martedì 29 agosto 2017

Il labirinto, i barbari e Bob Dylan



I

In un paese dove se senti strillare per strada giù le mani dai bambini pensi, 
beh stanno chiedendo giustizia per i bimbi del coro di Ratisbona ed invece 
ti trovi di fronte ad una masnada di fanatici anti-vax, a chi salva vite 
umane si dà del criminale fino a prova contraria, che brucia in continui 
autodafé Costituzione, diritto e diritti, che brucia per il climate change, 
che Maduro ce l'ha più duro, o che stiamo con i “democratici” foraggiati  
dalla CIA, che al popolo si deve dare in pasto carne sempre più fresca, che quando  il saggio indica la luna tutti guardano dall'altra parte, manco più al dito, che i vecchi e nuovi fascismi avanzano, e le sinistre si accapigliano in 
sinistrissimi discorsi di architetture improbabili, geometrie variabili, che una ragazzina muore fulminata dall'MDMA e migliaia di ragazzi e ragazze un pò più cresciutelli se ne vanno via da questo paese in cerca di fortuna, che migliaia di
ragazzi e ragazze cercano di arrivare in Europa in cerca di miglior sorte, che pensa ancora di essere un paese di eroi, navigatori, guerrieri e santi, perché sennò ci si continua ad armare fino ai denti, che nega il diritto di cittadinanza a chi ci nasce e cresce, paese di sempre più poveri e sempre più ricchi i ricchi, insomma uno scenario quasi medievale, si deve fare uno sforzo per ritrovare senso.
Forse anche guardando a ritroso, affidandosi alle parole, ai versi, alle storie
piuttosto che alle ideologie. 
Nei giorni scorsi due brani mi hanno particolarmente colpito, a parte il titolo di un
saggio su Bakunin "Il demone della rivolta" che da tempo mi interrogo su quel demone, quel diavoletto che continua a covare in molti e molte di noi, che ricacciamo dentro forse per paura o  convenzione, e che forse oggi è assai necessario, non una rivolta di sangue,  ma di cuore e testa, di atti e fatti.
Il primo è un brano da un racconto di Emma Goldman, "The Maze!" pubblicato su
Harper's nel dicembre 1934, il labirinto nel quale lei - anarchica - arriva in America come tanti altri ed altre migranti, arriva nella terra promessa e scopre tutte le sue contraddizioni,  la democrazia di facciata, la fede incondizionata in una Costituzione che non impedisce a quel paese di fare guerre in giro per il mondo. “The Maze” si chiude con una sorta di appello alle giovani generazioni
" I giovani non hanno ancora imparato che i problemi che li affliggono possono
essere risolti solo da loro stessi, ed andranno risolti sulla base di una libertà economica e sociale in cooperazione con le masse in lotta per il diritto ad avere voce in capitolo ed alla gioia nella vita. Considero l'Anarchismo la filosofia più bella e pratica finora immaginata nella sua espressione individuale, nella relazione che stabilisce tra l'individuo e la società. Inoltre, sono certa che l'Anarchismo sia troppo vitale e prossimo alla natura umana per morire. Credo che la dittatura, sia essa di destra o di sinistra, non potrà mai funzionare, non ha mai funzionato e la storia lo proverà ancora come è stato finora. Da questo punto di vista, è assai probabile una recrudescenza di idee Anarchiche nel futuro prossimo. 
Quando ciò accadrà, credo che l'umanità per lo meno lascerà il labirinto
nel quale si è persa ed inizierà un cammino verso un vivere sano e verso 
la propria rigenerazione attraverso la libertà".
E poi Costantino Kavafis, quello di Itaca, quello che ha provato a riscrivere la storia, quella dei miti e delle epopee dalla parte degli ultimi, dei vinti, dei re un pò
“sfigati”, si direbbe oggi. Una poesia in particolare mi ha colpito assai: "Aspettando i barbari"

che aspettiamo , raccolti nell'agorà?

Oggi devono arrivare i barbari
- perché è così inoperoso il Senato? E perché siedono senza far leggi i senatori?
Perché oggi arrivano i barbari.
Che leggi devon fare i Senatori?
Quando verranno, faranno leggi i barbari

- perché l'Imperatore s'è alzato così presto
e sta alla porta maggiore della città

solenne

in trono, e indossa la corona?
Perché oggi arrivano i barbari
E l'Imperatore aspetta di ricevere
il loro capo, Anzi ha disposto
di offrirgli una pergamena, sulla quale
gli ha scritto molti titoli e nomi

- Perché stamani i due consoli e i pretori sono usciti con toghe rosse ricamate?
Perché indossano bracciali colmi di ametiste e anelli con smeraldi splendidi e
lucenti?
Perché oggi impugnano le preziose mazze
dai raffinati ceselli d'argento e d'oro?
Perché oggi arrivano i barbari;
e queste cose abbagliano i barbari.
- Perché i valenti retori non vengon come sempre
a fare i loro discorsi a dire le loro cose?
Perché oggi arrivano i barbari, e

hanno a noia concioni ed eloquenza.
- Perché questa inquietudine, d'un tratto,
questo scompiglio (Come si sono fatti seri i volti.)
Perché si svuotano in fretta strade e piazze

e tutti tornano a casa pensierosi?
Perché si è fatta notte, e non son venuti i barbari.
Messaggeri son giunti dai confini
e han detto che non ci sono più i barbari
E ora, senza barbari, che sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente. "

E last but not least, finalmente ho comprato Blood on Tracks del premio Nobel per la letteratura, affascinato soprattutto dalla splendida "Simple Twist of Fate", ma anche da "Tangled up in Blue", che chiosa con questi versi:

