martedì 27 settembre 2016

Referendum, democrazia reale, buen vivir


Sto riflettendo sul referendum di dicembre e non posso non pensare a quello purtroppo fallito contro le trivelle, o meglio sarebbe stato definirlo e gestirlo come referendum per la giustizia ecologica. Vabbé tant’è. Ma vedo le due cose ben connesse. Credo infatti che i due pilastri sui quali si debba rielaborare un progetto ed una pratica di giustizia, che sia sociale, economica ed ecologica siano il buen vivir inteso come trasformazione radicale del modello produttivo, ed il riconoscimento dei diritti della natura, la fuoriuscita dalla trappola del petrolio, e la democrazia reale. Il rapporto diretto e stretto tra cittadini e cittadine, e chi si offre per il governo della cosa pubblica. Sono due elementi profondamente intrecciati tra loro quello del contrasto al capitalismo estrattivista e quello della trasformazione dei processi democratici verso forme d democrazia diretta e partecipativa, di prossimità, di municipalismo libertario da una parte e ricostruzione del “demos” e del “nomos” europei.
Insomma, credo che oggi sia fondamentale rivedere i luoghi dell’agire politico, e del conflitto, ripensare il livello nazionale, e cercare invece di consolidare le forme di municipalismo “virtuoso” e di ricostruzione di uno spazio comune e transnazionale a livello europeo.
Per far questo però è necessario un doppio passaggio: da una parte tenere aperto lo spazio di agibilità per permettere di “approfondire” i processi e le pratiche democratiche, appunto prendendo atto  della crisi della “rappresentanza” a livello nazionale, per costruire altre forme dirette, aperte, inclusive ed includenti. E dall’altro praticarle, e metterle a sistema. Questo spazio deve rimanere aperto, per questo credo che oggi il tema del referendum costituzionale vada visto in una prospettiva più ampia. Non può essere visto come un referendum contro una persona o contro un partito, per quanto io non condivida nell’essenza cosa quel partito sia o le linee politiche interpretate dal premier  e dalla sua maggioranza. In quanto atto costituzionalmente riconosciuto di democrazia diretta, insomma un piccolo mattoncino di quella democrazia reale che vorremmo, quello strumento è a disposizione di tutti e di nessuno. Dei cittadini e delle cittadine anzitutto, e non di singoli partiti politici. E un’eventuale vittoria del No, non può essere messa a disposizione di nessuno se non dei cittadini e delle cittadine che avranno votato NO. E che ahimé non rappresentano in maggioranza la mia idea di società o di politica.
Ora, credo che la Costituzione non possa essere intesa come un monoblocco intangibile, impermeabile alle trasformazioni sociali, ma neanche può essere intesa come un menu à la carte, da rivedere e correggere alla bisogna ed in ossequio ad interessi particolari. Giacché dietro il pretesto di efficienza e efficacia, di good governance e certezza della legge, di lotta alla casta ed agli sprechi, ingredienti che infarciscono la retorica renziana, si cela il vero obiettivo. Ovvero una torsione che accentra potere nelle mani del premier e indebolisce gravemente le prerogative del Parlamento, cancella luoghi di democrazia di prossimità, e quantomeno sposta il confine che si vorrebbe spingere ancor più in avanti verso la democrazia reale, drammaticamente indietro. E fa di ciò  uno dei pilastri dello stato, come si fece con l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione. Che guarda caso è legato a doppio filo a questa trasformazione della “governance” che la riforma costituzione vorrebbe imprimere. Allora, è ovvio che schierarsi per il NO oggi significa anche contrastare un modello non solo politico ma anche economico, che prevede appunto il restringimento degli spazi di democrazia reale, in ossequio ad un principio di “efficacia” ed “efficienza” elementi essenziali per attrarre investimenti e agevolare gli interessi d’impresa.  Spazi che sono di tutti e tutte, e vanno difesi con le unghie ed i denti, con lo sguardo e la prospettiva rivolte in avanti.


mercoledì 21 settembre 2016

La sfida della neutralità attiva

l mio contributo sul tema della neutralita' attiva per ArciReport di settembre

15 anni sono passati dall’11 settembre, evento che ha suggellato la fine del millennio e l’inizio di una fase di guerra globale permanente, con le tragiche conseguenze dal punto di vista politico ed umano, Da allora il ricorso alla guerra si è sempre più ammantato di una coltre etica, che sia ingerenza umanitaria o esportazione della democrazia manu militari. “Se non sei con me sei contro di me”, e “se sei con me non puoi esserlo senza avallare il ricorso alla forza armata contro il terrore, a difesa di popolazioni civili”. Una vera chiamata alle armi, di sapore neocoloniale. La fine del bipolarismo, e l’irrompere di altre potenze e soggetti non statuali, rende poi il quadro ancor più complesso. “O sei con me o sei con DAESH o con una potenza geopolitica contrapposta”. La Siria insegna. Un gioco a somma zero nel quale chi lavora per la pace, fondata sulla giustizia e sul ruolo centrale dei popoli, come attori principali del proprio destino rischia di rimanere all’angolo. Anche per mancanza di un quadro di riferimento che possa essere altro rispetto alla realpolitik, o alla geopolitica. E che recuperi la tradizione e le elaborazioni sulla neutralità attiva che hanno attraversato la storia dei movimenti sociali e pacifisti e caratterizzato l’azione e la scelta politica di vari paesi. Tra questi Svizzera, Costa Rica, Irlanda, Svezia o Austria che in vari modi hanno scelto in passato e parte nel presente, di non essere parte di conflitti o di schieramenti contrapposti. Anche se spesso da una posizione di neutralità ci si è via via spostati verso un avallo più o meno marcato dell’opzione militare. Evocare la neutralità attiva potrebbe così sembrare un paradosso, giacché ogni paese è interconnesso ad alleanze ed organizzazioni internazionali, Così non è: la neutralità può rappresentare la prospettiva di un percorso di progressivo sganciamento dalle opzioni di guerra e dalle alleanze che la teorizzano e la fanno, per aspirare a stare nel mondo con la forza attiva della ragione, della mediazione, del disarmo, della nonviolenza, della diplomazia popolare. Approfondire il tema, come propone Transform! Italia , anche sulla scorta di una proposta di neutralità attiva per la Libia lanciata a suo tempo da Un Ponte Per… può servire così a vari scopi. Immaginare una cornice comune di riferimento dei movimenti pacifisti ed antimilitaristi, ed ipotizzare un percorso di lavoro che ne accomuni le esperienze, campagne ed approcci. Giacché la neutralità non può essere appannaggio degli stati e dei governi, ma è il risultato finale di ciò che la società civile ed i movimenti pacifisti riescono a mettere in campo e costruire, Insomma una sfida urgente e necessaria.

