domenica 18 ottobre 2015

Buen vivir o fine di un sogno? Le sinistre latinoamericane ad un bivio



Sinistre latinoamericane ad un bivio: Buen Vivir e democrazia reale o la fine di un sogno?
Paco Martinez
Alternative per il Socialismo
Ottobre-Novembre  2015

“Mentre noi progressisti dell’Occidente spesso siamo i più rigorosi nel monitorare o giudicare i partiti socialdemocratici al governo nei nostri paesi, troppo spesso idealizziamo le realtà politiche in Bolivia ed altri paesi latinoamericani, non solo per mancanza di informazioni, ma anche perché abbiamo bisogno di esempi che diano speranza – e ciò potrebbe portare a conclusioni sbagliate, strategie sbagliate e campagne di solidarietà fuorvianti da parte della Sinistra” [1]

Tracciare le coordinate di un bilancio seppur approssimativo delle  Sinistre del XXI secolo in America Latina   è  compito   complicato, considerando che  ogni esperienza nazionale - da quella   più o meno “socialdemocratica” a quelle del Socialismo del XXI Secolo -  sfugge a categorie definitive. Fatto sta che da più parti si tenta, anche da sinistra, di capire se questo “ciclo” stia volvendo al termine, o se invece si possa aprire una nuova fase di trasformazione  sulla scorta di ciò che di  rivoluzionario ed irreversibile  quelle esperienze hanno portato dopo decenni di neoliberismo, autoritarismo, ingerenza statunitense, strapotere delle imprese multinazionali e delle élite.  Parlare di America Latina  presuppone apertura  all’analisi ed alla critica costruttiva, piuttosto che ideologia. [2] Assumere  la complessità significa   poi considerare che le  dinamiche  attuali  sfuggono alla tradizionale contrapposizione tra rivoluzione e restaurazione guidata o meno da dagli interessi geopolitici di Washington. Certo sussistono  importanti ingerenze degli States , ad esempio in Centroamerica, regione quasi del tutto caratterizzata dal confitto permanente in Messico. O nella spinta alla costruzione dell’Alleanza del Pacifico. O nelle  sanzioni e nell”executive order” di Barack Obama che definisce il Venezuela come pericolo per la sicurezza, in un irrigidimento   parallelo all’apertura verso Cuba, che indubbiamente   rappresenta una  svolta storica.  Che ciò possa poi   all’abolizione dell’embargo illegale dipenderà dalla capacità di Obama di far tesoro degli scampoli del suo mandato presidenziale, o di lasciare  questo percorso da compiere nelle mani del suo successore. 

Oggi più che il Pentagono o la CIA   sono principalmente i mercati globali e la finanza globale, e le élite economico-finanziarie di riferimento  ad  influenzare i processi politici in America Latina. Basti pensare al caso della vertenza giudiziaria in corso tra fondo EMC  del miliardario Paul Singer (per inciso  il principale finanziatore del partito repubblicano negli States)  ed il  governo Kirchner in Argentina, nella quale un tribunale negli Stati Uniti ha ingiunto all’Argentina il pagamento di 1,7 miliardi di dollari come liquidazione di titoli di credito acquistati a suo tempo da EMC sui mercati secondari. Buenos Aires giustamente non paga, ma ciò  impedisce all’Argentina di accedere ai mercati finanziari internazionali, con gravi conseguenze per la tenuta economica del paese. Un altro duro colpo per Cristina Kirchner, a pochi mesi dalle elezioni. Eppoi  gli effetti  – attuali e futuri - del crollo del prezzo del petrolio su economie centrate sulla monocultura petrolifera (Ecuador, Bolivia ed in minore misura Venezuela, dove la fase di crisi è dovuta anche alle ricadute delle sanzioni USA, la recrudescenza di tentativi di destabilizzazione, e la penuria - “pilotata” dalle opposizioni - di beni di prima necessità) o lo sfruttamento intensivo di altre materie prime. A ciò si aggiunge la crisi della Cina , cruciale partner commerciale ed industriale  e pilastro centrale nelle politiche di integrazione  alternative in America Latina. 

