lunedì 14 febbraio 2011

SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL TEMA DELL’ESPORTAZIONE DELLA DEMOCRAZIA E INTERVENTI MILITARI: IL CASO AFGHANISTAN

Testo dell’intervento al dibattito: dibattito: ” Afghanistan e non solo : democrazia esportata a geometria variabile”, Roma, lunedì 14 febbraio

Di Francesco Martone

“Dire democrazia è diventato un caso esemplare di mancanza di significato. A forza di rappresentare l’insieme della politica virtuosa e l’unica maniera per assicurare il bene comune, la parola ha finito per riassorbire e dissipare ogni carattere problematico, ogni possibilità di messa in questione … La democrazia insomma vuol dire tutto, politica, etica, diritto, civilità, e quindi non dice nulla”.

Jean Luc Nancy

“Democratie, dans quel Etat?”, La Fabrique Editions, 2009

Quel che accade oggi in Egitto è una condanna dell’ordine globale, quale quello fino ad oggi rappresentato da un Egitto “stabile” (…). In un periodo nel quale la costruzione dello stato è al centro delle dottrine di sicurezza, e nel quale la presenza militare straniera in Afghanistan è fondata su un approccio scientifico verso la legittimità ed i sistemi di governo, gli eventi in Tunisia ed Egitto ci ricordano che l’ordine sociale e la legittimità politica sono più il risultato di un’alchimia imprevedibile che il prodotto di formule esatte”.

World Politics Review Febbraio 2011

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Queste due osservazioni forniscono spunti utili per provare a capire quali siano oggi, a dieci anni dall’inizio della guerra in Afghanistan, le contraddizioni insite nella pratica di costruzione della democrazia a tavolino, e quali i punti critici sui quali insistere per provare a costruire un paradigma alternativo a quello vigente.

Premessa indispensabile per tale esercizio è quella di analizzare il concetto di esportazione della democrazia in stretta correlazione con i processi e le scelte politiche e militari che lo sottendono, e chiarire anzitutto i concetti di “state building” e “nation building”.

Secondo la definizione fatta da Francis Fukuyama nel suo Esportare la democrazia – state building ed ordine mondiale nel XXI secolo” i due concetti presentano delle differenze sostanziali.

a. “state building” riguarda la creazione di istituzioni di governo

b. “nation building” riguarda il potere politico esercitato da autorità occupanti direttamente o su governi locali.

Questi due obiettivi spesso entrano in contraddizione con il rischio di bloccare un processo autonomo di democratizzazione. Da una parte la mancanza di istituzioni democratiche impedisce il “nation building” e dall’altra le istituzioni non possono funzionare se le parti in conflitto non accettano lo stato.

In linea di massima questa contraddizione emerge con chiarezza in varie fattispecie di sostegno o “esportazione” della democrazia.

C’è il caso di paesi che avevano strutture di governo, istituzioni insediate, si pensi all’Irak, nel quale la decisione di invadere il paese ha portato al collasso di ogni struttura dello stato. In questo caso le due pratiche di “state-building” e “nation-building” sono corollario della scelta militare di invadere un paese, disarticolarlo per poi costruire un’ipotesi di democrazia “perfetta” di stampo occidentale e sotto protettorato militare.

Oppure il caso di Haiti, o della Somalia, quelli che secondo il gergo sono considerati “failed states-stati falliti”, che non hanno più le strutture adeguate per assicurare la gestione della cosa pubblica, la stabilità o il servizio dei diritti fondamentali delle proprie popolazioni. In questo caso la decisione di definire se no stato è “fallito” o meno è tutta fatta secondo criteri sviluppati nelle capitali del mondo di minoranza, senza provare ad ascoltare i bisogni e le rivendicazioni di quelle popolazioni che sarebbero le prime vittime degli effetti di uno stato fallito.

La constatazione del fallimento di uno stato, apre la strada alla possibilità d’ ingerenza umanitaria, giustificata dall’imperativo categorico di intervenire laddove il governo di quel paese stia fallendo nell’assicurare il godimento dei diritti fondamentali dei suoi cittadini, La comunità internazionale quindi decide o meno di rispondere ad imperativi di ordine “etico-morale” ed intervenire “per conto” di quelle popolazioni minacciate secondo quella che viene definita “responsabilità di protezione”. E per poi contribuire a ricostruire lo stato ed il sistema politico. Anche in questo caso la realpolitik e la “politica estera etica” si intrecciano e si confondono a seconda di quello che viene percepito essere l’interesse nazionale di chi decide e pratica l’intervento umanitario. Si notano in queste fattispecie alcuni elementi comuni, ovvero il conflitto tra realpolitik e principi etici, la definizione delle popolazioni destinatarie degli effetti suppostamente benefici dell’intervento esterno non intese come soggetti principali del processi di ricostruzione della cosa pubblica e dei sistemi democratici , e la stretta correlazione tra state-building , nation-building, dottrine di sicurezza ed ingerenza umanitaria, e strategie militari.