"All the people we used to know
They're an illusion to me now
Some are mathematicians
Some are carpenters' wives
Don't know how it all got started
I don't know what they're doin' with
their lives
But me, I'm still on the road
Headin' for another joint
We always did feel the same
We just saw it from a different point
Of view
Tangled up in blue"


Dalla parte del mondo

Credo che mai come ora il termine "biopolitica" sia adeguato a rappresentare le sfide che ci troviamo dinnanzi. Veniamo continuamente sollecitati dagli eventi, certamente non casuali, su scala globale a prenderne atto. Stavo pensando a come la politica si debba ricostruire intorno agli elementi centrali della biopolitica, del diritto alla dignità ed all'avere diritto, per ogni essere vivente. Che paradosso quello di un mondo che blinda ancor di più le frontiere alle persone, e che ogni giorno viene sconvolto dagli effetti dei mutamenti climatici, che travalicano le frontiere degli stati!
Eppure quest'è. L'Antartide che si scioglie in acqua, e le acque del Mediterraneo che sempre più assomigliano ad una muraglia impenetrabile. C'è molto di più della questione dei rifugiati ambientali o climatici. C'è la trasformazione di una delle fonti della vita stessa, in minaccia, in arma di deterrenza, ultima frontiera dopo la sua mercificazione. La terra, l'aria, l'acqua, dapprima merci diventano ora minaccia, fronti di guerra, guerreggiata o meno. Stavo rileggendo alcuni brani di scritti di Alex Langer, e la prima cosa che mi è passata per la testa è quella di evitare che anche il suo pensiero e le sue pratiche diventino oggetto di commemorazione. Che il suo ricordo resti quello di un sognatore o di un illuso. Invece in quelle tracce credo si possa scoprire qualche indizio importante sulle due urgenze che la politica dovrebbe far proprie.
Quella appunto delle migrazioni, di come esseri umani attraversano frontiere e di come quelle stesse li attraversano, il tema della nuda vita, da rivestire progressivamente degli abiti dei diritti e della dignità. Del diritto inalienabile alla mobilità, dell’umanità come matrice attorno alla quale ridisegnare società giuste, processi di convivenza pacifica e dolce, le stesse relazioni internazionali, ed il significato stesso di stato-nazione, abbandonando tristi e tragiche suggestioni securitarie, per garantire il rispetto dei diritti di tutti e tutte, di ognuno alla cittadinanza, ad una vita degna.
E quello della giustizia ambientale e climatica. Forse siamo al punto di non ritorno, o poco prima, allora anche in questo caso, la questione climatica non può essere un annesso, un emendamento a qualsivoglia proposta politica, ,ma dev'essere centrale, paradigmatica, deve essere la matrice intorno alla quale rimodellare processi produttivi, stili di vita, la relazione tra umani e la Madre Terra, la decentralizzazione, la rivendicazione e riconoscimento dei "commons", superare il modello estrattivista e spingere il mercato al margine delle priorità. Si parli prima di questo e poi di lavoro, lasciandosi dietro linguaggi e approcci che mi sembra appartengano davvero al secolo scorso. Si metta prima al centro la nostra stessa sopravvivenza per poi disegnare attorno a questo possibili strategie.
Insomma, ciò a cui la politica dovrebbe contribuire è un nuovo patto di coabitazione dolce tra umani e tra umani e la Madre Terra.
Mi piacerebbe tanto ascoltare questo tipo di ragionamenti, invece di leggere noiosissime e scontatissime discussioni, sul calcolo numerico o l'analisi del sangue di platee, fori, processi, eventi, teatri, piazze. Su coalizioni o nuovi soggetti. Poi certo ci si mette un tocco di verde che tanto non guasta, magari ci si può addirittura riciclare un modello capitalista fallito e fallimentare. O parlare di migranti, che ormai bene o male ne parlano tutti. Sono quelle parole passe-partout che se non le poni del giusto contesto perdono il loro significato profondo, in inglese si definisce "lip-service", sono argomenti, non urgenze.
Nel frattempo da queste parti, a 80 kilometri dalla frontiera con la Corea del Nord, ha preso il volo un missile . si dice intercontinentale - una ipotetica minaccia agli Stati Uniti, forse una possibile "pistola fumante" per qualche altra folle avventura militare. O alla fine della fiera più banalmente un gioco del gatto al topo.

