medio Oriente squassato alle fondamenta, nei suo confini postcoloniali ed assetti statali e di governo. Guerre per il controllo di risorse strategiche o per riaffermare il proprio controllo su aree storicamente sotto il proprio cono di influenza, come le guerre francesi contro DAESH nel Sahel, o la guerra di Vladimir Putin a fianco di Assad  e del suo regime in Siria, chiave di volta per un rientro di Mosca in un Medio Oriente ormai marginale nelle priorità strategiche di Washington.
Guerre che vengono combattute dagli altri, e quindi spesso rimosse dalla percezione e dall’attenzione dell’opinione pubblica. Certamente i fallimenti derivanti dalle operazioni in Iraq ed Afghanistan hanno portato ad una certa cautela nel mandare repentinamente “boots on the ground”, si veda ad esempio il caso della Libia. In questo caso però le esitazioni sono state superate con un ipocrita ricorso al operazioni di forze di sicurezza “undercover”, o con la retorica “umanitaria” alla quale il governo di Matteo Renzi in particolare ha fatto ricorso per giustificare l’invio di un contingente di paracadutisti a Misurata.[2]
Retorica “umanitaria” o della lotta al “terrorismo” a parte, la logica della guerra rimane la stessa: al venir meno delle ragioni della politica si fa avanti la logica delle armi. Come spiegare altrimenti le proposte fatte dall’Alto Rappresentante dell’Unione Europea Federica Mogherini, riprese in certa maniera da Francia e Germania, di un rilancio dell’industria della difesa europea, di un comando unificato, di investimenti massicci e una più forte presenza di truppe europee nei teatri di guerra come possibile antidoto alla crisi di identità e legittimità dell’Europa politica?  Va a tal riguardo rammentato come  la strategia di sicurezza europea ed il portato del trattato di Lisbona sulla politica europea di sicurezza e difesa siano state determinate dalla forte pressione delle lobby delle industrie degli armamenti. [3] 
Già il rapporto “Lobbying warfare: the arms industry role in building a military Europe” del Corporate Europe Observatory del settembre 2011 [4]  dimostra come le lobby dell’industria della difesa europea non solo determinano le linee di politica industriale ma anche le strategie di politica estera e di difesa.  Per non parlare del recentissimo rapporto del Transnational Institute di Amsterdam intitolato “Border Wars” che documenta  come l’industria europea della difesa si sta riadattando alla domanda di sistemi di sorveglianza e monitoraggio delle frontiere. [5]  Nel 2015 solamente l’Unione Europea ha speso ben 203.143 miliardi di euro nel comparto difesa.  Un trend destinato a crescere anche attraverso nuovi corposi sussidi pubblici .[6] Insomma si assiste al passaggio da “welfare europeo” a “warfare europeo” di cui parlava a suo tempo Christian Marazzi. [7] Altro che “quantitative easing for the people”, [8]soluzione possibile e necessaria da contrapporre al modello di austerità al quale l’industria militare sembra essere immune ed immunizzata.
Gli elementi e i fattori critici si incrociano, si sovrappongono. E’ quella che Jean Baudrillard ha definito assai argutamente nel suo saggio “Power Inferno, requiem per le Torri Gemelle”, scritto all’indomani delle Torri Gemelle, [9] guerra come “continuazione dell’inesistenza della politica con altri mezzi”. Eppure ad un certo punto pareva che i movimenti pacifisti potessero rappresentare un contropotere, forti com’erano nello sfidare il potere della menzogna e della prevaricazione unilaterale che permeava l’avventurismo neocoloniale delle “potenze” occidentali in Iraq ed Afghanistan.  La terza potenza mondiale la chiamò il New York Times, assimilando alla politica di potenza di chi faceva la guerra, il potere, la puissance, dei movimenti, due elementi assai distinti. E’ la distinzione fra “potere” e “potenza” che va messa a nudo? O forse  è il termine stesso “guerra” che non aiuta a leggere le tracce, e identificare le modalità con le quali la politica estera di potenza si esplicita e pertanto ad individuarne e mettere in campo i necessari anticorpi?
Le guerre sono economiche, commerciali, telematiche e nel cyberspazio, guerre al terrore o al terrorismo, guerre sotterranee, guerre di posizionamento e guerre per le risorse. Guerre alimentate dalle risorse e dal loro sfruttamento e commercio illegale, o per controllare risorse scarse. Qualche anno fa le Nazioni Unite calcolavano che almeno 1/5 dei conflitti armati nel mondo avessero a che fare con le risorse naturali. O per assicurare il proprio controllo, o perché alimentate dal loro contrabbando (Repubblica Democratica del Congo, il Ruanda e la regione dei Grandi Laghi ne sono l’esempio più evidente), o perché il loro sfruttamento indiscriminato ha portato ad un reazione armata da parte delle popolazioni impattate. Il caso del MEND prima e dei Niger Delta Avenger nel Delta del Niger, gruppi armati che si opponevano alle attività di imprese petrolifere, inclusa l’AGIP, a causa del devastante impatto socio-ambientale delle loro attività, sono lì a dimostrarlo. Le prossime guerre saranno per il controllo di risorse scarse, quali l’acqua o scatenate dagli effetti nefasti dei mutamenti climatici.  Guerre “paradigmatiche” insomma, strettamente connesse ai costi sociali ed ecologici del modello dominante di sviluppo, quello del capitalismo “estrattivo”.
