mercoledì 21 agosto 2013

Gli "errori" del Ministro Mauro ed il silenzio del PD



da: Il Manifesto, 22 agosto, 2013
di Francesco Martone - responsabile esteri  SEL 

Le dichiarazioni del ministro Mauro sulle missioni di “pace” e quanto “valga la pena di essere in Afghanistan” al Meeting  di Rimini chiamano ad un commento possibilmente non rituale sul tema. L'ostinatezza con la quale si continua a rivendicare la giustezza della presenza militare italiana in Afghanistan denota la grave indisponibilità a  ridiscutere la “mission” dell'Italia nel mondo, su come intervenire in conflitti ormai compositi, asimmetrici, nei quali la componente militare risulta essere inadeguata allo scopo. E dove semmai l'Italia dovrebbe privilegiare gli aspetti civili della sicurezza e della prevenzione. 

 Esiste una sorta di rimozione  al riguardo, non solo circa l'assenza di una volontà politica “bipartizan” a considerare il ritiro immediato delle truppe e modalità differenti (per esempio la cooperazione civile) con le quali evitare di abbandonare il popolo afghano al suo destino.   La rimozione riguarda il pregresso, assunto acriticamente come fonte di legittimazione per il futuro. 

Questo governo ha confermato l'impegno del governo Monti di sostenere la nuova missione NATO in Afghanistan “Resolute Support” dal 2015. Una scelta che verrà presentata tra qualche settimana al Parlamento come un “fatto compiuto”, dove l'Italia è unico paese Europeo assieme alla Germania a decidere di restare sul campo dopo il 2014. E mentre a chi sollecitava il ritiro delle truppe prima del 2014 si rispondeva che ciò a nulla sarebbe valso giacché il cronogramma era stato già fissato alla fine dell'anno, dietro le quinte già si stava prendendo - senza alcun tipo di dibattito pubblico o parlamentare circa modalità e giustificazioni - la decisione di restare in Afghanistan anche dopo. Per questo chiedere che l'Italia annunci ora l'intenzione di anticipare il ritiro dal contingente ISAF e di rivedere la propria partecipazione a “Resolute Support” sarebbe un segnale di discontinuità necessario per discutere sull'Afghanistan senza eredità di sorta. E' chiaro infatti che in quello scenario non dovrà esserci la NATO seppur nelle sembianze di una missione di “training” di quadri militari, in un contesto strategico conflittuale e poco chiaro, nel quale la Casa Bianca continua a non escludere il ritiro definitivo delle truppe. 

Nulla di simile sembra essere mai stato contemplato a livello istituzionale in Italia. Nessuna discussione critica, nessuna valutazione chiara e trasparente dell'efficacia della presenza militare, dei progetti di ricostruzione, nessuna cifra riguardo le vittime civili, o i danni “collaterali” conseguenti alle missioni italiane. 

Solo parole di circostanza per legittimare una missione  che non può  essere considerata di interposizione, quale UNIFIL II. Oltre alle verità assiomatiche, infatti,  il ministro fa – nelle sue dichiarazioni - di tutta l'erba un fascio. 

Assimilare missioni differenti per mandato, regole d'ingaggio e cornice legale ed istituzionale, quali ISAF (NATO) e UNIFIL II (missione di caschi blu ONU) non è solo un errore di interpretazione, ma di nuovo sintomo di scarsa chiarezza sulla “mission” dell'Italia. A differenza di ISAF, infatti, UNIFIL è servita infatti a disinnescare il rischio di un nuovo conflitto anche perché non dotata di vocazione “combat” o offensiva,ma di interposizione e riconosciuta come super partes tra le parti in conflitto. Forse al ministro questo dettaglio è sfuggito. 