giochi di guerra atti di pace

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in alcune vecchie foto, in bianco e nero, scattate nel lontano 1979, avevo poco più di diciotto anni, ed ero assieme ad un gruppo di pacifisti, antimilitaristi e nonviolenti che decisero quell’estate di attraversare l’Europa e protestare contro la NATO ed il Patto di Varsavia. Partimmo da Bruxelles, facendo una catena umana intorno al quartier generale della NATO e dopo varie tappe attraverso basi NATO in Belgio, Olanda e Germania arrivammo a Berlino. C’era ancora il muro, e ci sedemmo a cavallo della linea che separava Berlino Est da Berlino Ovest per bloccare - formando un enorme simbolo della pace (che poi significa Disarmo Nucleare in verità) - il Checkpoint Charlie. Ci sono voluti una manciata di minuti per i Vopos, la polizia di frontiera della Germania Est, e la Military Police degli Stati Uniti per prenderci e trascinarci via senza tanti complimenti. Eravamo fisicamente e non solo stretti tra due fuochi. Gli anni sono passati, sono passate guerre, da quella nei Balcani, eravamo sdraiati dietro al Colosseo per protestare contro i bombardamenti NATO, quella del Golfo, quasi sembrava ci volessero sparare addosso gli addetti dell’ambasciata irakena quando con un manipolo di attivisti di Greenpeace in tuta bianca e maschera antigas avevamo aperto uno striscione contro la guerra. La guerra in Afghanistan, eravamo andati fino a Washington per fare – sotto una tormenta di neve - un’ispezione di “popolo” in una base USA dove erano stoccate armi chimiche, e quella in Irak, milioni di persone in piazza. E poi la Siria, e tutte quelle guerre che non hanno mai smesso di uccidere. E la Libia, a quarta guerra italiana in Libia che la prima addirittura ci fecero un gioco da tavolo.
Gli anni sono passati, e con loro fiumi di inchiostro per catalogare, definire, spiegare, giustificare la guerra, per fare la radiografia di questo o quel movimento. Quel muro sul quale avevo pisciato non c’è più, ma le armi nucleari restano anzi aumentano, e dopo la crisi ucraina il rischio di una nuova guerra fredda è lì dietro l’angolo. Ad un certo punto però si pensò si immaginò un dividendo di pace, il disarmo avrebbe liberato enormi quantità di denaro per la pace e lo sviluppo del pianeta. Non è stato così, anzi la distruzione degli ecosistemi, l’aumento delle diseguaglianze, e delle violazioni dei diritti umani va di pari passo con l’aumento della spesa militare ed il moltiplicarsi dei conflitti. Un tragico bilancio di sangue che i social media oggi portano drammaticamente nella nostra quotidianità, in maniera compulsiva, ripetitiva, quasi a volerci dare assuefazione. La realtà ci sembra insormontabile, per noi costruttori di pace e di ponti, nemici della violenza e degli eserciti.
Sono passati gli anni e così mi sento, ancora tra due fuochi, tra la narrazione dominante che ci parla di guerra – addirittura si torna a ipotizzare un conflitto nucleare! – o di scontro tra potenze imperialiste vecchie e nuove, e chi non sa come reagire. E ci si interroga su dove sia finito il movimento pacifista come se fosse qualcosa di altro, esterno rispetto a quel che dobbiamo fare e dire. E si reagisce con le parole di sempre, appelli alla mobilitazione, parole forse stanche, ma necessarie per tentare di rompere la consuetudine. Fatto sta che mi trovo, come credo tanti e tante nel mezzo. Stanco di parole, preoccupato per gli atti ed i proclami, pieno di orrore per la sofferenza di popoli come quello siriano. E della Palestina non ne parli? E del Sud Sudan? Non so mi pare che a forza di provare a prenderci sulle spalle i mali del mondo siamo finiti per perdere la forza, e speriamo di ritrovarla in appelli alle coscienze buone o al passato. Quel vuoto tra le due fuochi oggi ci dice però qualcosa. Anzitutto ci suggerisce di fare i conti con noi stessi, con i nostri limiti e le nostre capacità. Con l’urgenza di apprendere a coltivare la “trasversalità” come ci dice la grande Angela Davis, l’intersettorialità delle vertenze e delle mobilitazioni, delle piattaforme che sembrano così distanti, ma che invece sono assolutamente connesse ed interdipendenti.