Ci sono le guerre contro Al Qaeda prima ed il DAESH ora. Guerre in regioni già provate da forti trasformazioni, o che si sono definite nelle crepe aperte dagli interventi unilaterale del dopo 11 settembre.  A differenza del passato, però, quella che pareva essere una maledizione o una salvezza per altri popoli, oggi entra dentro la nostra quotidianità. Lo fa attraverso legislazioni di emergenza, la militarizzazione dell’ordine pubblico, la securitizzazione di sempre più ampi spazi pubblici e privati.
Varie sono state nel corso della storia le analisi e le strategie che si sono sviluppate intorno alla guerra, “una forza che ci dà significato” diceva nel 2004 in un suo saggio il giornalista investigativo Chris Hedges. [10] Analisi volte a giustificarne il ricorso, che fossero “sante” o giuste”, a scagionare talune potenze rispetto alla tragedia di taluni popoli, a cercare di disinnescare il potenziale di nuove guerre, o portare a termine quelle in corso. Antagonisti della guerra e fautori della guerra in un modo o nell’altro hanno adottato schemi di analisi equivalente, che siano quelli della geopolitica o della realpolitik, della primazia dei diritti umani e dell’esportazione della democrazia, con o senza armi. Forse il punto centrale nel tentare di proporre un quadro di riferimento politico e concettuale per disinnescare la miccia della guerra va trovato altrove, in una nuova prospettiva strategica e concettuale.  Identificando dapprima i nessi e le correlazioni, a partire dal nostro “punto di enunciazione”, e del ruolo che l’Italia svolge nella logica e nella pratica della guerra. Ed in seguito elaborando un quadro di riferimento teorico, politico e concettuale che possa rappresentare un valido paradigma alternativo per la politica estera del paese, ispirato al rifiuto netto della guerra ed al concetto ed alla pratica della “neutralità attiva”.     
Oggi l’Italia, il sistema Italia, derubricato come pura formalità il ripudio costituzionale alla guerra, la guerra la fa per interposta persona o partecipando direttamente, si attrezza per la guerra, si adatta alle nuove modalità di guerra, con uso di drone armati e forze speciali.
Vende armi in giro per il mondo, e aumenta la propria spesa militare: secondo il Documento di Programmazione Economica per il 2016-2018 solo nel 2016 l spesa militare italiana ammonterà a 13.36 miliardi di euro, che, considerate anche le spese per le missioni e lo sviluppo e produzione di sistemi d’arma, arrivano ad un totale di 17,7 miliardi. Le vendite ed esportazioni di armi italiane [11] sono triplicate nel 2015 raggiungendo un valore totale di 54 miliardi di euro.
Accettando  il dispiegamento sul suolo nazionale di bombe atomiche americane di ultima generazione si offre  una volta ancora come la portaerei della NATO, nella nuova allarmante fase di   un confronto con la Russia di Vladimir Putin che sta portando ad una ripresa del riarmo nucleare. [12]
Come strappare quindi  la maschera dei “mercanti della guerra”?
Dal punto di vista della strategia necessaria per resistere alla guerra, andrà anzitutto riconosciuto che la guerra non si può fare senza armi. Pertanto è nell’industria delle armi, con il suo volume impressionante di fatturato globale che va cercata la soluzione, ossia nel disvelare l’intreccio tra la stessa e le scelte di politica estera. Ed avviare un’iniziativa globale per la riduzione delle spese militari (che secondo le stime del SIPRI per il 2015 ammontano oggi a oltre 1.7 trilioni di dollari[13]) assieme alla conversione dell’industria bellica ed  il disarmo, come proposto in un importante conferenza su Disarmo e pace tenutasi a settembre scorso a Berlino ed organizzata dall’International Peace Bureau. [14]
Uno degli ambiti da quali partire per evidenziare tali nessi e immaginare possibili vie d’uscita riguarda la relazione tra produzione e vendita di armi e politica estera.  Premessa essenziale è il riconoscimento del fatto che la politica estera oggi ha un carattere multidimensionale, riguarda non solo relazioni tra paesi, tramite alleanze, o la cessione di sovranità ad ambiti multilaterali , ma anche ed in misura crescente le relazioni commerciali, industriali, la commistione tra interessi di impresa,  economici, strategici- geopolitici. 
A ciò va aggiunto che nella genesi della politica estera, da quella tradizionalmente improntata sulla realpolitik, a quella di potenza, a quella “etica” dell’ingerenza umanitaria  e dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani, si è andata ormai affermando una visione di politica estera  che “securitizza” ogni suo aspetto, dalla cooperazione allo sviluppo, alle relazioni diplomatiche, a quelle commerciali.  Questo punto appare ormai imprescindibile in ogni analisi relativa alla politica estera visto che ne è l’elemento centrale, e non solo per una scelta politica consapevole di abdicazione alle ragioni del diritto e della diplomazia.