lunedì 19 settembre 2016

La lotta senza tempo dei Mohawk


 per QCODE magazine, settembre 2016 


E’ un giorno d’agosto di pioggia intensa, battente. A Montreal si teneva il Forum Sociale Mondiale, il primo mai fatto in un paese del cosiddetto “Nord” del mondo, come se una categoria geografica ormai consunta possa esaurire la portata di dinamiche e i meccanismi di inclusione, ed esclusione, di sfruttamento e invasione che caratterizzano ormai l’assalto ai “commons” ed ai diritti dei popoli in ogni parte del mondo. Nella città francofona  i  movimenti studenteschi  fecero la storia, quando - sulla scia di “Occupy”n e dei  movimenti degli Indignados e delle Primavere Arabe - lanciarono la loro di primavera dell’”acero”, la “Maple Spring” che portò decine di migliaia di persone in piazza. Una rivolta  nel nord algido del Canada, paese che oggi ci vorrebbe agganciati attraverso un accordo commerciale quale il CETA, e che proprio a Montreal vede il fulcro delle attività ed il cervello pensante delle strategie delle principali multinazionali del settore petrolifero  mondiale. Un’enorme auditorium ed un parco a tema ambientalista sponsorizzato dalla Rio Tinto Zinc ce lo ricordano. Un Sud di decine e decine di “homeless”, distrutti dall’alcol, che vengono dalla gelida Nunavut, il paese degli eschimesi, gli Inuit. E poi loro, i Mohawk, discendenti di un popolo guerriero, spesso e volentieri sul piede di guerra per difendere le loro terre. Ieri da un progetto di campo da golf, ieri l’altro per proteggere le acque del San Lorenzo dagli sversamenti tossici delle fogne di Montreal, oggi per interdire la strada ad un oleodotto. 

A separare Montreal dalla comunità Mohawk di Kahnawake è un ponte eretto in ricordo del governatore del Quebec, Honoré Mercier. Opera di ingegneria che suggella la collaborazione tra i Mohawk e i costruttori canadesi. Un ponte che unisce, ma che può anche separare, quando viene occupato dalle comunità dell’altra sponda per far valere i propri diritti. Attraversiamo il Mercier Bridge ed arriviamo dall’altra parte, una lingua di terra percorsa da un rettilineo lungo il quale si affacciano innumerevoli botteghe, le insegne fluorescenti di marche improbabili di sigarette. E’ la produzione di sigarette una delle  principali fonti di entrate per la comunità, assieme al lavoro di manutenzione del ponte, essendo i Mohawk   espertissimi ed abilissimi edili. Si narra che possano camminare sule travi di acciaio sospese nel vuoto senza soffrire di vertigini, appollaiati su scheletri di grattacieli che costellano la “skyline” di Manhattan. La storia di Kahnawake e della   comunità “sorella” di Kahnatasake   affonda le radici nel passato coloniale, e si ripropone come segno tangibile di una lotta millenaria per l’autodeterminazione e la dignità. Una schiera di villette  smontate di sana pianta e ricostruite al di là della strada che al di qua i canadesi decisero di punto in bianco di cementificare la sponda del fiume, cacciando via chi da tempo immemorabile ci viveva e ne viveva. Poi gli edifici delle istituzioni di governo della comunità, quelle imposte dal governo canadese, fredde, e squadrate, senza anima, e la longhouse, di legno, quella che rappresenta la vera anima della comunità. All’interno, le luci soffuse, una schiera di panche ad est ed una ad ovest, insegne Mohawk, e stendardi delle nazioni Iroquois, una scritta dedicata a Deganawida, il grande pacificatore e fondatore della comunità di Kanonsonnionwe, la società perfetta, senza eguali.  Un drappo   riporta la seguente scritta :”Resisteremo in ogni modo ad ogni aggressione e violazione dei trattati, ed ogni interferenza verso il libero uso e godimento della nostra terra, ogni usurpazione della nostra sovranità, invasione o oppressione. Ci impegniamo a far sì che il clamore venga sentito da una parte all’altra del mondo”.  

In piedi al centro, la nostra “guida”,  Kenneth Deer,  inizia il suo racconto. Ci spiega che le donne nella comunità hanno un ruolo di gran rilievo. A prescindere dal fatto che secondo i nostri parametri, è permesso loro l’’ingresso dall’entrata posteriore, “ad ovest dove sorge la Luna, non entrata secondaria” - ci tiene a sottolineare - mentre gli uomini entrano dall’entrata ad est, dove sorge il sole. La longhouse è divisa a metà, esattamente la stessa parte per le donne e per gli uomini, che la comunità e divisa in sei  clan tre per gli uomini tre per le donne, quello della tartaruga, quello dell’orso e quello del lupo.  Le donne sono quelle che hanno l’autorità di ogni clan. Nella longhouse una “tartaruga” non può spostare un’ altra “tartaruga”, ma non importa chi sia il padre il bambino apparterrà al clan della madre.  Tu sei ciò che è tua madre.” E le “madri dei clan” hanno un potere straordinario, sono loro a decidere - se dovesse morire uno dei capi dei clan maschili - il suo successore, visto che “sono loro che vedono i bambini crescere e sanno chi ha le migliori caratteristiche per essere chief. Quindi giocano un ruolo molto importante. Se il capo non ascolta le persone la clanwoman lo ammonisce e se continua a non ascoltare lei lo ammonisce ancora e se continua la donna ha l’autorità per rimuoverlo e rimpiazzarlo”. Nel villaggio esiste una precisa distribuzione dei compiti, alle donne spettava originariamente la scelta del logo dove costruire il villaggio, la coltivazione del terreno, il raccolto. Sono le vere responsabili della terra, mentre agli uomini spettava la caccia, la ricerca del cibo, i viaggi, la diplomazia, la difesa e la sicurezza.   