Quel vuoto ci dice poi che non sarà possibile mettere in crisi l’ingranaggio della guerra se non si decolonizzano e si disarmano le nostre menti. E per mettere in crisi l’ingranaggio della guerra ci toccherà fare la nostra parte, gettare manciate di sabbia in quell’ingranaggio che ci è più vicino, piuttosto che guardare lontano ed immaginare di poter cambiare le sorti del mondo. Decolonizzare le nostre menti oggi significa apprendere che nella guerra non ci sono solo vittime e carnefici, ma ci sono popoli che cercano di scardinare quella logica con la costruzione di sentieri di pace, riconciliazione, dialogo, verità e giustizia. Significa allora un primo passo prettamente “politico”, quello di offrire loro sponda. Rompere la logica della guerra che li vede vittime da commiserare o da soccorrere con altra guerra.
Disarmare le nostre menti, significa respingere la possibilità che paradossalmente la guerra finisca per essere l’elemento che dà significato al nostro agire, anche contro di essa. Come se la guerra temuta o attesa finisca per diventare una ciambella di salvataggio. Significa assumere che oggi non sarà possibile alcuna pace senza diplomazia popolare e dal basso, quella dei corpi civili di pace, e senza azioni di disturbo, di disobbedienza – ricordate quella splendida campagna contro l’invio di armi via rotaia, la campagna Trainstopping? civile e nonviolenta.
Dobbiamo diventare portatori di speranza ed “incorreggibili disturbatori della pace”. Non pensare a manifestazioni di piazza, che ormai la piazza non tira più, è virtuale c’è niente da fare – ma ad altro. Senza generali disarmati che guidano cortei, con i loro rituali e liturgie, ma andando nei luoghi della guerra, dove la guerra si cucina, si prepara, dove ci si arma, sotto casa nostra, magari proprio dietro casa nostra, con i nostri volti e i nostri corpi per portare testimonianza, diretta e nonviolenta. Esserci per resistere, come mi raccontò una volta un prete portoricano Luis Barrios quando si fece arrestare per essere entrato nella base di Vieques per celebrare messa. Sorridendo e canticchiando magari, come ho sentito fare da Turi Vaccaro qualche giorno fa all’assemblea del Movimento Nonviolento.
Resistere alla guerra che c’è o a quella che ci sarà è un atto politico, che presuppone la messa in discussione radicale dell’esistente, degli equilibri di forza, delle alleanze dell’apparato industriale che produce armi e strumenti di morte. Significa oltre a denunciare l’aumento delle spese militari e delle esportazioni di armi, andare al cuore del problema. Dire chiaramente che esportare armi in zone di guerra è come andare a fare la guerra, e che quindi esportare armi in zone di guerra è contro la Costituzione, ed agire di conseguenza, per difendere la Costituzione. Ma non solo, significa denunciare con forza la logica aberrante secondo la quale ad esempio il fallimento possibile del progetto europeo si potrebbe evitare attraverso un’Europa forte, non quella della moneta, ma quella della spada e che il volano per il rilancio dell’economia non è più quello speculativo ma quello industrial-militare. E per portare il discorso alle estreme conseguenze: dovremmo una volta per tutte sciogliere il nodo che contrappone disarmo e creazione di posti di lavoro, ed invece rilanciare con gran forza una proposta di conversione dell’industria degli armamenti, possibile e necessaria. Ed accanto a questa chiedere che l’Italia diventi paese denuclearizzato, non solo senza centrali nucleari, ma anche senza armi atomiche.
Che paradosso quello che ci vede oggi assistere ad un minuetto tra potenze nucleari tali o sedicenti tali, mentre il nostro paese, i governo italiano, nel silenzio assoluto si permette di non sostenere il negoziato ONU sulla messa al bando delle armi nucleari. Ed anzi, si attrezza per diventare - se necessario - potenza nucleare per conto terzi, con suoi aerei da bombardamento, che siano Tornado, F16 o F35 e bombe atomiche di nuovissima generazione. Una punta di diamante per le prossime possibili guerre di Washington. Invece di gridare contro Donald Trump presidente di un paese del quale l’Italia è alleata, non sarebbe di gran lunga più efficace mettere una chiave inglese nel suo ingranaggio di guerra a cominciare proprio dallo spiegamento di armi nucleari a casa nostra, e così facendo mettere in discussione anche gli accordi con la NATO?
Ma se vi dicessero che a qualche centinaio di kilometri da casa vostra, o forse a centinaia di metri, dalla scuola dei vostri figli ci sono bombe atomiche con potenza superiore a quella di Hiroshima, che fareste? Vi chiedereste ancora dov’è il movimento pacifista o se quelle bombe servono per mantenere sotto scacco Mosca? O prendereste l’iniziativa come si dice “dal basso”?
Possibile che non si riesca a concentrare le nostre ahinoi poche forze su pochi obiettivi chiari, politici, di vera rottura, invece di invocare la pace delle nostre coscienze?

