mercoledì 29 febbraio 2012

Quien debe a quien?

Abbiamo incontrato a gennaio a Quito, Ecuador Alberto Acosta, già Presidente dell’Assemblea Costituente dell’Ecuador, ed attento studioso dei temi del debito ecologico e dei diritti della Madre Terra, In questa intervista Acosta condivide alcune riflessioni sui temi della giustizia ecologica nel percorso verso la Conferenza delle Nazioni Unite su Sviluppo ed Ambiente che si terrà a Rio a giugno, la cosiddetta Rio+20. Quest’intervista fa parte di un dossier sul debito ecologico che verrà pubblicato prossimamente sulla rivista di Pax Christi Mosaico di Pace.

Francesco Martone: Come si può definire il concetto di debito ecologico e come si possono poi definirne le implicazioni concrete in termini di politiche locali, globali e nazionali che facciano perno sul principio del debito ecologico e della sua restituzione?

Alberto Acosta: Per debito ecologico si intende l’insieme di obblighi che alcuni paesi hanno in relazione ad altri derivanti da azioni che causano danni ambientali e che sono conseguenza di una relazione di dominio a livello internazionale. In questa prospettiva alcuni paesi hanno una responsabilità storica della quale devono farsi carico dal punto di vista culturale, ambientale e sociale.

Questo concetto apre la porta ad altre letture delle relazioni internazionali, assai caratterizzate finora dal debito finanziario, e fondate sul fatto che esistessero paesi con denaro e paesi senza denaro, che hanno un problema di debito, Il tema nel nostro caso è chi deve a chi e perché. Esistono tipi di debito ecologico che hanno a che vedere con le emissioni di gas serra da parte dei paesi ricchi che stanno approfittando della capacità di assorbimento di quei gas da parte di paesi già impoveriti dal modello dominante di sviluppo. Oppure lo sfruttamento ed esportazione delle risorse naturali senza assumerne i costi socio-ambientali correlati . Se esporti banane il mercato non riconosce i costi derivanti dall’uso dei pesticidi, che provocano malattie ai lavoratori, né l’impatto delle piantagioni monoculturali, o l’esaurimento di sostanze nutritive del terreno.

Si configura insomma uno scambio diseguale non solo da punto di vista commerciale ed economico ma anche ecologico. Egualmente, i paesi esportatori, obbligati a pagare il debito estero, lo fanno accumulando debito ecologico, generato dall’esportazione di materie prime. Esistono quindi distinte fattispecie di debito ecologico, che permettono di stabilire relazioni “decolonizzate” tra paesi e popoli. Non basterà più dire che i paesi ricchi con disponibilità di denaro s’ impegneranno a stanziare risorse finanziarie per sostenere programmi di adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici ad esempio. Si dovrà incorporare il criterio della loro responsabilità. Se parliamo di uno scambio ecologicamente diseguale, il tema del debito ecologico andrà internalizzato anche nei negoziati commerciali. Come valutiamo il costo ambientale, e sociale di una merce, anche in termini di contenuti di acqua o CO2?

FM: Come si inserisce nel tema del debito ecologico la questione sempre più pressante del riconoscimento dei diritti della natura, della Madre Terra, che ha fatto breccia non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche in costituzioni come quella del tuo paese, e quella Boliviana?

AA: Quando parliamo di debito ecologico parliamo anche di un debito accumulato verso la natura, la Pachamama. Cosi’ ci sono anche paesi poveri che stanno generando debito ecologico, o sono complici della domanda di materie prime dei paesi ricchi. In sostanza però i grandi debitori sono i paesi creditori che in virtù dei loro crediti finanziari hanno imposto condizioni capestro ai paesi poveri che causano direttamente debito ecologico. Questo ci apre scenari ancor più interessanti: i paesi debitori del debito finanziario possono assumere una posizione più degna e meno subalterna nei negoziati internazionali.