E veniamo al caso Afghanistan.

In Afghanistan la “nation building” affidata alle truppe del contingente ISAF o delle forze armate USA viene perseguita attraverso tattiche di contro-insurgenza piuttosto che attraverso il rafforzamento del principio di legittimità e la ricostruzione dello stato, della società e dell’economia. Obiettivo della strategia di contro-insurgenza è quello di costruire le condizioni di sicurezza e controllo del territorio attraverso la presenza di forze armate occupanti.

Lo “state building” invece viene affidato ad un regime corrotto, senza legittimità, insediato con elezioni farsa, come dimostrato anche nelle recenti elezioni parlamentari . Anche l’illusione di poter creare un potere centrale e centralizzato a Kabul stride con la conformazione etnica del paese che invece risponderebbe più ad un modello decentrato e quasi federale di amministrazione.

Dalla prospettiva del popolo afgano non esiste un consolidato senso di appartenenza ad una nazione unica, ed invece aumenta il livello di resistenza anche armata delle comunità locali che non sopportano la presenza militare straniera. Non a caso secondo l’intelligence USA la maggior parte dei combattenti afghani oggi non sono Talebani ma locali che resistono alla presenza militare nei loro territori. Alcuni osservatori addirittura prospettano uno scenario simile a quello del Vietnam dove i vietcong erano in grado di amministrare e governare i territori sotto la loro influenza e controllo, con un sistema parallelo rispetto a quello del governo “ufficiale”.

Quale tipo di democrazia è possibile in un paese dove chi dovrebbe costruire lo stato non ha alcuna legittimità popolare, chi dovrebbe fare “nation building” di fatto è una truppa di occupazione straniera, dove si stanno producendo sistemi alternativi e paralleli di “state-building” e “nation-building” da parte dei Talebani, dove nelle strutture pubbliche vengono riciclati criminali di guerra, e dove il modello di stato centralizzato è del tutto incoerente con la storia del paese?

A questo si aggiunga un’ulteriore considerazione. La storia di questi dieci anni di guerra in Afghanistan è stato caratterizzata da una continua trasformazione dell’obiettivo politico e militare della stessa. Iniziata come rappresaglia all’attacco alle Torri Gemelle, ex art. 5 della NATO, poi con l’obiettivo di liberare il popolo afghano dal regime talebano, poi ancora con lì obiettivo di stabilizzare e ricostruire il paese, poi con l’obiettivo di snidare al Qaeda, e di combattere l’insurgenza talebana, ora con i due obiettivi di stabilizzare il paese ed evitare che il Pakistan cada nelle mani delle forze integraliste islamiche.

In questo “rolling process”, l’unico elemento di continuità continua ad essere il predominio della strategia militare rispetto a quella politica di ricostruzione di uno stato che possa assicurare il rispetto dei diritti e la dignità del suo popolo. Di conseguenza, l’unica relazione che esiste tra governo e propri cittadini è quella basata sulla forza, situazione nella quale le prospettive di democratizzazione sono sempre più remote.

Ciò detto, se la democrazia è un sistema che resiste e si rafforza nella misura in cui le persone ci credono, ed è fondato pertanto sull’esempio e la persuasione piuttosto che sull’imposizione, allora occorre, a dieci anni dall’inizio della guerra una profonda e radicale inversione di rotta.

Anzitutto, operare una “demilitarizzazione” dei processi politici: finché non si rompe questo abbraccio mortale, non ci potrà essere alcun processo di autodeterminazione del popolo afghano. Questo significa che al ritiro del contingente NATO potrebbe subentrare un contingente di polizia internazionale possibilmente formato da truppe di paesi che non hanno partecipato al conflitto e con un mandato chiaro delle Nazioni Unite. Significa che ad una strategia di controinsurrezione andrà sostituita una strategia di redistribuzione del potere e di inclusione sociale e politica, ed esplorare la possibilità di sostegno a sistemi di governo ispirati alle strutture comunitarie locali e decentramento politico ed amministrativo.