Le parole che mancano

Le parole hanno bisogno di maturare, di attraversare la mente, l’anima, plasmare pensieri, ripercorrere ricordi, aprire opportunità. Devono stare lì per un po’, acquattate, prima di prender forma, come vibrazioni di un suono, o appese alla punta di un polpastrello. Maggior responsabilità ha chi usa le parole oggi, in quella che viene definita l’era della “post-verità” nella quale tutto ciò che è falso è vero, e tutto ciò che è vero viene accuratamente rimosso, nascosto, come un ospite sgradito. O ignorato. Parole derelitte e marginali, suoni sordi o abitudinari, frenetico ticchettio su una tastiera consunta. E quando alzi gli occhi, sei travolto da un turbinìo di parole, che rievocano ideali antichi, prospettano futuri migliori, gravitano sospese nell’oggi, senza sapere come interpretarli, scandagliarli, per aprire la porta alla speranza. Fatti, non parole, recitava un Jingle pubblicitario di una nota casa di elettrodomestici, nel lontano 1977, quando i fatti erano nutriti dalle parole, dal pensiero critico, dall’agire quotidiano. Già ecco come le parole lasciano il loro alveo e prendono altra forma: quei fatti di allora si traducono – trasposti in un altro livello - nell’atto di raggiungere un nuovo gradino nella scala gerarchica dei consumi. La stessa che altrove in quegli anni si voleva sovvertire con i fatti e gli atti. Sono i fatti che oggi contano, nell’età della post-verità.
Gli atti e i fatti. Atti di insubordinazione come quelli di Cedric, mite contadino francese che va alla sbarra, con dignità, per rivendicare il diritto sacrosanto alla solidarietà umana. Fa pensare come oggi è in quei atti e fatti quotidiani che si misura la nostra capacità di immaginare l’altro, ed altro. Non nelle narrazioni epiche di grandi migrazioni, nei fiumi di parole spese nell’attribuire arbitrariamente significato a ciò che da sempre ha caratterizzato la storia dell’umanità. Cosa spinge migliaia di esseri umani a muoversi? Eppure nell’antichità il wanderlust era privilegio di uomini, e assai poco spesso donne, nobili, colte, i reietti giacevano negli antri nascosti, lontano dal potere e dalla falsa opulenza. Oggi chi si muove con un atto collettivo ci mette di fronte alla prova dei fatti. Sfida frontiere vere o simboliche, viene attraversato dalle stesse. Ma le nostre parole restano sorde, i nostri atti insufficienti, i fatti, quelli che parlano di tombe nel mare, rischiano di essere l’unico elemento che dà significato, e che trasforma quegli esseri umani in vittime fino a prova contraria. In queste ultime settimane ho molto riflettuto su questo, un pensiero che riaffiora ciclicamente, e che blocca la mia parola, e fa esitare le mie dita. Tanto che questa tastiera ora non risponde neanche più tanto a tono alle sollecitazioni tattili.
L’obsolescenza della parola. o forse la presa d’atto che le parole sono finite. Un tarlo che continua a arrovellarmi. Eppure là fuori scorrono fiumi di parole, verbosità varie, retorica spicciola, o altisonante. Senza che ci si interroghi, appesi a quello che eravamo ieri, e incapaci di guardarci come saremo domani. Per questo oggi scrivo di meno, e magari solo per raccontare di cose concrete. Per provare a tenere stretta la relazione tra parole e azione. A chi mi dice, ma il tuo blog non è aggiornato! Non scrivi più? C’è bisogno di gente come te che studia, analizza, scrive. (NdA: Se c’è una cosa che mi manda in bestia è quando mi si chiama “esperto” ). Per questo oggi, e da un po’ ormai, prendo il mio tempo per farle maturare le parole, provando a sbucciarle una ad una della loro spessa coltre di ambiguità o opportunismo. Provare ad arrivare al cuore della parola, quel cuore fatto di atti e fatti. L’atto di cucire collettivamente una tela bianca impregnata di sangue di donne uccise a Ciudad Juarez, dita che non parlano ma tessono, raccontano la violenza subita da donne aymara in Bolivia, tessono fili di sorellanza con quelle che cadono nella quotidiana sequela del femminicidio. Fatti di generosità , di artigiane indigene che collettivamente mettono la loro conoscenza tradizionale a disposizione per raccontare una tragedia collettiva. Un atto ed un fatto di generosità e insubordinazione alle regole, sangue raffermo, macchioline brune tra ricami sfavillanti, di paillettes e punto-croce. Mentre Teresa Margolles, artista messicana ci raccontava delle sue amiche trans uccise a Ciudad Juarez, e di come lei prova attraverso i suoi atti a definire fatti veri - altro che post-verità! - a Roma si sfilava in piazza per rivendicare un’altra Europa. C’ero stato anche io prima, nello spezzone dei migranti, quello che chiudeva il corteo e che invece rappresenta ciò che può riaprire la possibilità di dar senso alle nostre parole.
Ho sfilato - per poco però forse affetto ormai da una sorta di “fatigue” da manifestazioni di piazza - che spesso mi pare rischino di finire per essere rituali di autoassoluzione – accanto a chi con loro lavora quotidianamente, perché penso che oggi l’altra Europa sia non quella che riempie le nostre parole, ma quella che alza muri. E la vera Europa (oddio forse sto anche io cadendo nella trappola vischiosa delle parole di circostanza!) è quella meticcia? In verità non so neanche cosa sia l’Europa, visto che di un’Europa possibile sembra possano parlare solo uomini e donne, di pelle bianca, di grande cultura o esperienza politica. Bianchi, come bianco era il colore della pelle di chi il giorno dopo al MAXXI condivideva ipotesi di un’Europa possibile. Ad eccezione dell’artista cubana Tania Bruguera che non a caso - ed è stata l’unica a dirlo - ha speso parole per indicare che sul tema dei migranti, dei loro diritti di cittadinanza, si gioca la dignità dell’Europa. L’atto di rivendicare un’altra Europa si scontra così con il fatto che a rivendicarla sia un pezzo di quell’Europa, che io immagino invece non definita, un insieme di culture, storie, vicende, relazioni, storia e mito che si susseguono lungo confini non stabiliti geograficamente.