C’è poi un elemento che richiama quella che Seymour Melman a suo tempo definiva la  permanent war economy [15], o più semplicemente l’esistenza  di un apparato industrial-militare che determina le relazioni e i nessi causa effetto tra interessi del settore difesa e la definizione ed implementazione della politica estera di un paese.   .
In tale contesto, anzitutto va evidenziato il ruolo sempre crescente del Ministero della Difesa e dell’Industria nella definizione delle linee strategiche del paese e della proiezione del paese vero l’esterno ed allo stesso tempo depositario ed attore di primo piano nella diplomazia industrial-militare. A ciò va aggiunta la proliferazione  di accordi bilaterali di cooperazione tecnico-industriale nel settore militare, volàno per  la cooperazione nel settore degli armamenti e dell’industria.   
L’Italia così continua a vendere armi all’Egitto e ad altri paesi che violano di diritti umani, e ad inviare bombe all’Arabia Saudita, dove di recente si è recata in pompa magna il Ministro Pinotti [16],  impegnata in una guerra sanguinosa e brutale contro le milizie DAESH in Yemen con enormi costi in termini di vittime civili.  
Portando il discorso alle estreme conseguenze si potrebbe affermare che l’invio di armi in paesi in conflitto equivale a partecipare (seppur indirettamente) a quella guerra. E quindi ad essere corresponsabili dei crimini di guerra commessi.[17] Ad un aumento delle esportazioni di armi in zone di conflitto da una parte (quindi una sorta di guerra per procura, all’interno della coalizione contro il DAESH ad esempio, senza però l’invio di “scarponi sul terreno” visti gli alti rischi ed i possibili costi “politici” di un’eventuale operazione) corrisponde  l’aumento delle collaborazioni industriali con paesi che offrono maggiori opportunità di affari, dall’Asia, agli Emirati, all’Africa, all’America Latina.
A questo punto va detto  chiaramente che inviare armi in zone di conflitto è una scelta politica di guerra, seppur per procura,  implica il sostegno alla guerra come modalità per risolvere controversie internazionali, e per esteso violerebbe l’articolo 11 della Costituzione.
C’è poi la partecipazione diretta alle operazioni militari, alle guerre, sotto la guisa di operazioni di pace. Il nostro paese in particolare è attivo negli scacchieri dell’Iraq e dell’Afghanistan, oltre che in Libia, nel tentativo di mantenere in ruolo di partner in tavoli negoziali ed aree geostrategiche di grande rilevanza. In Iraq attraverso il sostegno alla coalizione anti-DAESH, sia con forze armate per l’addestramento di milizie peshmerga kurde, che più di recente con l’invio di un contingente di centinaia di militari a presidio del cantiere dell’impresa Trevi presso la diga di Mosul [18], in un’area di grande rilevanza tattica nell’offensiva finale conto DAESH da tempo annunciata. In  Iraq l’Italia è seconda solo agli Stati Uniti in termini di numero di truppe sul terreno. In Afghanistan il ritiro delle truppe italiane è stato via via rinviato, e ad oggi , a fronte di una situazione in continuo deterioramento per quanto concerne la sicurezza, la presenza è aumentata a 750 soldati  tra Kabul e Herat per compensare il ritiro degli effettivi spagnoli. Resteranno, secondo quanto deciso quest’anno al vertice NATO di Varsavia,  almeno fino al 2017 nel quadro della missione “Resolute Support”.  In Libia , a Misurata, prima dell’annuncio dell’invio di paracadutisti della Folgore a protezione di un ospedale da campo, per la prima volta sono state inviate truppe speciali senza il necessario voto in Parlamento. Ciò è stato possibile grazie ad un articolo inserito in un decreto missioni che lascia nelle mani del Presidente del Consiglio il potere di dare ordini a forze speciali per intervenire in operazioni di “lotta al terrorismo” concedendo  alle forze speciali (incursori, commandos etc) gli stessi poteri degli agenti dei servizi segreti. Quei corpi speciali, qualora autorizzati direttamente dal Presidente del Consiglio, potranno operare quindi  in condizioni di assoluta impunità da possibili reati commessi e segretezza sia in Italia che all’estero. Operazioni undercover quindi, che fanno il pari con la scelta di armare i drone italiani per uso in teatri di guerra. Dopo due anni il Congresso di Washington ha infatti approvato la configurazione di drone Reaper italiani di stanza a Sigonella e la vendita di armi che possono essere così installate ed usate dagli stessi. Secondo quanto reso noto si tratterebbe di  156 missili AGM-114R2 Hellfire II costruiti dalla Lockheed Martin, 20 GBU-12 (bombe a guida laser), 30 GBU-38 JDAM.[19][1]  Secondo   il sito KnowDrones  la decisione di armare drone italiani, oggetto di anni di dibattito negli Stati Uniti, rientrerebbe nella strategia USA in Africa.  [20]