Ci racconta poi di come vengono prese le decisioni, il loro sistema deliberativo, essenzialmente diverso da quello “occidentale”, rappresentato dalle istituzioni elettive imposte a suo tempo dal governo canadese, e che di fatto quasi nessun “nativo” riconosce come legittime. Nella longhouse vige il principio del consenso, come obiettivo e come valore intrinseco nella necessità e fine di tenere compatta e coesa la comunità. Non si vota, ma si decide attraverso il dialogo e la negoziazione tra clan se il tema riguarda i clan, se riguarda la comunità interna, va alla discussione nella “longhouse” dove inizia la discussione tra due clan, finché questi non raggiungono un accordo, per poi passare la mano al terzo clan che fino ad allora osservava la discussione. Se non si arriva al consenso, la questione viene “seppellita”, o i membri della comunità “ci dormiranno sopra” per poi in caso rimetterlo in discussione. “E’ il popolo che ha il potere, “People have the power” – sorride Ken – spesso siamo stati in conflitto con il Consiglio eletto, che è espressione del sistema di governo dello stato canadese, perché alla fine sono le persone nella comunità che decidono. Il consiglio elettivo ad esempio voleva costruire qua a casa nostra un casinò, noi siamo contro, e non abbiamo votato nel referendum proposto, semplicemente ci siamo opposti, e del casinò non se ne parla”.   Le tracce della colonizzazione e della resistenza emergono in ogni aspetto della vita  e delle relazioni con le autorità “statuali”, dalla delegittimazione dei Consigli elettivi , imposti dopo la firma di un trattato tra Canada e popoli Iroquois, e attraverso l’Indian Act, nel tentativo di rimpiazzare con la forza la loro lingua e cultura e sostituire la forma tradizionale di governo. “Così oggi ci sono due sistemi di governo, il consiglio eletto e quello tradizionale, e la gente sa dov’è il vero potere. Oggi solo il 25 percento dei nostri vota il sistema elettivo gli altri fanno riferimento al sistema di governo tradizionale. Nella comunità nativa più grande del Canada, quella delle Six Nations, solo il 5 percento vota per il sistema elettivo. Sappiamo benissimo dov’è il potere”.  Ed è un contropotere che si esprime anche nel sistema giudiziario che tra i Mohawk è fondato sul risarcimento piuttosto che sulla pena.   

Oggi, il nuovo primo ministro Justin Trudeau ha dichiarato come uno dei primi atti del suo mandato, di voler imprimere una svolta alla politica di governo rispetto alle “First Nations” canadesi, ed alla questione dei diritti dei popoli indigeni in generale, invertendo la posizione che vedeva il Canada tradizionalmente contrario al riconoscimento della Dichiarazione ONU sui Diritti dei Popoli Indigeni (UNDRIP). Un’apertura vista con favore, che però cozza con la determinazione con la quale il governo intende perseguire la costruzione di “pipeline” e estrarre combustibili attraverso il fracking. Una di queste condutture, la “Transcanada pipeline”  passerà a nord di Kahnawake, attraverso la terra dei Mohawk di Kahnatasake, che hanno già espresso la loro netta opposizione. “Anche noi la pipeline non la vogliamo”, spiega Ken,  un atto di solidarietà che ricorda quello del lontano 1990, quando la storia della resistenza Mohawk fece il giro del mondo. Allora la comunità di Kahnatasake era in rivolta contro il piano di allargamento di un campo da golf ad Oka, luogo sacro, dove era sepolto il capo Mohawk Kanawatiron, al secolo Joseph Gabriel, che nel 1911 si mise a capo della resistenza degli Irochesi cotro la costruzione di u na ferrovia che doveva attraversare la loro riserva.  L’11 luglio 1990 la polizia arrivò ed attaccò, le donne in prima fila, le barricate ad Oka. 

Ken continua a raccontare “Decidemmo di fare qualcosa e bloccammo a prima mattina il Mercier Bridge, paralizzando l’intera Montreal. Arrivò una SWAT team e ci furono tafferugli, ci attaccarono con granate assordanti, i Mohawk reagirono, un poliziotto fu ucciso”. Con le loro barricate tennero il ponte per 56 giorni, fin quando   su richiesta del governatore del Quebec arrivò l’esercito. Arrivarono anche osservatori internazionali dalla Svizzera e dalla Francia. A Ken fu chiesto di fare da negoziatore. “Ci misi un giorno per arrivare a Montreal per incontrare il ministro per gli affari indiani del Canada.  Ricordo di aver fatto una passeggiata, tra i pini, e le fortificazioni, i guerrieri Mohawk in mimetica, e potevo riconoscere le loro  voci. Erano miei studenti quando lavoravo in liceo venti anni prima, quindi mi conoscevano tutti. E rimasi così impressionato dal fatto che persone normalissime fossero pronte a difendere con le armi la loro terra”  Al governo canadese chiesero come condizione per i negoziati una amnistia, che il governo non accettò, i negoziati fallirono e Ken fu inviato  a Ginevra alle Nazioni Unite per sbloccare la trattativa. Prese la parola alla cerimonia d’apertura del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sui Popoli Indigeni a nome della  Mohawk Nation,  accolto con una standing ovation. Venne anche in Italia a Bologna  e Verona su invito dei Verdi. Ken continua il suo racconto, che si intreccia con l’epopea di Daganawida, il grande pacificatore che venne inviato dal Creatore, per portare la pace tra i Mohawk, guerrieri nati. “Venne e parlòd i pace, di mettere da parte odio e vendetta. Gli Onaida accettarono e poi arrivò da noi attraversando le cascate del Niagara. Restò con noi ben 5 anni per insegnarci la pace, poi tornò dagli Onaida e riuscì a far finire la guerra.” Dovettero comunque riprendere le armi quando i Francesi , alleandosi con gli Huron, tentarono di annientare la confederazione degli Iroquois per avere libero accesso alle vie di trasporto delle pellicce. Non riuscirono nell’intento. Huron e francesi vennero sconfitti ed i primi fuggirono fino alle frontiere dell’Oklahoma. “ Ci provarono tante volte a distruggerci, facendo come  i conquistadores con gli Aztechi, tagliano le teste, uccidendo i capi. Ma noi avevamo le nostre donne pronte a sostituire i capi con altri capi” .  