Un paese che ha un debito finanziario può esigere il pagamento del debito ecologico. Ad esempio nel caso di ITT Yasuni (progetto del governo ecuadoriano di mantenere ingenti quantità di petrolio sottoterra in una zona di grande biodiversità abitata da popoli indigeni non contattati, in cambio di fondi internazionali NdA) , si tratta di una corresponsabilità di paesi ricchi ed indebitati, eguale e differenziata nel proteggere il pianeta. Il debito ecologico è un concetto molto potente e per questo molti non lo appoggiano, perché temono che questo crei un precedente rischioso.

FM: come si può restituire il debito ecologico e non cadere nella trappola secondo la quale il debito ecologico si può ripagare con risorse finanziarie, attribuendo un valore di mercato alla natura?

AA:. E’ un gran rischio credere che il debito ecologico si possa cancellare con il denaro. E’ il caso del Fondo Verde per il Clima lanciato alla Conferenza sul Clima dello scorso anno a Durban, che parrebbe essere uno strumento per ripagare debito ecologico, anche se i promotori si guardano bene dal riconoscerlo apertamente, o d’inquadrare le funzioni del Fondo nel concetto di restituzione.

La vera sfida è quella di assumersi responsabilità storiche. Nel caso dell’Ecuador non è solo quello di proteggere l’ITT Yasuni , ma anche di prevenire l’espansione della frontiera petrolifera all’interno della foresta amazzonica a Sud.

FM Come spieghi la contraddizione tra la necessità di pagare il debito sociale per le generazioni attuali ed il conseguente accumulo di debito ecologico per le generazioni a venire che permea molte delle esperienze di governi di sinistra in America Latina?

AA Apparentemente questa è una situazione senz’alternativa. I popoli dell’America Latina aspettano da tempo immemorabile che si paghi il debito sociale.

Ci dobbiamo allora chiedere quali siano le cause che lo impediscono, le ragioni strutturali di un sistema di sfruttamento, di negazione di diritti. Invece ci si limita ad addurre il pagamento del debito sociale e la riduzione della povertà come pretesto per giustificare l’ampliamento della frontiera estrattiva . Quasi sempre però è questa logica estrattiva che alimenta la povertà.

Insomma ci troviamo di fronte ad una perversione, ad un ossimoro. Inoltre, le economie estrattiviste, sviluppano patologie economiche, sociali e politiche. Si vive della rendita della natura e si dipende dalla domanda dei paesi ricchi e del capitale, e della nostra capacità di sfruttare la Madre Terra e la manodopera.

Ecco un altro aspetto del debito ecologico. A livello sociale hai società nelle quali i progetti di lotta alla povertà finanziati sfruttando la natura, alimentano politiche clientelari e populiste. A livello politico hai governi ad differente tasso di autoritarismo, basta dare un’occhiata ai paesi maggiormente produttori di petrolio nel mondo.

FM: Concetti come debito ecologico e diritti della Madre Terra sono ormai molto diffusi a vari livelli, un po’ come successe venti anni fa con lo sviluppo sostenibile. Un termine da allora usato ed abusato al punto da trasformarsi in tutto ed il contrario di tutto. Come evitare che questo succeda anche con il debito ecologico?

AA: Questi processi hanno a che vedere con i conflitti e le lotte per l’affermazione dei diritti , e non solo con il loro riconoscimento formale in una costituzione ed in leggi adeguate. Questo noi lo abbiamo fatto all’Assemblea Costituente di Montecristi frutto di processi collettivi, di popolo. I diritti della natura sono stati inseriti nella Costituzione dell’Ecuador , anche grazie al supporto di Eduardo Galeano, che riuscì a motivare altri congressisti che fino ad allora non erano interessati al tema.

Eppoi ci sono alcuni amministrazioni locali statunitensi che li riconoscono nei loro statuti e normative. Io provengo da una riflessione sul tema della Pachamama, anche se secondo la cosmovisione indigena in realtà non esiste una tal cosa quale i diritti della natura. Tutti noi esseri umani siamo all’interno di un processo di emancipazione, di umanità, e quando parliamo di Buen Vivir o Sumak Kawsay, non parliamo di modello alternativo di sviluppo, ma alternativa allo sviluppo. E su questo articoliamo alcuni concetti.

