lunedì 28 aprile 2008

La discussione sulla sinistra in Italia deve superare i confini nazionali

Il sito del Transnational Institute ha aperto una sezione sulla politica italiana a cura di Hillary Wainwright che consiglio vivamente di consultare. Forse uno dei limiti della discussione sulla sinistra nel nostro paese è che è troppo centrata sul nostro paese. Approccio limitato sia concettualmente (se si vuole essere all'altezza del nostro tempo non possiamo pià parlare di un paese, o di una nazione, ma di cittadinanza cosmopolita o globale) che praticamente (la sinistra diffusa e sociale ormai è legata a mille reti e  nodi transnazionali che ne rappresentano sia la caratteristica innovativa che un elemento di grande efficacia pratica)

giovedì 24 aprile 2008

Per un'altra Politica

Molti miei compagni e compagne di cammino nei movimenti, stimolati dalla proposta di altri compagni di cammino della rete Lilliput, della rivista Carta, e dei Cantieri Sociali hanno prodotto un importante documento sui principi e le pratiche dell'altra politica, che sento di condividere e pertanto propongo all'attenzione di chi legge questo blog. 





Un’altra politica

Una premessa

Siamo in un momento grave della vita collettiva. Che non ha la sua radice solo negli eventi della politica, le ultime elezioni, ma in un processo profondo di rottura del legame sociale. Qui vogliamo fare un gioco di simulazione: dirci, e dire in pubblico, come immaginiamo debba essere un altro mondo, e come si potrebbe provare a farlo. Questo testo contiene un suggerimento: guardare oltre per capire meglio come affrontare l’oggi.

Due tesi

1. Promuovere dal basso un’azione politica, una condizione di cittadinanza interamente intessuta di legami sociali, pluralista, globale, dotata di una visione d’insieme e capace di proporre un sistema sociale libero dalla logica economica dominante. Affermare che la politica che vogliamo siamo noi, la nostra capacità di essere società. Tutti siamo politici, tutto ciò che facciamo è politica.

2. Esiste una complessa e diffusa galassia di gruppi di iniziativa sociale, associazioni, collettivi, reti, comitati popolari, rappresentanze sindacali, comunità sostanziali costituenti, che formano anelli di solidarietà di reti nazionali e transnazionali, istanze di resistenza, di altra economia, di democrazia diffusa.
Ora è possibile prendere consapevolezza della forza positiva che questa particolare «società civile» esprime, rafforzare la cultura di rete e pensare a un processo collettivo di autogoverno, ad uno spazio pubblico - o, forse, sarebbe meglio chiamarlo d’ora in poi uno «spazio comune» - dove sia possibile offrire, mettere a confronto e condividere esperienze e pratiche. Un patto politico aperto, includente, un vero e proprio sistema diffuso di auto-rappresentanza, capace di contendere ai poteri costituiti il monopolio della decisione politica. Una forza realmente collettiva capace di produrre in proprio, giorno per giorno negoziazione e trasformazione.




martedì 22 aprile 2008

Oltre la guerra

"La guerra è la continuazione dell'inesistenza della politica con altri mezzi" Jean Baudrillard, Power Inferno, 2001


Ieri, 21 aprile ho avuto occasione di tenere una lezione ad un corso di geopolitica organizzato dalla rivista Limes, a Roma. Il tema della "lecture" era a mio parere stimolante anche per la composizione della classe, con una forte presenza di militari. Si è parlato di come prevenire le nuove guerre, come lavorare con la società civile e le comunità locali per costruire percorsi di pacificazione dal basso, e come collegare il tema dei conflitti sulle risorse a modelli di prevenzione che non siano fondati sull'uso della forza. Ho provato a farlo facendo riferimento a due casi studio quello dell'Afghanistan e quello del Darfur. Quest'ultimo in particolare mi pare assolutamente centrale per lo sviluppo di una visione critica del principio e della pratica della "politica estera etica", dell'ingerenza umanitaria, e della cosiddetta responsabilità di protezione. 