La subalternità a Washington risulta evidente non solo per l’Iraq, l’Afghanistan o la Libia ma anche nel caso della partecipazione agli accordi di condivisione nucleare della NATO.  Con questo accordo di “nuclear sharing”  l’Italia permette la presenza di decine di testate nucleari USA sul territorio nazionale, nella base USA di Aviano e quella dell’Aeronautica Militare Italiana di Ghedi. Finora le bombe stoccate nei bunker sotterranei erano per lo più un pegno di fedeltà all’amicizia transatlantica, vecchie, obsolete e forse mai effettivamente utilizzabili. In virtù di un programma di ammodernamento degli arsenali nucleari americani a quelle bombe verranno sostituiti  micidiali ordigni riconfigurati per attacchi tattici di grande precisione, e non si dovrà aspettare la consegna degli F35 adatti allo scopo.   Una volta installate sugli F35, cacciabombardieri “invisibili” e rifornibili in volo e quindi con un raggio di azione che arriva fino a Mosca [21], queste bombe da tattiche diventerebbero strategiche, con una potenza di distruzione pari a 4 volte quella della bomba atomica di Hiroshima. Alcuni Tornado in dotazione sono ora in  fase di riconfigurazione del proprio software (un'operazione che richiederà un paio di anni) per trasportare le nuove bombe B61-3 e 4 a gravità  con un sistema di orientamento nella coda che gli USA stanno rimodernando a costi elevatissimi.  [22]Fece scalpore la notizia dei costi associati alla messa in sicurezza dei bunker dove verranno stoccate le bombe: si parla di almeno 1 miliardo di dollari mentre per la messa in sicurezza se ne spenderanno altri 154 milioni circa, dopo che un'indagine interna dell'US Air Force effettuata nel 2014 mostrò gravi carenze. Altri 100 milioni di dollari verranno poi spesi ogni anno dagli USA per il dispiegamento delle nuove bombe. Ignorando se non violando gli accordi internazionali sul disarmo nucleare e la non-proliferazione l'Italia aumenta così  la sua capacità nucleare in quanto firmataria dell'accordo di condivisione nucleare NATO con gli Stati Uniti. E  contribuisce ad alimentare la corsa agli armamenti in uno scenario di Guerra Fredda 2.0 nei confronti della Russia.
Ecco quindi che il tema del disarmo nucleare si accompagna all’urgenza di un’iniziativa globale per la riduzione delle spese militari ed il disarmo convenzionale.  La questione che rimane aperta però è se ciò sia possibile in un quadro nel quale il paese, e l’Europa sono inserite in un sistema di alleanze  e  patti di sicurezza collettiva, quali la NATO.
Si manifesta così l’esigenza di un approfondimento del possibile quadro di riferimento concettuale nel quale riprogrammare e rielaborare le pratiche e le proposte dei movimenti pacifisti ed antimilitaristi. Ciò potrebbe essere possibile recuperando e riadattando la proposta e la pratica di neutralità attiva.  [23]Un’utopia concreta che   può   essere presa a riferimento per   delineare un’ipotesi di politica estera  fondato su disarmo,  pace e nonviolenza.    Che faccia cioè tesoro della storia, quella non raccontata negli annali di guerra, o nei libri “mainstream”, assai avvezzi a rappresentare la politica estera e la storia come campi di battaglia armata o meno, tra deliri o strategie di potenza, di impero, di sfruttamento, e assai meno capaci di leggere la storia “altra”. Quella di paesi che invece avevano ed hanno rinunciato alla politica di potenza, alla guerra, alle armi, ma che non rinunciano a cercare di contribuire alla costruzione della pace. Insomma neutrali ma attivi, neutrali dagli schieramenti delle potenze vecchie e nuove, ad esempio la NATO,  ma attivi e partecipi con gli strumenti della diplomazia o della forza “disarmata” nella gestione,  prevenzione e risoluzione delle controversie internazionali. La proposta di neutralità attiva è stato rilanciata da Un Ponte per nel suo documento “L’opzione per una neutralità attiva in Libia”,[24][1] nel quale si propongono una serie di passi, quali la de-escalation della logica di guerra e di uso della forza , la neutralità  rispetto alle fazioni che si opponevano al governo di Al Serraj.  Neutralità attiva significa creare le condizioni per un ruolo terzo di mediazione che prevede l’abbandono di ogni opzione militare,  assieme al sostegno ad attività di peacebuilding.    Recuperare in questo contesto le ragioni di una pratica o un’idea di neutralità è cruciale per dimostrare come sia possibile  lavorare per la pace e la costruzione di relazioni pacifiche tra i popoli senza necessariamente provvedervi attraverso l’uso dello strumento militare o aderendo in tutto o in parte alle strategie delle alleanze o dei sistemi internazionali di sicurezza.  Facendo tesoro dell’esperienza, della storia e delle varie iniziative attivate dalle varie realtà e soggetti del movimento pacifista ed antimilitarista italiano potrà essere rielaborata una cultura della pace. Neutralità attiva significa non ritrarsi nella ridotta dell’isolazionalismo, bensì  adoperarsi per  una ridefinizione della neutralità come abbandono della politica di potenza e della guerra in favore di una politica estera attiva, disarmata, nonviolenta.    Ed è  proprio da questa prospettiva di neutralità  generata dal ‘basso” e che si alimenta  delle pratiche e delle iniziative della società civile e presuppone una sorta di “ingerenza” positiva e di taglio pacifico e nonviolento,  che vale la pena di partire. Con l’obiettivo elaborare proprio “dal basso” assieme a coloro che nel nostro paese lavorano per la pace, il disarmo, la nonviolenza, un approccio ed una proposta concreta, politica, di paradigma alternativo per la politica estera del nostro paese.  