E non siamo i soli. Vorrei al riguardo concludere ricordando un grande scrittore italiano, Italo Calvino. Nel suo “il Barone Rampante”, Calvino parla dei diritti della natura, quando il Barone Rampante ormai vecchio, raccomanda ai liberali, nel bel mezzo della rivoluzione francese di concedere diritti alle donne, agli schiavi, agli animali, alle piante, alle erbe…

martedì 14 febbraio 2012

Dalla Sentenza Eternit a Rio+20

Per una strana coincidenza o ricorso storico, la sentenza contro i manager dell’Eternit si collega all’imminente vertice delle Nazioni Unite su Sviluppo Sostenibile che si terrà a Rio a metà giugno, la cosiddetta Rio+20. Venti anni fa, uno dei due manager condannati, Stephan Schmidtheiny fondò la lobby imprenditoriale del Business Council on Sustainable Development e la lanciò a Rio nel corso della Conferenza su Sviluppo ed Ambiente assieme al suo libro "Changing Course" (mutando la rotta) per propugnare la causa delle imprese “verdi”, e del ruolo chiave del settore privato nelle politiche di sviluppo sostenibile.

Eravamo all’indomani della fine della Guerra Fredda, che aveva portato con sé l’illusione che la forza del mercato e del consumo di beni potessero assicurare il progresso ed il miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità. Ogni laccio o lacciuolo rappresentato da politiche pubbliche, o da ipotesi di regolamentazione delle attività delle imprese andava perciò smantellato. Non a caso poco prima della Conferenza di Rio venne chiuso l’ufficio delle Nazioni Unite che stava lavorando ad una Convenzione internazionale vincolante sulle imprese. Al diritto internazionale pubblico venne sostituito il diritto internazionale privato, le regole lasse della “lex mercatoria”, il principio di Responsabilità Sociale d’Impresa. Accanto alla fiducia nei confronti delle imprese transnazionali, si coltivava la speranza che il dividendo di pace generato dalla fine della guerra fredda potesse contribuire ad assicurare un futuro migliore per l’umanità attraverso un aumento delle risorse destinate allo sviluppo ed alla lotta alla povertà.

La “longa manus” della lobby incarnata da Schmidtheiny si fece sentire anche dieci anni dopo, alla Conferenza di Johannesburg, o Rio+10 che consacrò l’era del partenariato tra Nazioni Unite ed imprese, nel quadro del Global Compact. Il discorso sullo sviluppo sostenibile venne così rapidamente cooptato da chi vedeva nei partenariati pubblico-privato per il perseguimento degli obiettivi di sviluppo del Millennio, un’opportunità per le imprese di accedere a settori quali l’acqua, la salute, l’educazione. Insomma, un approccio ancillare a quello che vedeva nell’allargamento dell’ambito negoziale di Johannesburg a comprendere questioni quali il commercio internazionale e gli investimenti, per poter trovare uno spazio alternativo a quello dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, il cui negoziato di Doha stentava a decollare.

Ora, dieci anni dopo si potrebbe assistere in nome della “Green Economy”, alla promozione di strumenti finanziari per l’ambiente, di derivati verdi, modelli di commercio globale di permessi di emissione, di tutela della biodiversità, di privatizzazione ulteriore dei beni comuni. Basta leggere un importante documento preparato dall’UNEP (Agenzia Onu per l’Ambiente) che teorizza un approccio di mercato alle questioni ambientali, nella convinzione che la mancata applicazione delle politiche ambientali sia solo conseguenze di “errori di mercato” nell’attribuzione di valori economici e monetari a servizi ambientali. Lo stesso rapporto riafferma la fede nella proprietà privata, e nella possibilità che attraverso la proprietà privata delle risorse naturali si possa assicurare un loro utilizzo sostenibile. Altro che beni comuni o “commons”.