sito consigliato : http://www.internationalalert.org.uk/

sabato 19 aprile 2008

Ricostruire la sinistra


“Lentius profundius, suavius”
, così diceva un maestro di tutti noi Alex Langer. Così dovremmo imbarcarci nel viaggio nel quale stiamo stati tutti spinti dall’esito del voto delle elezioni politiche. Lentamente, profondamente, e con dolcezza dovremmo porci una serie di domande e interrogativi comuni sui quali ognuno ed ognuna di noi, chi dall’interno di quello che rimane dei partiti tradizionali chi nella sinistra diffusa, quella sociale, proverà a porsi – insieme o su percorsi paralleli - per spiegarsi le ragioni di una disfatta. Per farlo nella maniera migliore si dovranno immaginare alcune ipotesi di lavoro, scenari anche inediti, Anzitutto partire da una prima considerazione e cambiare il punto di partenza. Più che interrogarsi sul perché in molti sono caduti nelle suggestioni del voto utile ed hanno votato il PD, si dovrà partire dalla constatazione che una gran parte del popolo della sinistra diffusa non ha votato a Sinistra. Perché magari il progetto non attirava, perché il programma costruito dalla SA - a parte qualche eccezione è stato redatto a tavolino - mettendo in fila una serie di rivendicazioni e richieste, a mò di lista della spesa. Perché magari quel popolo - che esiste eccome, e continuerà a far politica alla sua maniera - è stanco di deleghe in bianco e ritiene superflua o per lo meno non determinante una rappresentanza istituzionale. Anche su questo si dovrà riflettere, e la domanda da porsi - a mio parere - è la seguente. Una forza che vuole perseguire una trasformazione della società, che vuole contribuire all’affermazione di diritti fondamentali, che vuole costruire una economia di pace e di giustizia, che si propone un progetto di giustizia sociale ed ecologica, ha veramente bisogno di essere rappresentata in parlamento? Sarebbe utile cogliere in questa crisi l’opportunità di ridiscutere anche i luoghi della rappresentanza, facendolo non in maniera autistica, ma con un’analisi strategica degli obiettivi che si intende perseguire. Non tanto concentrandosi su ipotesi di tipo organizzativo, ma riflettere e valutare quanto oggi la rappresentanza parlamentare e/o partitica sia strumentale o meno al perseguimento di quegli obiettivi, o rimanga fine a se stessa. Inoltre la sinistra dovrà svolgere una radiografia di ciò che resta della sfera pubblica, di quella nella quale si vuole incidere, di cosa rimane dopo il ritrarsi dell’onda lunga del neoliberismo, del materiale sul quale provare a ricostruire un’ipotesi postmoderna e postcoloniale di società. Ed in questo percorso di ricerca, la questione dei luoghi e non solo delle modalità di rappresentanza resta centrale. Magari poi si arriverà per forza di cose alla conclusione paradossale che l’unica maniera per provare a ricostruire la rappresentanza a livello nazionale è di rafforzare quella a livello locale, municipale, e quella a livello europeo. Perchè è lì, in quel canale di azione politica tra dimensione locale e di municipalismo solidale, ed europea che si può forse perseguire al meglio il paradigma glocal, (locale-globale) che deve caratterizzare il nostro operato. Ancorato nelle vertenze, nei conflitti (ed anche nella pratica di alternative dal basso) con ricaduta politica ed istituzionale a livello più alto, quello europeo. Detto questo va aggiunto che un passaggio importante - nel percorso di Rifondazione in particolare - è stato quello di assumere il tema dei diritti civili, dei diritti della persona, un salto culturale e politico notevole insieme a quello della nonviolenza, un’evoluzione che porta ad un superamento della centralità della rappresentanza di classe. Credo che un soggetto di sinistra oggi non possa più esclusivamente rappresentare una classe , ma interpretare e saper leggere bisogni diffusi , trasformarli in diritti universali, in pratiche e progettualità che prescindono dalla rappresentanza di classe. Questo perché - come ogni altra forma di identità - anche le classi tradizionali sono ormai liquide, ibride, caratterizzate da dinamiche di inclusione-esclusione non più dalla redistribuzione del capitale o dei fattori di produzione, ma da diritti fondamentali di cittadinanza. Pertanto i percorsi di liberazione non passano più necessariamente attraverso la contraddizione capitale-lavoro, bensì sono caratterizzati dall’esigibilità e accesso a diritti fondamentali per tutti e tutte, sono processi di liberazione dalla paura, dalla precarietà, dall’incubo e dalla pratica della Guerra e della crisi ambientale. Sono pratiche di liberazione per chi rivendica (operaio e borghese, pardone e migrante, studente e disoccupato, pubblico dipendente e pensionato) il diritto alla scelta della propria identità sessuale, che persegue la parità di genere, o la costruzione di una società multiculturale e laica. Insomma una sinistra nuova si interroga non solo sulla crisi della rappresentanza ma anche sui luoghi vecchi e nuovi della stessa, sulla sua trasformazione da rappresentanza di classe a progetto e processo di affermazione di valori e diritti universali per tutti e tutte. Credo che il compito che ci troviamo dinnanzi non sarà facile, anzi. Dovrà essere fatto con grande umiltà, e forse anche in silenzio, superando questa propensione alla verbalizzazione propria della nostra Sinistra tradizionale. Andrà fatto in maniera autenticamente orizzontale, assembleare, in un processo costituente collettivo. C’è però a mio parere un’ulteriore aggravante. Accanto al processo di elaborazione, prima del lutto e poi del futuro, c’è un urgenza sulla quale finora poco si è parlato. Quella di organizzarci rapidamente per difendere quel che resta dei diritti di tutti, accompagnare all’elaborazione la resistenza civile contro i programmi ed il progetto scellerato di società incarnato da chi ora sarà al governo. Non possiamo permetterci il lusso di chiuderci nelle nostre assemblee o nei nostri blog a discutere del domani quando l’oggi rischia di prendere il sopravvento. Che il nostro camminare domandandoci, sia perciò anche ispirato ed alimentato dalle pratiche di resistenza civile e nonviolenta che dovremmo mettere in campo per lasciare aperti spazi necessari per costruire un altra Italia possibile.