Secondo, si dovrà sostenere la proposta fatta da ampi settori sociali afghani, un programma di giustizia transizionale che serva a ricostruire il tessuto sociale attraverso un processo di verità e giustizia sulle violazioni dei diritti umani compiute da tutte le parti in causa nel corso del conflitto e prima dello stesso, dai signori della guerra, ai talebani alle forze di occupazione; Nella storia le commissioni di verità e giustizia hanno svolto il compito centrale di ascolto delle vittime, di restituzione di dignità, riportare alla luce la verità collettiva, come presupposto necessario della transizione verso un sistema fondato sui diritti e sulla giustizia. Il sistema giudiziario oggi invece non assicura il diritto all’accesso alla giustizia in particolare nelle aree rurali, i tribunali provinciali sono inefficienti, e le amministrazioni locali inesistenti.

Terzo, andrà ripensata la cooperazione allo sviluppo mettendo al centro il soddisfacimento dei bisogni primari della popolazione. Oggi la cooperazione allo sviluppo è praticamente in mano al governo centrale, ed ai militari e una parte infinitesimale dei fondi dedicati va sul territorio a soddisfare i bisogni fondamentali della popolazione quali acqua, educazione, salute, elettricità. Uno stato percepito come erogatore di servizi pubblici essenziali può rafforzare la propria legittimità nelle popolazioni locali;

Quarto, e presupposto centrale di ogni possibile attività in Afghanistan: i supposti “beneficiari” , il popolo afghano, dovranno essere considerati soggetto centrale e non “oggetto di tutela”. Andranno pertanto sostenuti processi di autodeterminazione, di elaborazione di pratiche di partecipazione dal basso , e di rivendicazione di diritti e giustizia, giacché senza cittadini e cittadine non ci potrà essere alcuna forma di governo democratico o meglio una via “afghana” alla democrazia.

venerdì 4 febbraio 2011

Egitto tra speranze e paure

(4 febbraio 2011)
http://www.sinistraeliberta.eu/vetrina/egitto-tra-speranze-e-paure

Il rischio di un bagno di sangue cresce con le ore a piazza Tahrir, dove da giorni stazionano decine di migliaia di dimostranti che chiedono a gran voce le dimissioni immediate del presidente Hosni Mubarak ed elezioni che aprano la strada ad una nuova stagione di democrazia e legalità nel paese. Il fatto nuovo degli ultimi giorni è la reazione, il tremendo colpo di coda del regime, che sta precipitando il paese verso uno scenario di guerra civile. Un esito che soffocherebbe sul nascere la possibilità di un movimento politico e civile laico e progressista.

È scattata l’ora della repressione, con lo schieramento di squadre di picchiatori e provocatori, l’arresto di testimoni scomodi, dai rappresentanti di Amnesty International e Human Rights Watch e di altre ONG, ai blogger . Quei giovani coraggiosi che tentano di squarciare la cortina di silenzio che il regime sta imponendo sui media e la comunicazione, nella consapevolezza che il web e la solidarietà internazionale sono due strumenti necessari per irrobustire la resistenza civile delle opposizioni. Sarà il caso allora di chiedersi come sia possibile tale colpo di coda, quali opportunità il governo Mubarak sta sfruttando per restare al potere, promettendo ipotetiche riforme e una transizione dolce e pilotata, mentre assolda sicari e infiltrati che spargono la morte tra i manifestanti.

Mubarak avrà forse capito che le timide prese di posizione della comunità internazionali gli offrono una sponda per tentare l’ultima carta. Quella di provocare una situazione di destabilizzazione totale, per legittimare la continuità di un sistema autoritario. Le forze armate sembrano divise tra la fedeltà al presidente – che come i suoi predecessori è un militare – ed il popolo, mentre le forze di polizia fedeli al presidente cercano di rompere il cordone ombelicale che lega i rivoluzionari di piazza Tahrir al resto del mondo, sperando così di fiaccarne la resistenza. L’ONU abbandona il paese, i giornalisti restano chiusi negli alberghi o subiscono le intimidazioni della polizia, quegli arabi fino a qualche settimana invisibili (come li chiama nel suo blog – www.invisiblearabs.org – ed in un riuscito libro la giornalista italiana Paola Caridi osservatrice attenta dei fatti egiziani), rischiano ora di scomparire di nuovo in un futuro troppo eguale al passato sofferto finora.