venerdì 16 agosto 2013

Tenere il petrolio sottoterra, proteggere Yasuni

La decisione annunciata ieri dal Presidente dell'Ecuador Rafael Correa di chiudere l'iniziativa ITT Yasuni e riaprire la frontiera dell'estrazione petrolifera in quell'area incontaminata è grave. Grave perchè ITT Yasuni era ed è simbolo di una via possibile di uscita dalla dipendenza da petrolio, sia per quanto riguarda il modello e la matrice di sviluppo di un paese produttore che per quanto riguarda il modello di sviluppo dei paesi importatori. Proprio in queste settimane arrivano notizie importanti: la Banca mondiale decide di non sostenere più progetti per lo sfruttamento del carbone, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo sviluppo sta considerando di fare altrettanto. Insomma la decisione di Correa sembra andare in controtendenza. Tenere il petrolio sottoterra e proporre uno schema sul quale far convergere l'impegno della comunità internazionale è una via innovativa che andrà ancora perseguita. Molto si è parlato della ITT Yasuni, ad un certo punto sembrava esistessero ben due iniziative, una, quella del governo e l'altra quella dei movimenti e della società civile. Ora il Presidente Correa annuncia la fine di questo esperimento innovativo, mai decollato in realtà per mancanza di fondi. Resta il dubbio che in realtà nelle menti e nelle intenzioni vere del governo ecuadoriano e del Presidente questo progetto non avrebbe mai dovuto essere messo in pratica giacché rappresenta una sfida al modello estrattivista sul quale si fonda l'economia del paese. Ed allora da oggi la ITT Yasuni torna alle sue origini, nelle mani dei movimenti e della società civile globale alla quale faremo avere il nostro sostegno.

mercoledì 14 agosto 2013

Solo il dialogo può allontanare l'Egitto dal baratro della guerra civile


Osserviamo con il passare delle ore lo svolgimento di una tragedia annunciata in Egitto, un bagno di sangue nel quale rischia di affondare ogni aspettativa di liberazione ed emancipazione per il popolo egiziano e non solo. All'indomani della deposizione di Mohammed Morsi gli osservatori ed esperti si sono interrogati sul come definire gli eventi, se un colpo di stato o una seconda fase della rivoluzione di piazza Tahrir, una Tahrir 2.0. Oggi, di fronte alle vittime della repressione militare, alle rappresaglie, la cosa che appare più evidente è il rischio di una guerra civile e religiosa nel paese. Un rischio al quale la comunità internazionale, l'Italia e l'Europa devono rispondere con determinazione chiedendo l'immediata sospensione della repressione, la riapertura del dialogo tra le parti, ed un'indagine indipendente sulle responsabilità nell'uccisione di centinaia di civili. I fatti del Cairo pongono una serie di questioni estremamente delicate, ma determinanti nella capacità di leggere ed interpretare gli eventi passati e immaginare gli scenari futuri in quell'area. Anzitutto il ruolo chiave dell'esercito, che prima della caduta di Hosni Mubarak, durante la rivolta di Piaza Tahrir, e dopo con l'avvento al potere dei Fratelli Musulmani e la deposizione di Morsi ha sempre mantenuto un ruolo di “playmaker” ora a fianco del popolo, ora attore di una brutale repressione. E ci dimostrano anche il fallimento dell'esperienza politica dei Fratelli Musulmani che dopo aver conquistato il potere, seppur attraverso elezioni politiche, non hanno fatto seguire politiche di rilancio dell'economia e di lotta alla marginalità sociali ed alla disoccupazione. Più in generale ci interrogano sul significato e sul concetto stesso di democrazia della democrazia formale e di quella reale. Di una polarizzazione, quella tra esercito e Fratelli Musulmani nella quale scompaiono i soggetti del possibile cambiamento, quei giovani , donne ed uomini che sono scesi in piazza per rivendicare il diritto ad un Egitto migliore, quella Terza Piazza che non era e non è né con l'esercito, il cui capo supremo Fattah Al Sisi non nasconde le sue ambizioni presidenziali, né con Morsi e le sue pretese di islamizzazione della vita pubblica del paese. Oggi l'Egitto è sull'orlo del baratro, e l'unica maniera per provare a scongiurare il peggio è di tenere aperto il canale del dialogo, e della riconciliazione nazionale, in un processo verso nuove elezioni e la ricostruzione dell'assetto istituzionale del paese che includa i Fratelli Musulmani insieme alle forze laiche e progressiste e le opposizioni popolari che si sono mobilitate nel Tamarod.