 
 
(*) , già Senatore della Repubblica, membro del Comitato nazionale e responsabile advocacy di Un Ponte Per… www.sinistracosmopolita.blogspot.com




[1] http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/northamerica/usa/1423535/Americans-are-from-Mars-Europeans-from-Venus.html
[2] http://comune-info.net/2016/09/la-guerra-mediatica-del-carciofo/
[3] Per tornare a casa nostra,  si veda ad esempio anche in Italia la relazione stretta tra Finmeccanica e think tank quali lo IAI o l’ISPI  , o Aspen  nei cui  Board siedono rappresentanti di Finmeccanica,  o viceversa exviceministri degli esteri e autorevoli teste pensanti di Aspen Institute che vengono mandati nel board di Leonardo-Finmeccanica.
[6] http://www.disarmo.org/rete/a/43549.html
[9] http://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/baudrillard-jean/power-inferno-9788870788143-938.html
[10] “Chris Hedges, “Il Fascino oscuro della guerra”, Laterza, 2004
[11] http://www.disarmo.org/rete/a/42479.html
[12] http://foreignpolicy.com/2016/10/07/the-united-states-and-russia-are-inching-toward-doomsday-arms-weapons-nuclear/
[14] https://www.ipb2016.berlin/action-agenda-of-the-international-peace-bureau-october-2016/
[16] http://www.disarmo.org/rete/a/43629.html
[17] Lo spiega chiaramente un’eccellente pezzo di inchiesta del New Inquirer “Recoil operation” sul commercio legale ed illegale di armi leggere negli States. “Domestic distaste for “boots on the ground” dovetails with domestic commitments to arms-related manufacturing jobs making it even more attractive to arm foreign allies instead of doing the fighting ourselves”. http://thenewinquiry.com/essays/recoil-operation/
[18] http://www.huffingtonpost.it/francesco-martone/liraq-litalia-e-la-guerra-sbagliata_b_8893402.html