Più il tempo passa più aumentano le chances di una svolta dura, che tenga in sella il despota, mentre chi dimostra al Cairo per la libertà e la democrazia, rischia di essere progressivamente isolato dal resto della popolazione. Una popolazione che per ora assiste allo show down di piazza Tahrir e presto si potrebbe trovare di fronte alla scelta di sostenere i dimostranti pro-democrazia oppure Mubarak, scegliere tra il caos creato ad arte dal presidente e l’ordine imposto a filo di spada dallo stesso. Nel mezzo moltissimi giovani, pronti al sacrificio finale, forse in attesa di un segnale forte della comunità internazionale. Le rituali esortazioni da parte dell’ONU, dell’Unione Europea, dei vari consessi internazionali, finanche del Fondo Monetario Internazionale (!) appaiono tragicamente inadeguate di fronte di una tale situazione.

Dopo le dichiarazioni di circostanza Stati Uniti ed Unione Europa – misurando l’equilibrio tra pragmatismo e principi – non hanno alzato il livello della condanna e della pressione, forse anche per l’azione persuasiva di Israele, né hanno osato minacciare la sospensione degli aiuti, fino a 25 miliardi di dollari negli ultimi 25 anni da Washington nelle casse del regime. Per non parlare del paradosso degli aiuti dell’Unione Europea legata all’Egitto da un accordo di associazione entrato in vigore nel giugno 2004 con l’obiettivo (sic!) di promuovere la stabilità politica, lo sviluppo economico e la cooperazione regionale.

L’accordo come scritto sul sito dell’Unione Europea, incoraggia un regolare dialogo politico nei contesti bilaterali ed internazionali. Dov’è stata l’Europa dal 2004 ad oggi, e dov’è ora? A che vale una dichiarazione di condanna delle violenze se non si ha il coraggio di chiamare per nome chi delle stesse è responsabile? Nessuna potenza che siede nel Consiglio di Sicurezza ha osato chiedere la convocazione di una riunione di emergenza, per valutare gli sviluppi, mandare un segnale forte su una situazione che può avere ripercussioni a livello regionale, prospettare l’isolamento totale di un qualsiasi governo che nasca dal sangue degli egiziani, soffocandone il grido disperato. Intanto anche da Erevan in Armenia arrivano notizie di imminenti mobilitazioni per la democrazia.

Di fronte a questi fatti, noi, innamorati del diritto e dei diritti umani, ci sentiamo persi ed ammirati. Ammirati del coraggio, della disponibilità al sacrificio di nostri coetanei d’oltremare. Persi perché vorremmo fare qualcosa, dare un segno di sostegno o solidarietà. Questo il senso di alcune iniziative svolte negli ultimi giorni, dalla partecipazione ad un sit-in di esponenti della comunità egiziana, ad un dibattito sui fatti di Tunisia ed Egitto, ad un presidio di fronte all’ambasciata egiziana a Roma. Restano nella mente gli occhi pieni di lacrime di un egiziano di Rieti che si è unito oggi al presidio di Sinistra, Ecologia e Libertà, che spiegava la complessità della crisi, e gli strumenti a disposizione di Mubarak per reprimere il popolo egiziano, quella guardia presidenziale che nei fatti è un esercito di pretoriani disposti a tutto.

A noi resta una possibilità, quella di creare occasioni, di contribuire ad aprire spazi pubblici per gli egiziani che vorrebbero essere lì ma sono condannati a restare qua, capire insieme come sostenere il loro cammino verso la democrazia e la libertà. Lo possiamo fare aprendo canali, creando reti con le comunità migranti, contribuendo a rompere l’isolamento, informando e controinformando, denunciando la connivente inesistenza del governo italiano di fronte a questi fatti drammatici. Perché la dignità di quel popolo è la nostra dignità, il loro grido di libertà è il nostro, la crisi in Egitto è la crisi di un modello di democrazia senza più legittimità.

Come dice oggi un osservatore sul sito World Politics Review (http://www.worldpoliticsreview.com/trend-lines/7750/egypt-and-the-global-crisis-of-legitimacy) “Quel che accade oggi in Egitto è una condanna dell’ordine globale quello fino ad oggi rappresentato da un Egitto “stabile” (…). In un periodo nel quale la costruzione dello stato è al centro delle dottrine di sicurezza, e nel quale la presenza militare straniera in Afghanistan è fondata su un approccio scientifico verso la legittimità ed i sistemi di governo, gli eventi in Tunisia ed Egitto ci ricordano che l’ordine sociale e la legittimità politica sono più il risultato di un’alchimia imprevedibile che il prodotto di formule esatte”.

Francesco Martone