Altra traccia di lettura potrebbe essere la contrapposizione/relazione  tra “alto” e basso”,  ossia la  capacità di movimenti sociali  ed indigeni di operare una critica radicale ai processi di accumulazione di potere politico e economico nelle mani di élites vecchie e nuove, reazionarie, oligarchiche o supposte rivoluzionarie.  Per fare un esempio torniamo a Cuba.  Il giorno 30 dicembre 2014 in   Plaza de la Revoluciòn all’Avana l’artista Tania Bruguera  aveva convocato una performance per sottolineare la necessità  di aprire un dibattito pubblico sul nuovo corso a Cuba. Nella sua lettera aperta a Raul Castro, al Papa ed a Barack Obama, la  Bruguera   proponeva il  coinvolgimento   della popolazione cubana, per evitare    un’accettazione  a priori  del paradigma economico di mercato e l’integrazione di Cuba nelle dinamiche del mercato capitalista globale.  Nelle parole del critico d’arte messicano Cuahtemoc Medina l’intenzione era di  “trasformare un processo ulteriore di espropriazione neoliberista, la cosidetta “normalizzazione” delle relazioni tra Cuba e Stati Uniti, in un appello a far valere una rivoluzione cittadina all’interno della rivoluzione cubana”, in poche parole, “socializzare il socialismo”. [3] La performance non ebbe mai luogo, e la Bruguera venne dapprima messa agli arresti domiciliari  e poi liberata. Questo episodio, al di  là del carattere performativo proprio dell’arte contemporanea della cosiddetta  “socially engaged” art - che in America Latina ha tra i suoi più validi esponenti – offre spunti utili  di riflessione. Anzitutto andrà chiarita  la misura in cui i processi di riappropriazione dal basso  dello spazio pubblico, spesso rischiano di diventare ambivalenti, a volte ambigui. Troppe volte accanto a forze progressiste e movimenti sociali si manifesta  la presenza opportunistica di forze reazionarie, oligarchiche e di destra.   Ciò comporta la doppia sfida di contrastare la destra e le sue pulsioni “golpiste” o reazionarie ed alimentare   il protagonismo di  soggetti sociali,  movimenti e realtà progressiste che non necessariamente coincidono con il discorso “oficialista” , ma che hanno contribuito non poco all'avvento di governi progressisti e potranno contribuire in maniera determinante alla continuazione di quei processi di liberazione ed emancipazione.  

Agitare lo spauracchio della destra, seppur  legittimato dall’evidente tentativo spesso eterodiretto di scalzare i governi progressisti (ad esempio in Venezuela), rischia di essere strumentalizzato per mettere a tacere qualsiasi forma di dissenso da “sinistra”. Interessante a tal riguardo lo scambio epistolare   tra il vicepresidente della Bolivia Garcia Linera ed un   gruppo di intellettuali di sinistra   tra cui Buenaventura de Souza Santos, Alberto Acosta, Raul Zibechi, cofirmatari assieme alla sociologa di sinistra argentina Maristela Svampa di  una lettera di protesta riguardo la decisione del governo Boliviano di chiudere di autorità alcune ONG di sinistra nel paese. Alla risposta di Garcia Linera  la Svampa   replica che l’accusa rituale secondo la quale le ONG critiche nei confronti delle politiche estrattiviste e sviluppiste del governo siano da considerare come braccio della destra reazionaria,  servirebbe solo ad occultare il vero  problema, quello del modello di sviluppo, che in Bolivia   sembra ormai assai lontano da quei diritti della Madre Terra   sanciti a livello costituzionale.[4] Una faglia aperta con la scelta di aprire una autostrada parco del Tipnis,  uno spartiacque nella storia recente della sinistra in Bolivia, come  la mossa di Correa in Ecuador di delegittimare la “consulta popular” convocata dal movimento degli Yasunidos per la protezione del parco Yasuni dall’estrazione petrolifera, o la diga di Belo Monte in Brasile o la decisione del governo di Ortega in Nicaragua di aprire un canale parallelo al canale di Panama. Che chi si opponga a questi megaprogetti,  all’espansione dell’agribusiness o ad accordi di libero scambio firmati a vantaggio delle élite economiche e commerciali di sempre sia ostaggio della destra è tutto  da dimostrare.  