[20] http://www.huffingtonpost.it/francesco-martone/lelefante-nella-stanza-storia-di-droni-italiani-diritti-e-zone-grigie_b_8661726.html
[21] http://nukewatch.org/B61.html
[22] http://ilmanifesto.info/verso-litalia-le-nuove-atomiche-usa/
[23] Transform! Italia 2016, atti del Convegno su “Neutralità Attiva. Un possibile approccio per una politica di pace, disarmo e diplomazia popolare per l’Italia” Roma, 10 settembre 2015  https://neutralitaattiva.wordpress.com/concept/ - per la registrazione integrale del convegno:  https://neutralitaattiva.wordpress.com/tutto-il-convegno-in-video/


domenica 9 ottobre 2016

Troppe morti e devastazioni per avere l'energia "pulita"

Il Manifesto, 7 ottobre 2016


Bertha è stata uccisa perché si opponeva al progetto idroelettrico di Agua Zarca, sul fiume Gualcarque, tra le regioni di Intibucà e Santa Barbara, nei pressi di un’area protetta, uno dei 13 progetti idroelettrici previsti nel territorio del popolo Lenca, di cui Berta era leader riconosciuta a livello internazionale.

Agua Zarca venne approvato nel 2013-2014 e prevede una concessione di 20 anni per produrre 21.3 MW per alimentare il comparto minerario del paese, un settore in grande espansione soprattutto da quando l’allora presidente Zelaya venne deposto con un colpo di stato, nel 2009. Come tanti altri impianti idroelettrici viene proposto come investimento per la produzione di energia “pulita” e quindi come contributo alla cosiddetta «mitigazione» dei cambiamenti climatici, e come modalità per la riduzione delle emissioni di carbonio nel quadro del Meccanismo di Sviluppo Pulito, il Clean Development Mechanism o Cdm. Un approccio di mercato riaffermato con forza nell’accordo sul Clima di Parigi recentemente entrato in vigore e che non prevede norme vincolanti per il rispetto dei diritti umani e dei popoli indigeni.

Agua Zarca è parte di un progetto regionale di integrazione, il Plan Mesoamerica sostenuto dall’Alleanza per la Prosperità del Triangolo Nord, promossa da Barack Obama e dall’amministrazione Usa. Fin dall’inizio il popolo Lenca si è opposto al progetto, che rischia di intaccare irreversibilmente gli ecosistemi del fiume Gualarque, un fiume sacro per il popolo di origine Maya, che lo considera il lascito del Cacique Lempira, capo della resistenza alla colonizzazione spagnola.

L’omicidio di Bertha segue quello di altri tre attivisti Lenca che si opponevano alla diga costruita dalla Desa, impresa con forti legami con l’esercito. In passato il progetto era sostenuto anche dalla Banca Mondiale, che poi si ritirò in seguito ai rischi per i popoli indigeni e l’ambiente, e da Sinohydro. Quest’impresa cinese opera in varie parti del mondo, compresa l’Etiopia, in progetti assai controversi e che spesso generano una spirale drammatica di repressione quali la diga di Gibe III, assieme all’italiana Salini.

Le grandi dighe stanno lasciando in America Centrale e altrove una tragica scia di sangue e repressione. In Guatemala, dove il ricordo del massacro di centinaia di Maya Achiì per far spazio alla diga di Chixoy è ancora vivo, ed altri attivisti indigeni sono stati uccisi o perseguitati in seguito all’opposizione a impianti idroelettrici.