Una comunità senza paura quella dei Mohawk di Kahnawake. Ogni tanto sul Mercier Bridge spunta una bandiera Mohawk, o arrivano marce autoconvocate come quella degli studenti della Kahnawake Survival School, la scuola di sopravvivenza fondata da Ken.  A novembre dello scorso anno, decisero di punto in bianco di alzarsi dalle loro aule, uscire e marciare per bloccare una delle rampe del ponte per protestare contro un piano del comune di Montreal per sversare milioni di galloni di reflui tossici nelle acque del San Lorenzo. Lo stesso fiume che tra gli anni ’50 e ‘70 venne contaminato dai rifiuti tossici della General Motors, della Aluminium Company of America e la Reynolds Metal, distruggendo gli stock di pesca, necessari per la dieta quotidiana dei Mohawk che da allora iniziarono a dipendere da cibo prodotto industrialmente con conseguente aumento dei casi di obesità e diabete.  Ci salutiamo poco prima dell’imboccatura del Mercier Bridge sotto la pioggia battente. Kenneth di l a poco avrebbe iniziato ad insegnare politiche dello sviluppo alla Mc Gee University, teatro in quei giorni delle iniziative del Forum Sociale Mondiale.  Ed aspetta ora la risposta dal Vaticano alla missiva da lui consegnata in persona a Papa Francesco qualche mese fa a Roma, nella quale i rappresentanti dei popoli nativi condannano la “dottrina della scoperta”, che servì da pretesto per la evangelizzazione forzata dei loro popoli. 

Noi torniamo a Montreal, per gli ultimi giorni di Forum Sociale Mondiale.  Di lì a poco centinaia di “indian americans” popoli nativi nordamericani   si sarebbero  accampati nei pressi di un cantiere  in Nord Dakota    assieme ai loro fratelli e sorelle di Standing Rock. Uniti nella più grande protesta nativa che si ricordi contro un oleodotto che minaccia le sorgenti di acqua potabile.  Una mobilitazione destinata a fare storia, sostenuta da ogni parte del paese, da movimenti quali Black Lives Matter, a organizzazioni locali, ambientaliste e non.  Anche in Canada si assiste ad un risorgimento indigeno. “Idle no more”,   è lo slogan del movimento che nato in Saskatchewan per bloccare una legge che avrebbe limitato la sovranità dei popoli nativi si  è allargato a macchia d’olio in tutto il Canada diventano il più grande movimento indigeno della storia del paese.  Storie perenni di resistenza (non di protesta - ci tengono a dire - ma di protezione della terra, dell’acqua, dell’aria. “We are protectors , not protestors”) , di occupazioni, e di rivendicazione di diritti e sovranità, nei vari “sud” che esistono e resistono nel “nord” geografico di un pianeta sempre più piccolo e vulnerabile,   sempre più imprigionato nell’era dell’Antropocene.

(lavorando per anni con popoli indigeni, ho imparato un sacco di cose, tra cui la regola delle sette generazioni, “ogni volta che fai una cosa pensa a cosa potrebbe accadere alla settima generazione”. E visto che credo che questa regola possa applicarsi anche alla gratitudine e ricooscenza, ecco una postilla doverosa. Ho conosciuto Ken forse venti anni fa a Bruxelles, a casa di una cara persona, allora lavorava per i popoli indigeni al Parlamento Europeo. Mardoeke mi ha aperto la strada verso quel mondo. In quel salotto, in una fredda sera d’inverno venni a sapere di Oka e del lavoro di Ken. Poi l'ho rivisto a Parigi, l’anno scorso, alla COP20 in occasione delle mobilitazioni per la giustizia climatica. Lo ringazio per avermi accolto nella sua terra, come ringrazio chi ho incontrato in questi anni, e che ora resiste – o forse meglio “protegge” la Terra,  in Canada come negli Stati Uniti. Ben, Clayton, Tom, Dallas, Alberto, Rochelle, Wahleah, Andrea, Ken, Kim, Nicole, Crystal e tanti altri e tante altre).