C’è tanta Asia, tanto Medio Oriente in Europa, parafrasando Edward Said. E non sono solo parole, è un dato di fatto che dovrebbe obbligarci a rivedere le nostre parole, appunto andando al cuore, separando la paglia dal seme. Così non è. Un’attivista algerina ospite in un dibattito promosso nei giorni scorsi da varie anime del movimento pacifista per discutere di Europa e Mediterraneo ad un certo punto chiese ai presenti: “ ma mi spiegate perché da voi in Italia non c’è più la capacità di indignarsi, mobilitarsi contro la guerra?” Parole che evocano atti e fatti. Alle quali non si sa rispondere, e se lo si prova a fare lo si fa con parole di circostanza. Eppure i fatti sono là a dirci che stretti tra le parole di chi condanna ipotetici imperialismi d’antan o di chi teorizza la guerra salvifica ci sono popoli che hanno parola, ai quali la stessa non va “concessa”, popoli che se la prendono ogni giorno con atti di resistenza , fatti straordinari di sopravvivenza. Le nostre parole invece li trasformano in vittime, in oggetti dell’ orrore. Parole dei media, della politica o di chi si azzarda a provare a dare loro rappresentazione, simbolica o meno attraverso linguaggi visuali. Persone alle quali non si offre altra possibilità che quella di diventare corpi morti in una messa in scena di bianche body-bag lungo il Tevere. Bianche body bag, bianche come chi ha immaginato quella performance. Siamo poi così sicuri di non rischiare di finire per contrastare la necropolitica con una sorta di necrofilia? Bianche body bag e un telo bianco impregnato di sangue di donne uccise a Ciudad Juarez tessuto da donne aymara vittime anch’esse di violenza , un nesso di sorellanza uscito dalla mano e dalla testa di un’ artista messicana, amica intima di trans uccise. Parole che in questo caso riprendono significato nella carne viva, non nella rappresentazione mediatica.
Le parole sono anche ricettacoli di memoria, visto che oggi sono il risultato dell’utilizzo frequente protratto nel tempo e nella storia, Quindi si portano dietro anche un pezzo di memoria. Si trasformano, riflettono memoria. La memoria è una parola che ho ascoltato spesso di recente, in alcune occasioni apparentemente lontane tra loro, ed in una terza nella quale la memoria veniva evocata, riportata a nudo. Il filo parte da una bella rappresentazione teatrale al Teatro India di qualche settimana fa , “Acqua di Colonia” si chiamava, ed era un accorto e accurato excursus nelle parole, nelle immagini della colonia, di una storia italiana che si tende spesso a rimuovere o ignorare. Parole che andavano al cuore del problema. Ossia del mancato, ma necessario, passaggio del fare i conti con il nostro passato coloniale, per provare a ridar senso alle parole. Non a caso gran parte di chi prende il mare proviene da ex-colonie italiane, o transita in una ex-colonia, oggi oggetto del desiderio di Roma e delle principali capitali europee. Eppure nonostante le quattro guerre fatte alla Libia quella presa d’atto tarda ad arrivare, non solo da parte dell’establishment ma anche dal “basso” a parte lodevoli eccezioni principalmente dal mondo accademico. Come ad esempio il convegno tenutosi la scorsa settimana all’Orientale di Napoli, altra trama di quel filo che lega pensiero critico, ricerca accademica, azione. Nelle sale barocche di Palazzo du Vesnil si è parlato tanto e bene di cartografie, memoricidio, confini e storia. Quella storia coloniale della quale non si fanno ancora i conti nelle stanze del potere e spesso anche nelle piazze di chi si mobilita e magari o si innamora delle rivoluzioni altrui o cade nella trappola della necrologio. E non si fanno i conti perché a differenza di altri paesi, qua da noi la decolonizzazione non è stata risultato di movimenti di liberazione, ma della sconfitta nella guerra. Al punto che anche l’Italia repubblicana, quella della Costituzione antifascista per anni cercò di tenersele quelle colonie.
Così in una sorta di riflesso incondizionato continuiamo a parlare di un “ambaradam” come sinonimo di “caos” quando all’Amba Aradam si consumò una delle più grandi stragi fasciste del periodo delle colonie. Dettaglio forse sfuggito al Comune di Roma che chiamerà una delle stazioni della nuova metro proprio Amba Aradam dalla strada omonima. Altrettanto interessante una lecture sulla correlazione tra mito fondativo della colonia nostrana, quel mito degli “italiani brava gente” che portano civiltà e progresso, scienza e conoscenza (ieri ed oggi eh, oggi magari con una grande diga o imprese ingegneristiche di alto pregio) e quello dei coloni sionisti che vanno a fertilizzare la terra promessa. Chissà come questo convegno è sfuggito all’attento sguardo censore di qualche solerte impiegato d’ambasciata del governo di Tel Aviv che di recente spesso è volentieri si è adoperata per togliere diritto di parola a chi criticasse le politiche del governo israeliano. Togliere la parola, in ossequi al principio della nondiscriminazione, un controsenso che la dice lunga sullo svuotamento delle parole. Restano gli atti ed i fatti: atti di repressione del diritto alla libertà di espressione e i fatti. Quelli del memoricidio sistematico praticato contro il popolo palestinese, anche attraverso la ricostruzione delle parole e della storia.
Quando si distrugge o si ignora la memoria si uccide la politica. Questa mi è parsa anche la traccia ricorrente dell’opera dell’artista franco-algerino Kader Attia, “Reflecting memories” , nella quale l’artista affronta nuovamente il tema della ricostruzione, della riparazione, di ferite di guerra come di memoria omessa, più o meno colpevolmente rimossa. Lo fa attraverso la rappresentazione simbolica dell’arto fantasma, il “phantom limb” fenomeno che in medicina sta a raccontare la sensazione di avere ancora un arto invece amputato. Sembra che hai due gambe o due braccia ma in realtà una è il riflesso della memoria di quell’arto che vorresti ancora attaccato. E’ la rimozione del dolore, o del passato, personale, o storico, politico o emozionale. Che magari riesci in parte a risarcire ma che resta nel profondo. C’è molta politica nell’arte di Attia, che con mano sapiente e delicata ha saputo rappresentare il dramma dei “desaparecidos” nel Mediterraneo ed ora lavora assieme a tanti artisti ed attivisti alla proposta di una “costituente migrante” , al tentativo di proporre i migranti come un popolo, una comunità di destino con i suoi diritti sacrosanti, in quanto soggetti e non oggetti di rappresentazione, carità o soccorso, di disputa politica, di studio o di lucro.
Tutte queste parole per dire che per poter provare a cogliere il senso del nostro agire politico, oggi dovremmo “disimparare il nostro privilegio” come ebbe a dire una grande studiosa postcoloniale, Gayatri Chakravorty Spivak in una splendida intervista a Il Manifesto di quasi un anno fa. Lei dice: “Credo sia fondamentale focalizzarsi sui privilegi, ma invece di disapprenderli, o prima ancora di imparare a disapprenderli è necessario vedere dove essi si situano, riconoscerli e “to use them”:vedere ed usare il privilegio i maniera funzionale, per volgersi a nuove pratiche di apprendimento e comunicazione”. Insomma per la Spivak disapprendere il privilegio deve trasformarsi in “imparare ad imparare dal basso”, e considerare tale disapprendimento come una perdita. Noi in realtà abbiamo perso qualcosa ma continuiamo a pensare che sia lì. Finché non ce ne renderemo conto … le parole continueranno a narrare di quell’arto che non c’è, l’arto fantasma di Kader Attia, ignorando ciò che fa o potrebbe fare l’arto che c’è.