Emblematico il caso della diga di Santa Rita, registrato come progetto Cdm e funestato da gravi violazioni dei diritti dei popoli Q’eqchies di Cobán, Chisec and Raxruha. O nella vicina Panama dove il popolo Ngabe Bugle, si oppone alla diga di Barro Blanco , finanziata anch’essa, come Agua Zarca, dalla Fma olandese e anch’esso registrato come progetto Cdm. Barro Blanco, sbarrerà le acque del fiume Tabasarà inondando le loro terre legalmente riconosciute, obiettivo nel maggio scorso di un assalto delle forze di polizia nel corso del quale vennero arrestati 90 tra donne, giovani e bambini.
Si calcola che una gran parte dei 59 popoli indigeni del Centroamerica viva oggi sotto la minaccia delle forze di sicurezza a causa della loro opposizione a progetti di sviluppo infrastrutturale, sfruttamento di idrocarburi e risorse minerarie.

L’ultimo rapporto di global Witness sui crimini contro i difensori della terra pubblicato nel marzo scorso ha registrato un bilancio drammatico in tutta la regione.
Dal 2010 al 2015 in Honduras sono stati assassinati 109 difensori della terra, 33 in Messico, 32 in Guatemala, 1 in Salvador, 15 in Nicaragua, 2 in Costarica.

Bertita alla ricerca della giustizia

Il Manifesto, 7 10 2016 

«Credo che di fronte alla richiesta di giustizia proveniente da ogni parte del mondo per l’assassinio di mia madre Bertha, sia importante per me essere in Italia per raccontare in prima persona quello che stiamo vivendo in Honduras, rafforzare i vincoli di solidarietà e collaborazione per far sì che alla richiesta di giustizia seguano azioni concrete», Bertita parla con voce sottile, lo sguardo penetrante e profondo incorniciato da capelli neri. Studia storia e cultura dell’America Latina in Messico, dopo aver passato cinque anni di studi a Cuba. Ormai però la stragrande maggioranza del suo tempo la passa in giro per il mondo, per rappresentare il proprio popolo, il popolo Lenca e l’organizzazione di cui fa parte, il Copinh (Consejo Civico de Organizaciones Populares e Indigenas de Honduras), di cui la mamma Bertha era co-fondatrice e leader riconosciuta.

Sette mesi sono passati da quando Bertha ha trovato la morte sotto i proiettili di qualche sicario mandato da chi voleva mettere a tacere la sua voce e quella di chi si oppone al progetto della diga Agua Zarca, a Rio Blanco.

La storia di Bertha, dell’impunità e della mancata collaborazione del governo honduregno nell’accertare le responsabilità e punire i mandanti ed esecutori materiali del delitto, è la storia di tanti attivisti.

Bertita porta sulle sue forti spalle un’importante eredità. È in giro per l’Italia da una decina di giorni. Dopo il Festival di Internazionale a Ferrara, la incontriamo a Roma in occasione della tappa organizzata con il sostegno del Cica, Collettivo Italia-Centro America. Ha voluto visitare la tomba di Antonio Gramsci, come fece a suo tempo la mamma quando venne a Roma per incontrare Papa Francesco in occasione del primo incontro da lui convocato con i movimenti indigeni e sociali di mezzo mondo. E ha finalmente avuto occasione di parlare faccia a faccia con Vicky Tauli Corpuz, la tenace e combattiva relatrice speciale Onu sui Diritti dei Popoli Indigeni, donna indigena Igorot delle Filippine. Era tempo che si rincorrevano. Vicky aveva visitato il sito della diga assieme a Bertha madre, attivandosi fin da subito.

Immediatamente dopo il suo omicidio, si è mossa con tutti gli strumenti a sua disposizione, contrapponendo i suoi dossier a quelli menzogneri e inaffidabili prodotti dal governo dell’Honduras, dall’impresa e dagli organismi finanziari che sostengono il progetto: Fmo olandese, FinnFund finlandese e la Banca centramericana di integrazione economica (Bcie).
È dei giorni scorsi la pubblicazione di un suo rapporto sull’Honduras e il progetto di Agua Zarca al centro delle denunce del Copinh, stilato dopo una missione sul campo, che le ha permesso di constatarne in prima persona la veridicità.

Bertita ha incontrato nuovamente Inka Artjeff rappresentante del Parlamento Sami che vive a Roma e che si è attivata da tempo – dopo essersi conosciute ad Helsinki – per convincere il governo finlandese a recedere dal finanziamento della diga. All’inizio il progetto era sostenuto dalla Banca Mondiale e da Sinohydro, che decisero di ritirarsi in seguito all’indignazione internazionale conseguente l’assassinio di un attivista della comunità Lenca.