Proteggere i difensori dei diritti umano ovunque. Oltre la realpolitik

articolo per newsletter Un Ponte Per... Settembre 2016


Le continue notizie di omicidi, sequestri, incarcerazioni illegittime, processi non equi, torture, e vessazioni di ogni tipo contro  associazioni per la tutela dei diritti umani, e attivisti in Egitto sono solo la punta di iceberg di un’emergenza globale . L’attacco contro i difensori dei diritti  umani, intesi nella loro accezione più ampia (si va dagli attivisti per i diritti delle donne e GLBQT; a chi lotta per difendere l’ambiente e la terra, chi si attiva per la tutela dei diritti civili, la libertà di stampa , l’accoglienza, lo stato di diritto) miete infatti decine e decine di vittime [1].. Un sottotraccia che raramente incide nei rapporti tra governi  centrati sull’interesse nazionale, e la realpolitik.  Tutto ciò in fondo rappresenta la  vicenda dell’assassinio di Giulio Regeni, una tragedia compiutasi sullo sfondo di un paese teatro di continue violazioni dei diritti umani,  che mette in discussione anche e soprattutto l’uso retorico e spesso strumentale dei diritti umani e ci interroga sulla qualità della politica estera del nostro paese.  Questo il senso della campagna promossa da  Un Ponte Per, assieme ad altre ONG dell’Associazione delle Organizzazioni di cooperazione e solidarietà internazionale italiane  (AOI) in difesa dei difensori dei diritti umani in Egitto  [2] e per una profonda rimodulazione della politica estera italiana verso quel paese. Accanto al sostegno a iniziative per la verità e giustizia per Giulio Regeni, ed alle richieste di embargo della cooperazione militare ed il blocco della vendita di armi all’Egitto, avanzate da Retedisarmo, chiediamo un impegno chiaro da parte del governo italiano  a protezione dei difensori dei diritti umani in quel paese.  Un’urgenza che non può però essere confinata all’Egitto. Giovano infatti ricordare in tale contesto le attività di Un Ponte Per assieme alle organizzazioni di donne che difendono i diritti umani,[3]  a Baghdad - un’emergenza evidente anche  altrove nella regione [4] - che rappresentano  un versante imprescindibile di lavoro accanto ad una proposta di campagna nazionale sui Difensori dei Diritti Umani sulla quale attivare  organizzazioni della società civile ed ONG italiane. Per dar maggior forza al lavoro di campo sarà infatti urgente chiedere al Parlamento ed al governo italiano di seguire l’esempio di altri paesi europei quali Irlanda, Spagna, Olanda che si sono dotati di procedure e strumenti per monitorare la situazione dei difensori dei diritti umani nei paesi nei quali sono presenti loro rappresentanze diplomatiche dando così attuazione agli orientamenti della UE in proposito. Una strategia di pressione sui decisori politici che non può prescindere da iniziative di accompagnamento ed informazione capillare verso i media e l’opinione pubblica , e di sensibilizzazione  delle amministrazioni locali che potrebbero attivarsi per accogliere chi oggi rischia la propria vita per difendere i diritti umani.  Passi questi necessari per far sì che l’imperativo del rispetto dei diritti umani venga sottratto alle grinfie degli interessi geopolitici e strategici, restituito alla solidarietà internazionale e ad una politica estera centrata sul diritto internazionale e sui diritti dei popoli.





mercoledì 14 settembre 2016

i tre 11 settembre che hanno fatto la storia

Oggi 11 settembre, nel 1973 veniva soffocato nel sangue il sogno di un Cile socialista e democratico, ne seguirono anni di dolore, morte, persecuzione. Il mio ricordo sbiadito in bianco e nero delle immagini di un aereo che bombardava la Moneda. Oggi 11 settembre 2001, tre aerei vennero scagliati a bomba contro le Torri Gemelle, e sul Pentagono , fecero migliaia di morti, suggellarono la fine del millennio e l'inizio di una nuova era, la guerra globale permanente, della quale a milioni continuano a soffrirne le conseguenze. Oggi 11 settembre 2003 a Cancun fallì il negoziato dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, il Doha Round. Insomma il segno che il mito del libero scambio stava segnando il passo. Una serie di fili conduttori legano questi tre eventi, ognuno a loro modo ha segnato anche la vita e le scelte politiche di moltiudini di persone. I Chicago Boys del 1973 erano i padri di chi sedeva dietro scrivanie di Wall Street, presa a simbolo di un mondo da distruggere con una folle crociata, i padri forse di chi solertemente negoziava le sorti di milioni di poveri e lavoratori di ogni parte del mondo nell' amena località balneare nello Yucatan. Oggi osserviamo come le esperienze delle sinistre in America Latina sono entrate in crisi, per varie ragioni, esterne ed intrinseche che andranno vagliate e studiate a fondo, migliaia di civili sono intrappolati ad Aleppo, o in altri teatri di guerra tra Afghanistan, Siria, Irak, mentre il sogno di qualcuno di creare la più grande zona di libero scambio tra USA e UE sta naufragando. Il Cile di allora ha animato la resistenza di migliaia di cileni e cilene, e un'ondata di solidarietà internazionale che ha rappresentato un elemento imprescindibile per la storia politica di moltissimi di noi. L'11 settembre 2001 ha dato vita ad un movimento pacifista globale che si è poi intrecciato con i movimenti altermondialisti che hanno contribuito al fallimento del WTO e più di recente allo stallo del TTIP. Ecco, al netto dei ricordi e delle celebrazioni, questo forse è quello che rimane in noi, a suo tempo lontani spettatori del colpo di stato, più o meno direttamente coinvolti nella resistenza alla guerra globale permanente, o all'agenda neoliberista del WTO. La "agency", quell'innata spinta alla solidarietà, alla resistenza, alla disobbedienza. Così credo si debba leggere l'intreccio di eventi che sono occorsi nei vari oggi del passato. Il libro forse più bello che ho letto sull'11 settembre è di Jonathan Safran Froer, "Extremely loud, incredibly close". Il saggio più lucido "Power Inferno, requiem per le Twin Towers" di Jean Baudrillard, Quel che resta, due abissi quadrati di granito nero ad opera del grande Daniel Libeskind, che ti fanno la stessa impressione delle decine di blocchi squadrati e levigati del memoriale della Shoah accanto alla Porta di Brandeburgo a Berlino. I più toccante ricordo di Salvador Allende l'intervista data a Regis Debray, il ricordo più forte delle mobilitazioni alle quali partecipai a Cancun dopo un memorabile giro tra le comunità zapatiste, quello dell'istante nel quale un contadino, attivista coreano si tolse la vita davanti alle barricate ed agli schieramenti di polizia. Si chiamava Lee Kyung Hae.