Certo è che accanto alla sinistra “oficialista” del XXI secolo si è andata affermando, come dimostrano  anche le recenti mobilitazioni in Ecuador,  una sinistra di base, popolare, ecologista, indigena e contadina che invece di essere considerata come “linfa vitale”   viene dalla stessa sinistra “oficialista” bollata come golpista o al soldo della destra e spesso anche trattata con linguaggi e modalità neocoloniali, Non è un caso che in vari settori del pensiero critico di sinistra in America Latina, si pensi all’opera di Anibal Quijano [5],  spesso si parla della necessità di “decolonizzare” il potere. Piuttosto che adottare le categorie  di destra e sinistra sarà quindi  urgente affrontare il tema della “colonialidad” e decolonizzazione del potere per  una trasformazione radicale  delle vecchie strutture economiche,  politiche e sociali. Strutture, che a parte l’eccezione del Venezuela o di Cuba, sono state in minima parte intaccate. Ad esempio in Brasile l’alleanza tra governo e interessi di élite industriali vecchie o nuove è resa possibile dal sistema elettorale che permette alle imprese di finanziare i propri candidati. Non a caso le 10 maggiori imprese brasiliane hanno eletto il 70% del Parlamento [6]. Questa convergenza di obiettivi  si traduce in programmi neoliberisti, quali Agenda Brasil. [7] Il Brasile è oggi in preda ad una crisi economica, sociale, politica   grave, non solo riconducibile alle mobilitazioni   a seguito dei gravi scandali di corruzione che avevano dapprima colpito ministri del   governo Rousseff ed ora rischiano di travolgere lei e l’ex Presidente Lula. In realtà il gigante brasiliano   è attraversato anche da una profonda crisi economica, con stagnazione della crescita industriale, aumento della disoccupazione e da una crisi sociale di rappresentanza. Nelle grandi città questa si manifesta con la mancanza di accesso alla casa, ai servizi pubblici, aumento della violenza della polizia verso i giovani delle periferie e delle favelas, e la difficoltà dei giovani “scolarizzati” di poter accedere agli studi universitari. La risposta dei movimenti sociali  è quella di una “costituente dal basso” per cercare di ricostruire una trama di azione politica ed uno spazio pubblico e di cittadinanza, contrastando i tentativi delle destre. L’altra è la crisi del modello estrattivista di  sfruttamento ed esportazione di risorse naturali e   costruzione di grandi infrastrutture, e  che non porta con sé una logica di redistribuzione dei profitti ed accentua invece le ancora esistenti diseguaglianze nelle periferie del paese. Il leader del Movimento dei Sem terra Joao Pedro Stedile, non usa mezzi termini nel definire la questione:  “il neosviluppismo si è esaurito”. [8] 

In  Cile i ripetuti scandali di corruzione hanno portato la presidente Bachelet a  costituire un nuovo governo, mentre la “longa manus” delle forze armate riaffiora continuamente nel dibattito pubblico nel paese, a dimostrazione della persistenza di strutture e centri di interesse mai messi in discussione. L’esclusione di un’ampia fetta della popolazione dall’economia ha poi contribuito alla perdita di legittimità del sistema politico. Il tema degli indigeni Mapuche e della loro marginalità ed esclusione è poi lì a dimostrare come anche in Cile la sinistra oltre a non   smarcarsi dall’imperativo sviluppista, fatica ad assumere una prospettiva “decolonizzata”. Il movimento inizialmente studentesco chiedeva accesso all’educazione gratuita ed universale, per poi allargare la piattaforma al welfare ed alla sanità pubblica e poi in supporto ad una totale revisione dello stato, attraverso una Assemblea Costituente, cosa che Michelle Bachelet cerca di evitare, sostenendo invece in alternativa una strategia più interna alle istituzioni, ed un percorso “parlamentare” per la stesura della nuova costituzione. [9] 