Piazza Indipendenza, Parigi

Si dice, pare, riprendendo una categoria cara ad Antonio Gramsci, che stiamo vivendo in una sorta di interregno, una situazione liminale nella quale sai quel che lasci, ma non ancora si materializza dinnanzi ai nostri occhi il futuro prossimo. Una fase fluida, di rimescolamento, di sperimentazione forse, piena di ipotesi, potenzialità e rischi. Una fase nella quale chiunque può sentirsi legittimato a osare, nel bene e nel male, a proporre e saggiare ipotesi per il futuro. C’è chi osa disobbedendo alla legge per aiutare un proprio simile, e così facendo sposta in alto l’assicella della giustizia, invocando il diritto alla giustizia umana, rispetto a quella dello stato, che inesorabile interviene condannando o stigmatizzando quella condotta in quanto illegale o criminale. C’è chi osa, cercando, saggiando il terreno, provando a spostare quell’assicella in basso, svuotando man mano categorie di ieri, quella dei diritti umani ad esempio, reintepretandola a proprio uso e consumo. La storia recente del nostro paese è fatta di questi tentativi, che sbaglieremmo a definire solo episodici, giacché denotano il rischio di una definitiva, e quindi drammatica, involuzione politica e culturale, i cui prodromi sono già assai evidenti. Episodi di repressione, di diniego di diritti, di criminalizzazione del mondo della solidarietà, di compressione temporanea o prolungata di spazi di agibilità civica e sociale. Su tutto ciò un discorso pubbico fatto di ostilità verso l’altro, di ossessione securitaria ed identitaria. A Piazza Indipendenza è andato in scena un tentativo, come tanti altri, di saggiare la fragilità o meno di quella linea rossa che demarca il terreno di agibilità, di esercizio dei diritti di cittadinanza, di libertà. E come tutti i tentativi, ad un certo punto, scagliata la pietra, si tenta di nascondere la mano, o si corre ai ripari, offrendo una soluzione fino allora impensata, come quella logica di destinare beni immobili sottratti alla mafia a chi non ha casa.  Bene, ben venga una possibile soluzione alla questione del diritto all’abitare, ma non si perda di vista il contesto generale nel quale quell’episodio si è verificato. Giacché altri potrebbero verificarsi, nella fase fluida dell’interregno.

Per questo oggi come non mai spetta anche a noi porre i termini della questione, e provare a spostare l’assicella ancor più in alto, cercando anche noi di “saggiare” nuovi approcci ed elaborare nuove categorie. Questo pensiero mi attraversa la mente da tempo ormai, dopo la constatazione dell’obsolescenza delle parole, alla quale si deve rispondere con atti e fatti. Ma forse questo davvero non basta, come non basta solo mobilitarsi. Forse davvero dobbiamo tornare alle parole, ridar loro senso, giacché è dall’uso della parola e delle parole che si produce oggi un brodo di coltura dell’odio, della xenofobia, del rigetto dell’altro. Ed allora, si provi a farlo, iniziando con il decostruire le categorie per ridar loro significato. Prendendo a spunto il caso di Piazza Indipendenza ad esempio, e partendo dalla questione della differenza tra diritto alla casa e diritto all’abitare. Due categorie a prima vista simili, ma nella pratica assai differenti, giacché il diritto alla casa non prende in considerazione il fatto che un essere umano non solo riempie le pareti di un immobile, ma abita un contesto sociale, economico, politico, culturale nel quale tale “luogo” dell’abitare è collocato. E sradicare quella persona o quella famiglia da quel contesto, è eguale a quel che si fa nei paesi in via di sviluppo quando per costruire una diga ad esempio, si obbligano comunità a lasciare i propri villaggi, per abitazioni costruite ad arte altrove, decomponendo così il nesso tra persona e luogo, e disarticolando reti sociali e di comunità.

Il diritto all’abitare come diritto umano fondamentale, ed in quanto tale indivisibile, non separabile da altri diritti umani quindi, un diritto che - come sottolinea la relatrice speciale ONU sul diritto umano all’abitare - deve prendere priorità rispetto ai diritti del mercato e dell’impresa. Un diritto umano indivisibile, come tutti i diritti umani. Ed allora proprio prendendo questo come tema, spostiamo ancora più in alto l’assicella.

Se i diritti umani sono indivisibili, e quindi non ci sono diritti umani di seria “a” o di serie “b” -  o meglio non dovrebbero esserci - perché distinguere tra coloro che fuggono perché rischiano di soffrire la violazione dei loro diritti civili, ad esempio in paesi dove esistono dittature, e chi soffre la violazione di altri diritti, quelli economici o quelli ambientali ad esempio?   
Nel vertice di Parigi dei giorni scorsi, si è riaffermata la determinazione a distinguere i rifugiati dai migranti economici e non caso. Una distinzione che già a suo tempo Annah Arendt respinse in uno suo splendido scritto sul tema. “Ci chiamano rifugiati, ma a noi piace chiamarci “nuovi arrivati” o “immigranti” scrisse in apertura, Questa distinzione è anch’essa segno di un approccio coloniale, nel quale chi ha il potere, di dare fondi, di chiudere frontiere, di decidere chi entra e chi esce, si prende anche la briga di spacchettare quei diritti umani fondamentali. Come se la violazione protratta di diritti quali quello al cibo, alla salute, alla casa, che soffrono milioni di uomini e donne d’Africa non fosse parimenti tragica della violazione dei diritti civili. Come se questa non fosse anche risultato indotto delle politiche economiche, commerciali, di investimento e di aiuto allo sviluppo dell’Europa e dei suoi stati membri. O solo la prova provata del loro fallimento.