la Libia tra guerra mediatica e conflitto armato


La guerra mediatica del carciofo


http://comune-info.net/2016/09/la-guerra-mediatica-del-carciofo/
Se non si trattasse di un tassello del puzzle di una catastrofe così sanguinosa, quella della guerre del nostro tempo, la strategia di comunicazione che il governo italiano e i media che contano adottano sull’intervento in Libia sarebbe facile da qualificare: farsesca. A leggere certe dichiarazioni, per il loro contenuto ma anche per come vengono raccontate, sembra di sfogliare un carciofo: nelle prime foglie c’è l’etica, la protezione di un ospedale da campo in nome del giuramento di Ippocrate, poi, pian piano, emergono i dettagli: prima i paracadutisti, poi i droni, poi la portaerei, i cacciabombardieri…Non sarà che in Libia comincia la vera battaglia, quella dopo DAESH, ed è meglio mettere sul campo le proprie pedine per poi andare a trattare la spartizione delle zone cruciali per imprese petrolifere?
italia-libia
di Francesco Martone
C’è un qualcosa di indefinito e indefinibile in quello spazio immateriale tra comunicazione, spin e realtà che si fatica a decifrare ma che funziona ad arte per allontanare dagli occhi lo spettro della guerra. E’ quello spazio indefinito nel quale si costruiscono giustificazioni eticamente accettabili, o praticamente incontrovertibili, che sia la protezione di un ospedale da campo, in nome del giuramento di Ippocrate, oppure la protezione dei lavoratori di un cantiere di un’impresa italiana in Irak. Lo spazio nel quale tutto si trasforma ad arte, si rimescolano le carte, si rielabora e si creano via via strati di sottile carta velina che, uno dietro l’altro, provano a nascondere la verità o a orientare ad arte l’opinione pubblica. Già chi potrebbe essere contrario a proteggere medici che curano feriti? Feriti da chi, poi? Non certo da DAESH; visto che a Sirte pare ne siano rimaste poche decine, e anche altrove, in Libia, pare che quelli di DAESH non è che se la passino poi molto meglio.
E dei bersaglieri che si dice? Mandati a protezione della diga di Mosul, sotto sotto, carta alla mano, realizzi che sono guarda caso a guardia di una retrovia dell’imminente battaglia finale contro DAESH, a Mosul e, secondo fonti di stampa, possibile obiettivo di un devastante attacco terroristico. Forse lì si può opinare che l’uso di soldati come guardie giurate di un’impresa privata non è che sia del tutto corretto, ma ricordiamoci dell’uso dei fucilieri di marina per proteggere le navi mercantili, con tutte le conseguenze del caso. Anche qua, poi, proteggerli da chi? E il luogo, come in ogni mappa militare, conta. Di Mosul s’è detto. Misurata è a un tiro di schioppo dalle operazioni militari delle milizie del generale Heftar, acerrimo nemico del governo di “unità nazionale” con a capo Serraj, sostenuto anche dall’Italia. Lì a Misurata ci sono forze speciali americane e di altri paesi.
es5ay3k76064-k6a-u106026543016780ih-700x394lastampa-it
Lì, secondo indiscrezioni, già operavano forze speciali italiane. E la vera battaglia ora in Libia sarà sul dopo DAESH. Allora meglio mettere sul campo le proprie pedine per poi andare a trattare. A maggior ragione se si tratta di zone cruciali per le attività delle proprie imprese petrolifere. Ecco cosa c’è dietro quella cortina. E a leggere la Repubblica, oggi, sembra di sfogliare un carciofo: le prime foglie sono sull’importanza della missione, “etica” (guarda caso, quindi incontestabile, come se etica e politica fossero equivalenti), dicono i ministri. Poi però emergono i dettagli: 200 paracadutisti, 100 medici. E poi altri dettagli: pare ci saranno droni, e il sostegno della portaerei Garibaldi, e dei cacciabombardieri. Pinotti dice che ci si appoggerà solo a unità presenti nella missione Eurnavformed. Ma quella missione non aveva altri obiettivi? Si era detto: il contrasto al traffico di persone, il salvataggio e semmai la distruzione di barchini o barconi in alto mare o a riva. Ma non mandiamo “boots on the ground” bensì “meds on the ground”, insiste Gentiloni, manco fosse la riedizione della serie tv MASH oppure i parà della Folgore andassero lì in pantofole. Suvvia.

Le faglie aperte dell'America Latina

mio contributo alla pubblicazione di Terra Nuova:"L'America Latina del 2016: fratture, continuità, prospettive dalla voce di protagonisti dei movimenti sociali",
http://www.terranuova.org/pubblicazioni/l-america-latina-del-2016-fratture-continuita-prospettive-dalla-voce-di-protagonisti-dei-movimenti-sociali

------



E’ evidente che siamo di fronte alla fine più o meno conclamata di un ciclo in America Latina, quello che si definisce il “relato progresista”  ,  o forse di fronte ad una sua possibile trasformazione, ed in alcuni paesi di una certa involuzione. In altri come la Colombia, di una fase storica che potrebbe aprirsi con i processi di pace, ma difficilmente  potrà intaccare le questioni centrali del modello di sviluppo e della democrazia reale. In altri come nel caso del Perù, il pericolo scampato dell’elezione di Keiko Fujimori non autorizza  grandi entusiasmi vista la debolezza dei movimenti e la crescente pressione sulle risorse naturali e la terra oltre che il persistere di un alto livello di diseguaglianza.