Tutto ciò autorizza ad affermare che la sinistra latinoamericana è alla fine di un ciclo? O ad imputare sempre e comunque questa crisi e le mobilitazioni che ne seguono, al furore reazionario delle destre oligarchiche o di mandanti a stelle e strisce? O  a cercare in tale crisi tracce di  una vera crisi di paradigma? Indubbiamente come spiega Immanuel Wallerstein [10], esistono ormai due sinistre in America Latina, quella che ha usato il potere per modernizzare lo stato e l’economia ed entrare in competizione con le economie del cosiddetto Nord, e quelle sinistre “popolari”, che anche grazie alla “contaminazione” dei movimenti indigeni oggi iniziano a promuovere un approccio diverso basato sul Buen Vivir, che va ben al di là del riconoscimento formale fatto in alcune costituzioni quali quella bolivariana e quella ecuadoriana.  Più che interrogarsi però sull’eventualità che i governi di sinistra si stiano spostando a destra o più in generale accontentarsi di usare i termini di destra e sinistra intesi in maniera tradizionale e forse anche troppo eurocentrica,  sarà urgente definire nuovi codici di lettura. Tra questi emerge  la contraddizione nella quale si sono trovati i vari governi di sinistra   in America Latina, tra dovere storico di “restituire” un debito sociale storico a milioni di poveri ed “esclusi” ed accumulazione di debito ecologico per queste generazioni e quelle a venire. 

E’ l’elemento ecologico che irrompe e delinea una nuova chiave di lettura dei processi in corso nei paesi del “socialismo del XXI Secolo” [11], e che porta molti osservatori , quali Francois Houtart [12], ad affermare che se da una parte molti di questi governi sono riusciti   a disfarsi dell’armamentario neoliberista dall’altra non hanno ancora superato  il capitalismo (seguito in questo anche da David Harvey [13]) , che nella sua fase “estrattivista”,   trasforma le risorse naturali in merci da immettere nei mercati globali. (neanche l’Uruguay di Pepe Mujica ne è uscito indenne).  Pensiamo ad esempio ai processi di integrazione politica continentale, importanti e fondamentali in un nuovo assetto globale centrato sul plurilateralismo, la  costruzione di una cittadinanza continentale, ed aggregazioni quali UNASUR, o l’ALBA, o il CELAC. Un processo di emancipazione contrastato da contro-alleanze quali l’Alleanza del Pacifico che mette insieme paesi della costa pacifica dal Cile, al Perù, al Messico alla Colombia in un patto economico, commerciale e politico con Washington, tutta presa dallo di spostamento del “pivot” dei suoi interessi geopolitici e strategici in Asia e nel Pacifico. Accanto all’integrazione politica si affianca quella economica, attraverso l’adozione del “sucre”, ma anche attraverso megaprogetti e  programmi di sfruttamento delle risorse minerarie e petrolifere, agroindustria, come ad esempio l’IIRSA (Iniziativa per l’integrazione infrastrutturale del Sudamerica). 

Obiettivo centrale è quello di immettere nei mercati asiatici ed europei la maggior quantità di risorse naturali primarie possibile, per alimentare la crescita del continente.  Ci si dovrebbe pertanto  interrogare se oltre il post-liberismo ed il  neo-sviluppismo,  esista a sinistra un’alternativa fondata su democrazia reale e radicale,   decolonizzazione delle strutture di potere,  riconoscimento dei beni comuni,  autonomia dei movimenti sociali, autogoverno e riconoscimento del debito ecologico e della giustizia ambientale. Rivendicazioni e proposte già in gran parte diffuse e agite dal “basso” dai movimenti latinoamericani. Piuttosto che parlare quindi di “fin del relato progresista en America Latina”  [14] sarà importante definire quali  possano essere gli elementi chiave per un  approfondimento del processo di liberazione e emancipazione di quei popoli dopo una fase più o meno lunga di rottura con l’ordine precedente. Per quanto riguarda gli aspetti più positivi delle esperienze del socialismo del XXI, ossia la spesa sociale,  la rinegoziazione del debito, il recupero di sovranità ed i processi di integrazione regionale, tale rottura è irreversibile.  Oggi i poveri e gli esclusi in America Latina sono tornati al centro dell’agenda politica, a loro è stata restituita dignità, basti pensare al Venezuela, che come sottolinea in un interessante articolo comparso sulla rivista Jacobin, “ha riportato i poveri e gli esclusi al centro dello spazio pubblico.” [15]