In Italia da tempo esiste una rete di solidarietà con il Copinh che si è immediatamente attivata per accogliere Bertita. In molti si sono spontaneamente mobilitati. Da Un Ponte Per alla Fondazione Lelio Basso e il Tribunale Permanente dei Popoli, che anni or sono convocò Berta tra i testimoni di una sua sessione sulle imprese europee e sui diritti umani in America Latina.
A loro ha chiesto sostegno: «Vogliamo una commissione indipendente di inchiesta sull’omicidio di mia madre, che venga immediatamente cancellato il progetto, e che si ponga fine al clima di impunità che il mio popolo e tutti i popoli indigeni stanno soffrendo nel nostro paese». Ha anche incontrato gli attivisti di Amnesty International, che ha rilanciato una campagna nazionale per chiedere giustizia per Berta e pubblicato un importante dossier sui crimini contro i difensori della terra in America Centrale. Greenpeace si è attivata da tempo con i suoi uffici nella regione andina e in Italia, mettendo a disposizione anche la Rainbow Warrior. Tutto questo per offrire uno spazio di protezione e informazione sulla situazione di un popolo e di un paese che, dall’indomani del golpe che depose l’allora Presidente Zelaya, vive una ulteriore drammatica escalation della repressione e l’aumento esponenziale di omicidi contro i difensori della terra e dei diritti umani.

Non che la situazione fosse migliore prima, anzi. «Esiste da sempre un forte nesso tra la spirale di violazioni, la criminalizzazione dei movimenti sociali ed indigeni, l’avanzata della frontiera estrattiva e la costruzione di grandi infrastrutture destinate a produrre elettricità per la trasformazione delle risorse minerarie. A maggior ragione in un contesto di illegalità e illegittimità come quello dell’Honduras del dopo Golpe» accusa Bertita.

È evidente che quella dei diritti è questione essenzialmente politica, con migliaia di storie di resistenza. Se ne è parlato a Berlino, in occasione di un recente incontro promosso dal Transnational Institute, in concomitanza con il «summit» dei movimenti pacifisti e dell’International Peace Bureau, dedicato al disarmo. Lo sanno bene gli attivisti che, a breve, si riuniranno a Ginevra in occasione del secondo incontro del gruppo di lavoro open ended del Consiglio ONU sui Diritti Umani, incaricato di discutere gli elementi essenziali di un Trattato vincolante per le imprese transnazionali e altri attori economici. Una sfida importante, necessaria, che attualmente non viene sostenuta da importanti attori economico-commerciali, quali l’Ue.

Bertita ha parlato anche all’Onu a Roma, di fronte a delegati indigeni, della società civile e delle agenzie Onu in occasione di un evento organizzato da Fao, Ifad e International Land Coalition. Con il suo linguaggio semplice e diretto ha puntato il dito contro il governo honduregno, l’impresa Desa ed i finanziatori europei. Una catena di corresponsabilità che va messa a nudo e perseguita attraverso la solidarietà internazionale, la costruzione di reti e vertenze comuni.

Va rotto il recinto dell’impunità – è di qualche giorno la notizia del trafugamento in Honduras dei fascicoli dell’inchiesta sull’omicidio di Bertha – e dell’oblio, unendo le forze, entrando ovunque, fin dentro le aule della camera. Invitata in audizione dalla presidente del Comitato diritti umani della commissione Esteri della camera Pia Locatelli, Bertita ha chiesto «un impegno chiaro» nei confronti del governo dell’Honduras (con il quale l’Italia ha un accordo per la promozione degli investimenti, ndr), e «verità e giustizia e il rispetto dei diritti umani e dei popoli indigeni. Sarebbe anche importante sollecitare i Parlamenti finlandese e olandese affinché si interrompano i finanziamenti a Agua Zarca».
Bertita esorta il parlamento italiano a seguire l’esempio di altri paesi, come gli Stati Uniti, dove è al vaglio un progetto di legge, il Bertha Caceres and Human Rights Act, che prevede l’interruzione di ogni forma di aiuto militare all’Honduras fintantoché non si risolva il caso di Bertha, e si persegua questo e gli altri crimini contro difensori di diritti umani nel paese, e si indaghino casi di corruzione che vedono coinvolte le sfere militari. «Prima di tornare in Messico e poi in Chiapas, chiudo il mio viaggio italiano a Mondeggi, luogo di un’importante operazione di recupero e autogestione dove mi incontrerò con i movimenti italiani per condividere la mia esperienza e conoscere le loro lotte».

Saluta con un sorriso, Bertita, e riparte con il suo zaino in spalla.