Certo nei casi più recenti di Brasile e Argentina, si tratta di un’involuzione più o meno reversibile, in parte alimentata anche dalle contraddizioni dei partiti prima al governo, dall’incapacità di uscire dalla morsa del nepotismo o del malaffare (si veda il caso del PT) il crescente distacco dalle classi medie e dal popolo. In un incontro - quasi due anni fa - con il leader del MST brasiliano Joao Stedile mi impressionò proprio questo elemento, il fatto che in Brasile la stragrande maggioranza delle persone di classe urbana si sentisse del tutto al margine della vita politica e sociale del paese. 

Come dice giustamente l’introduzione del dossier  , non è possibile “fare di tutta l’erba un fascio” ed invece tenere bene a mente le specificità e contingenze paese per paese, ma indubbiamente il tema della democrazia e del deterioramento del rapporto tra governati e governanti continua ad essere il punto centrale per tentare di fermare l’avanzata delle “destre” (semmai sia possibile usare ancora questo termine), e fare tesoro e “costruire” sui passi in avanti compiuti dalla stragrande maggioranza dei paesi con governi progressisti o di sinistra.

Per questo è importante adottare una traccia di lettura e di analisi diversa da quelle tradizionali di destra e sinistra, semmai invece parlare di contrapposizione tra “alto” e basso” come ad esempio proposto da Gustavo Esteva, e Raul Zibechi per citarne due. Traccia di lettura che servirebbe ad interpretare la  capacità di movimenti sociali  ed indigeni di operare una critica radicale ai processi di accumulazione di potere politico e economico nelle mani di élites vecchie e nuove, reazionarie, oligarchiche o supposte rivoluzionarie. 

Bene, ogni esperienza politica “ufficiale” in America Latina, nonostante la retorica di quelle più ispirate ad un impianto culturale di sinistra e progressista, non ha scalfito, se non in minima parte, quelle strutture di potere delle élite tradizionali. Se lo ha fatto ha visto sostituirsi a quelle precedenti nuove élite, di burocrati ed imprenditori che hanno perpetuato le logiche di dominio e potere. Lo strumento principale, che è anche in pratica causa della crisi stessa, e delle sue radici economico-commerciali, è la fase cosiddetta “estrattivista” del capitalismo.

Anche i governi progressisti e di sinistra in America Latina non sono usciti da quella morsa anzi hanno sposato in pieno il modello estrattivista come conseguenza del sostegno a loro dato dalle nuove e vecchie élite economiche ed imprenditoriali Eppoi per la scarsa sensibilità alle tematiche ambientali, e comunque per  la loro legittima preoccupazione di ripagare un debito sociale e storico a queste generazioni, dimenticando però che così facendo si stanno rendendo responsabili di un debito ecologico per ora e per le generazioni future.

Se da una parte occorrerà senz’altro fare fronte comune contro quelle che secondo una visione ormai forse inadeguata si continuano a definire le  “destre”, e contro gli effetti negativi dei mercati e della finanza globale,   allo stesso tempo  si dovrà lavorare anche sugli elementi portanti di una nuova fase, centrata appunto su  “Buen vivir” e democrazia radicale.

Le due questioni, quella del paradigma di sviluppo e dell’estrattivismo, del “buen vivir” e della qualità della vita, vanno di pari passo con quelli relative alla qualità della democrazia, e la restrizione degli spazi di agibilità democratica e di partecipazione di quegli stessi soggetti politici e sociali che avevano sostenuto e favorito l’ascesa al potere di quei governi. Interessante  a tal riguardo il caso della Bolivia, che però è emblematico della sindrome di criminalizzazione dei movimenti sociali, delle ONG e di quelle comunità che resistono e si oppongono all’estrazione di risorse naturali nelle loro terre.

Certo è che accanto alla sinistra “oficialista” del XXI secolo si è andata affermando, come dimostrano  anche le mobilitazioni in Ecuador,  una sinistra di base, popolare, ecologista, indigena e contadina che invece di essere considerata come “linfa vitale”   viene dalla stessa sinistra “oficialista” bollata come golpista o al soldo della destra e spesso anche trattata con linguaggi e modalità neocoloniali.  Questi movimenti escono in parte indeboliti in parte rinvigoriti  da questa fase storica di governo delle sinistre. Indeboliti quando vengono cooptati, o soggetti a repressione anche violenta. Il caso di Berta Caceres in Honduras è stato solo la punta dell’iceberg dell’assalto sistematico ai difensori della terra, e dei diritti umani che in America Latina ha causato la morte di una miriade di attivisti, rappresentanti di popoli indigeni, leader rurali.

Allora oltre al tema della sopravvivenza degna, attraverso la garanzia del soddisfacimento dei bisogni primari, si deve affrontare il tema della sopravvivenza fisica di attivisti e leader di movimenti che sono l’interlocutore e partner privilegiato per un ulteriore “approfondimento” dei processi di liberazione.

Una liberazione che non può prescindere dal soddisfacimento dei bisogni primari, o  meglio il rispetto dei diritti fondamentali, politici, economici, ambientali e sociali. Emerge chiaramente da tutte le interviste come il tema del degrado dei diritti sociali fondamentali, dalla scuola alla salute, al cibo, alla terra all’acqua siano elementi comuni in quasi tutti i paesi. A fronte di questo debito sociale ripagato solo in parte si accumula debito economico e ecologico. Non a caso la maggior parte dei paesi illustrati nelle interviste soffre un processo di liberalizzazione spinto, al fine di aprire quei mercati agli investimenti internazionali, sempre più agevolati da accordi di libero scambio asimmetrici.

Insomma un groviglio di cause e concause che andranno debitamente “spacchettate” per comprendere meglio come affrontarle una ad una ed in maniera connessa.

Alto e basso, debito ecologico e contrasto al capitalismo estrattivista, sono le due asimmetrie attraverso le quali tentare di proporre una strategia altra ai partner e comunità, soggetti politici e sociali con i quali si lavora o si lavorerà in America Latina. Le due asimmetrie possono essere poi reinterpretate in proposte e concetti “positivi”, ossia “buen vivir” e democrazia reale ai quali si può poi aggiungere un concetto “collante” quello dei commons, o beni comuni.