Sul tema della Green Economy e sui rischi di un’approccio di mercato si gioca una buona parte della discussione politica e teorica verso Rio+20. E la sentenza Eternit dimostra come in mancanza di un quadro di regole vincolanti per le imprese, e di un forte “ancoraggio” ai diritti umani ogni considerazione sociale, o ambientale resta in secondo piano rispetto all’obiettivo del profitto.

La Conferenza dovrebbe anche discutere di un riassetto degli strumenti globali di governo delle questioni ambientali, ma ad oggi non si è ancora trovato un accordo sulla forma, se cioè rafforzare l’UNEP oppure costituire un Consiglio per lo Sviluppo Sostenibile. L’Unione Europea ha già fatto sapere che insisterà per un esito positivo di Rio, forte del ruolo svolto nel salvataggio in zona Cesarini del negoziato sul Clima di Durban del dicembre scorso. Tra i punti di forza della posizione europea il rilancio della cooperazione internazionale allo sviluppo (un controsenso visti i tagli crescenti ai fondi di cooperazione di molti paesi europei) verso quella meta finora irraggiungibile dello 0,7% del PIL, ed il lancio di un’iniziativa sull’accesso all’energia che possa fin d’ora mettere in pratica alcuni degli obiettivi della Conferenza sui Cambiamenti Climatici riguardo le energie rinnovabili ed un modello di sviluppo a basso contenuto di CO2. Ha colpito anche una recente dichiarazione di Connie Hedegaard (Commissaria per il Clima) secondo cui a Conferenza di Rio dovrà impegnarsi superare il paradigma della crescita, e i parametri del PIL.

Certamente leggendo la prima bozza di documento negoziale, la cosiddetta “Zero draft” le speranze di un esito di alto livello restano esigue. C’è però un altro percorso che si sta sviluppando verso Rio+20, al lato di quello delle consultazioni con la società civile ed è quello dei movimenti sociali che si ispirano all’ecologia sociale ed alla critica radicale al modello neoliberista. Movimenti che stanno lavorando per la convocazione di un Vertice dei Popoli della terra, movimenti indigeni che si riuniranno nella Conferenza Globale di Karioka, in un appuntamento “alternativo” che si preannuncia di grandissimo rilievo.

Sono gli eredi di quel primo embrione di movimento globale che vide la sua nascita proprio a Rio, 20 anni fa nelle riunioni del Global Forum e che avrebbe prodotto proposte alternative fondate sulla giustizia ambientale, ed il debito ecologico, addirittura dei Trattati alternativi sulle varie tematiche di negoziato. In Italia era attiva, grazie alla grande intuizione del compianto Alex Langer, la Campagna Nord-Sud, Sopravvivenza dei Popoli, Biosfera, Debito, una rete nazionale ed internazionale di movimenti, ONG e realtà impegnate nei temi dello sviluppo, i diritti dei popoli, l’ambiente.

Da allora proprio l’America Latina è diventata laboratorio di approcci alternativi che mettessero in pratica il concetto di debito ecologico, e lo articolassero attraverso i principi del diritto, (ad esempio i diritti della Madre Terra) e la “buona vita” o Buen Vivir, recepiti nelle Costituzioni di Ecuador e Bolivia. Sia in America Latina, che in Asia i movimenti che si occupavano di debito estero quali la campagna Jubilee South, hanno abbracciato i temi del debito ecologico e della giustizia climatica, consci dell’urgenza di affrontare in maniera radicale gli effetti devastanti della triplice crisi, e rifondare sui temi ambientali e dei beni comuni, la domanda che da sempre si poneva chi chiedeva la cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo: “quien debe a quien? Chi deve a chi”?

Saranno proprio questi i pilastri intorno ai quali si muoveranno le iniziative dei movimenti sociali globali a Rio: beni comuni, giustizia climatica, restituzione del debito ecologico sullo sfondo di una crisi che può paradossalmente aprire la strada ad un futuro migliore, costruito dal basso, con pratiche e proposte fondate sulla giustizia e l’equità sui diritti ed il diritto dei popoli e della natura.