mercoledì 16 aprile 2008

alle radici della violenza nell'era della globalizzazione

Sto leggendo un bel libro edito da Melteni, casa editrice che produce molti titoli di studiosi postcoloniali, dal titolo "Sicuri da morire, la violenza nell'epoca della globalizzazione" di Arjun Appadurai. La tesi a me pare inteessante: il fallimento del progetto di globalizzazione anche dentro le democrazie occidentali ha portato all'insorgere di spinte contrapposte delle maggioranze contro le minoranze "etniche, linguistiche religiose". E' quindi la spinta identitaria alimenta conflitti generati dal senso di frustrazione ed incompiutezza delle promesse di benessere del modello neoliberista. A mio parere però il discorso è ancor più complesso. Nella politica della postmodernità identità e violenza sono precipitazioni che cercano di ricostruire senso di apprartenenza, ethos e tessuto sociale. Per quanto abominevole questo sia. Di seguito  trovate un estratto di articolo di Appadurai che riassume il suo punto di vista. Mi pare una lettura utile. 

da "New Logics of Violence" (2001)

But minorities do not come preformed. They are produced in the specific circumstances of every nation and every nationalism. They are often the carriers of the unwanted memories of the acts of violence that produced existing states, of forced conscription or of violent extrusion as new states were formed. And, in addition, as weak claimants on state entitlements or drains on the resources of highly contested national resources, they are also reminders of the failures of various state projects (socialist, developmentalist and capitalist). They are marks of failure and coercion. They are embarrassments to any state-sponsored image of national purity and te fairness. They are thus scapegoats in the classical sense.
But what is the special status of such scapegoats in the era of globalization? After all, strangers, sick people, nomads, religious dissidents and similar ‘minor’ social groups have always been targets of prejudice and xenophobia. Here I suggest a single and simple hypothesis. Given the systemic compromise of national economic sovereignty that is built into the logic of globalization, and given the increasing strain this puts on states to behave as trustees of the interests of a territorially defined and confined ‘people’, minorities are the major site for displacing the anxieties of many states about their own minority or marginality (real or imagined) in a world of a few mega states, of unruly economic flows and compromised sovereignties. Minorities, in a word, are metaphors of the betrayal of the classical national project. And it is this betrayal – actually rooted in the failure of the nation state to preserve its promise to be the guarantor of national sovereignty – that underwrites the worldwide impulse to extrude or to eliminate minorities. It also explains why state military forces are often involved in intra-state ethnocide