Di buen vivir si tratta quando si prova a evidenziare le contraddizioni di un modello capitalista estrattivo, ed orientato all’esportazione, controproponendo un approccio che metta al centro, al di là della facile ed opportunistica retorica di alcuni (si vedano ad esempio le costituzioni di Ecuador e Bolivia) i diritti della madre terra e delle comunità da una parte e il rafforzamento delle capacità di autogoverno ed autoproduzione, di tipo mutualista e su piccola scala. Ipotesi che però non possono prescindere dal riconoscimento dei diritti fondamentali e del diritto alla terra ed ai beni comuni essenziali ed all’autodeterminazione.

Di democrazia reale si tratta quando si riconosce centralità ai processi di emancipazione e restituzione di dignità operati in varia misura dai paesi a governo progressista o di “sinistra”, si riafferma il carattere irreversibile di tali conquiste. Scommettendo poi sull’ulteriore rafforzamento o la rivitalizzazione di quei soggetti politici e sociali, in primis movimenti contadini, indigeni e urbani.  Le interviste ad esempio offrono un quadro assai variegato per quanto riguarda la “agency” dei movimenti sociali, alcuni silenti verso i governi in attesa di qualche concessione, altri cooptati del tutto o in parte, altri in aperta rotta di collisione. Se però si riconosce che la democrazia “reale” e radicale dovrà essere una delle chiavi di volta dell’azione futura in America Latina, allora si dovrà trovare le modalità giuste per  sostenere tali soggetti,  creare piattaforme, metterli in connessione, rafforzare le loro capacità, oltre ad identificare modalità per proteggerli dal ritorno di governi reazionari , dalla conservazione e dalla repressione violenta.

Ci si dovrebbe pertanto  interrogare se oltre il post-liberismo ed il  neo-sviluppismo,  esista a un’alternativa fondata su democrazia reale e radicale,   decolonizzazione delle strutture di potere,  riconoscimento dei beni comuni,  autonomia dei movimenti sociali, autogoverno e riconoscimento del debito ecologico e della giustizia ambientale. E per  un cambio di passo anche nelle pratiche e strategie di cooperazione e solidarietà sarà importante definire quali  possano essere gli elementi chiave per un  approfondimento del processo di liberazione e emancipazione di quei popoli dopo una fase più o meno lunga di rottura con l’ordine precedente.

Il caso Ecuador, una rivoluzione cittadina senza i cittadini?

In Ecuador persiste, nonostante la retorica del cambio di matrice produttiva, una forte enfasi sulle risorse petrolifere e minerarie, e la costruzione di infrastrutture ad esse dedicate. Questo ha comportato una forte dipendenza dell’economia del paese dal prezzo del petrolio come anche nel caso del Venezuela e della Bolivia) al punto che oggi con il calare del prezzo al barile, è diminuita sensibilmente il bilancio dello stato e sono state attuate misure di taglio della spesa pubblica e privatizzazioni. E’ importante anche notare che in Ecuador in particolare si assiste ad una strategia di “normalizzazione” culturale e dei settori accademici, spesso vicini ai movimenti sociali quali la Universidad Andina o la FLACSO, nel tentativo di imporre una cultura accademica conforme al progetto di Alianza Pais Non a caso l’Ecuador si propone come società del talento umano e della conoscenza, un progetto mutuato da altrove, dall’esempio del Qatar, o della zona economica libera di Incheon in Corea del Sud. Simbolo di questa “vision” che poi in effetti si traduce in mercantilizzazione della conoscenza e della ricerca al fine di aumentare le opportunità di sfruttamento delle risorse naturali (si veda il caso dell’ingegneria genetica) è la città universitaria di Yachay. Per quanto riguarda i movimenti rurali e contadini, questi sono assai debilitati anche in seguito alle campagne governative volte a chiudere i canali di sostegno economico dall'esterno, mentre le leggi sulla riforma agraria di fatto tendono ad avvantaggiare i grandi proprietari e produttori di commodities per l'esportazione. Anche la mobilitazione contro il trattato di libero scambio tra UE ed Ecuador sembra segnare il passo.

 A livello sociale di base, si assiste al tentativo di forme di autorganizzazione, di sviluppo di produzione Agricola su piccolo scala e di qualità, ad un rinnovato protagonismo cittadino, come nel caso della “minga” collettiva che si è sviluppata in sostegno alle vittime del recente terremoto. Un segnale importante della capacità e volontà del popolo ecuadoriano di attivarsi, dal basso, con ingegno e creatività, senza dipendere dalla macchina degli aiuti governativi. Un elemento importante, tanto quanto il ruolo di movimenti sociali ed indigeni, almeno quelli non cooptati dal progetto officialista. Insomma, della “revolucion ciudadana”, sembra rimasto poco di revolucion, ma molto spirito e senso civico e di mobilitazione, che si nota anche nel fiorire di movimenti urbani, a Quito ed altrove, di resistenza e proposta (movimenti GLBQT, la vertenza per il mercato ortofrutticolo di San Roque a Quito etc). Eppoi il fatto che a Quito si terrà la conferenza ONU Habitat offre un’opportunità per studiare meglio le dinamiche urbane, le reti sociali che si stanno mettendo in moto, e che potrebbero essere ancor più connesse a quelle di base, contadine, e non solo. Oggi Correa perde consenso, lo dimostrano le sconfitte alle amministrative di Quito e Cuenca, oltre quella scontata a Guayaquil, ma alla fine i sondaggi lo danno sempre in testa, in assenza di un progetto alternativo, se non quello delle elite conservatrici. I tentativi di riorganizzare un fronte di sinistra procedono, anche con un maggior protagonismo della CONAIE e di Pachakutik, si sono svolte mobilitazioni di livello in tutto il paese, spesso però infiltrate o sfruttate opportunisticamente dalle “destre”.