Pertanto, se esiste una regola del diritto internazionale che proibisce, o meglio proibirebbe, l’espulsione di una persona verso un paese dove rischia di essere soggetta a tortura, o trattamento inumano o degradante, perché quella regola non potrebbe essere applicata anche a chi se espulso verrebbe rigettato nella miseria, ossia nella negazione sistematica dei propri diritti umani? Quell’assicella è stata già portata in avanti dalla Corte Penale Internazionale che oggi equipara a crimini contro l’umanità gli effetti causati da pratiche quali il landgrabbing, e quindi amplia questa categoria in maniera inedita. È il tema anche dei rifugiati ambientali e climatici. Lo stesso potrebbe dirsi quindi nel nostro caso: la violazione dei diritti e della dignità delle persone indotta dalla povertà, o meglio dall’impoverimento, equivale nei suoi effetti, ad un crimine contro l’umanità, E rispedire quelle persone a vivere in quel contesto, nel quale vivranno in condizioni inumane e degradanti,  equivale a essere complici di tali crimini. Tutto questo i capi di stato e di governo seduti al tavolo del vertice di Parigi non hanno voluto considerarlo, anzi, il tema dei diritti umani è stato come sempre relegato a appendice, incarico da esternalizzare a agenzie dedicate al monitoraggio, in questo caso delle condizioni di vita nei prossimi hotspot che verranno costruiti sulla rotta subsahariana. Una cosa che va detta come routine. Faceva un certo senso ascoltare il presidente del Ciad Idriss Deby, non certo un campione di democrazia e diritti umani, chiedere fondi, ed aiuti allo sviluppo e sottolineare l’importanza dei diritti umani, seduto al tavolo accanto al presidente di una potenza ex-coloniale (ex?) quale la Francia. O il Presidente del Consiglio italiano accanto al presidente “designato” della Libia.

Viene da pensare quindi molto alla questione dei diritti umani, se cioè nello spazio che intercorre tra l’obsolescenza del termine, e la sua negazione, la sua riaffermazione o uso strumentale come strumento di dominio, esista un’ipotesi culturale, politica e filosofica che  possa ridargli senso. O forse no? A suo tempo Giorgio Agamben affermò la necessità di andare oltre i diritti umani, “Beyond human rights”, nel trattare il tema delle migrazioni. Giacché la categoria stessa di diritti umani è incardinata nella centralità dello stato-nazione, nella sovranità nazionale, che oggi si vorrebbe riproporre a destra e manca come soluzione ai grandi mali dell’umanità.

Agamben ci dice che la novità rappresentata dal fatto che ampi settori di umanità oggi non sono più rappresentabili all’interno del concetto di stato-nazione, crea una condizione nella quale gli stessi fondamenti dello stato-nazione vengono messi in discussione. E che “il rifugiato, una figura apparentemente marginale, disarticola la vecchia trinità tra stato-nazione-territorio, e quindi merita di essere considerato la figura centrale nella nostra storia politica”. Figura centrale della nostra storia politica, la nostra storia politica. (Non solo un’emergenza di cui tener conto per essere “politicamente corretti”, ma la figura “centrale”.  Lo abbiano bene a mente coloro che si stano ingegnando per provare a proporre un’ipotesi plausibile a sinistra). Pertanto, “il concetto di rifugiato va distinto dal concetto di “diritti umani” ed “il diritto di asilo non andrà più considerato la categoria concettuale nella quale inscrivere il fenomeno dei rifugiati. (…) il rifugiato dovrebbe essere considerato per quello che è , cioè nulla di meno di un concetto limite che mette in crisi i principi dello stato-nazione e apre la via ad un rinnovamento di categorie che non è più rinviabile”.

Rinnovamento di categorie quindi, che dall’altra parte è già in atto, attraverso una rielaborazione delle parole, o la sperimentazione di territori fino ad oggi sconosciuti, e che a questo punto sarà non più rinviabile anche da questa parte, dalla parte nostra, di chi sta dalla parte della giustizia e della dignità, della pace e della solidarietà. Forse questo potrebbe essere uno dei risultati più importanti del nostro sdegno per i fatti di Piazza Indipendenza.  In quella piazza, in quelle immagini, abbiamo visto la rappresentazione di quella che Agamben chiama la “nuda vita”, ma anche la potenzialità negata dell’accoglienza, la disarticolazione di un esperimento di “bene comune mobile” come vengono definite oggi quelle pratiche di costruzione di comunità di migranti e rifugiati in zone liminali della città, ad esempio edifici come quello in via Curtatone, che attendevano di essere immessi nel mercato immobiliare dopo in passato di edifici “pubblici”.


Abbiamo anche intravisto l’ulteriore prova dell’urgenza di una profonda “decolonizzazione” del nostro sguardo, e della nostra pratica politica, che passa certo attraverso la riscoperta della storia, nel nostro caso nel nostro passato coloniale nei paesi di origine di quelle persone, Eritrea ed Etiopia ad esempio, E’ paradossale pensare al fatto che in quella piazza intitolata all’indipendenza del nostro paese sono stati picchiati esseri umani costretti a fuggire dalle angherie di chi, Isaias Afewerki, in Eritrea e nel mondo a suo tempo fu considerato eroe dell’indipendenza del suo paese. Ed anche dall’assunzione della nostra “situazione di privilegio”, per “disapprenderla” come ebbe a dire a suo tempo la filosofa post-coloniale Gayatri Chakravorty Spivak. Ricordando anche che - a differenza di altri paesi -  dove il passato coloniale fu messo in crisi con atti di rottura e rivolta in loco, insomma dai movimenti di liberazione nazionale, questo non è mai avvenuto nel caso dell’Italia, che perse le proprie colonie solo per aver perso la guerra. E questo fatto ha influito non poco nell’incapacità del nostro paese, della sua politica e la sia cultura, nel rielaborare il proprio passato coloniale, farci i conti, decostruirlo e superarlo.  Faremo bene quindi a cogliere quest’occasione per farlo.