Se da una parte occorrerà  fare fronte comune contro le destre, e contro gli effetti negativi dei mercati e della finanza globale,   allo stesso tempo  si dovrà lavorare anche sugli elementi portanti di una nuova fase, centrata appunto su  “Buen vivir” e democrazia radicale. Ciò presuppone probabilmente   il superamento delle pulsioni “populiste” e “neocaudilliste” che caratterizzano buona parte di quelle esperienze, anche in seguito alla mancanza o all’entrata in crisi delle strutture politiche e dei partiti di riferimento.  Insomma, quello stesso   populismo che secondo Ernesto Laclau è un elemento determinante per l’egemonia dei processi rivoluzionari non rischia forse di ritorcersi contro la sua stessa base popolare? Resta il fatto che se da un lato senza un netto cambio di passo le sinistre “oficialiste” rischiano di avvitarsi in una crisi senza via d’uscita, dall’altro i popoli dell’America Latina hanno segnato un cambiamento dal quale non si potrà tornare indietro e  che sopravviverà alle sorti dei governanti di ora e di domani. Il punto semmai non sarà il rischio di tornare indietro nella storia,  ma di affrontare un domani che risponda alle aspettative e le aspirazioni di giustizia di interi popoli. Nelle parole di Blanca Chancosa leader indigena ecuadoriana in una lettera nella quale respinge duramente  le accuse di Evo Morales di connivenza con la destra reazionaria: “caro Evo, i presidenti passano noi indigeni rimaniamo e rimarremo, nella speranza di poterci un giorno reincontrare”.[16]

  



[1] While we progressives in the West often apply the most rigorous scrutiny in or judgments of ruling social democratic parties in our countries, political realities in Bolivia and other Latin American countries are too often idealized, not only because of lack of information, but also because we desire beacons of hope – this may lead to false conclusions, wrong strategies and misguided solidarity campaigns among the Left”.Bolivian authoritarianism: not just a right-wing charge” by ROAR Collective on November 3, 2014 - http://roarmag.org/2014/11/bolivia-authoritarianism-mas-elections/
[2] Polis 39 (2014) Soledad Stoessel - Giro a la izquierda en la América Latina del siglo XXI. - Revisitando los debates académicos  - http://polis.revues.org/10453
[3] https://cuauhmedina.wordpress.com/2014/12/29/yotambienexijo-la-socializacion-del-socialismo-y-la-exigencia-de-recuperar-el-ser-politico/
[4] http://www.pueblosencamino.org/index.php/joomla-stuff-mainmenu-26/search-mainmenu-5/1440-poco-serio-decir-que-fuimos-enganados-maristella-svampa-responde-a-garcia-linera
[5] http://www.vientosur.info/IMG/pdf/VS122_A_Quijano_Bienvivir---.pdf
[6] Raul Zibechi, “Il Brasile che verrà”, http://comune-info.net/2015/03/il-brasile-che-verra/
[7] http://congressoemfoco.uol.com.br/noticias/entidade-divulga-manifesto-contra-a-agenda-brasil/
[8] lalineadefuego.info julio 14, 2015 “EL NEODESARROLLISMO SE AGOTÓ”: João Pedro Stedile
[9]  www.opendemocracy.net /cristobal-escobar/social-movement-in-chile-and-call-for-constitutionalassembly
Cristobal Escobar
[10] http://iwallerstein.com/the-latin-american-left-moves-rightward/
[11]La nueva gran transformaciòn” , Raúl Zibechi ,  24 de Julio 2015, http://www.jornada.unam.mx/2015/07/24/opinion/017a1pol
[12] www.opendemocracy.net /fran%C3%A7ois-houtart/citizen-revolutions-in-latin-america
[13]http://marxismocritico.com/2015/08/31/la-izquierda-olvido-ser-anticapitalista/
[14] “Is this the end of the Latin American 21st century socialisms?” opendemocracy.net /democraciaabierta/jorge-le%C3%B3n-t/is-this-end-of-latin-american-21stcentury-socialisms. Jorge León T.
http://kaosenlared.net/el-fin-del-relato-progresista-en-america-latina/
[15] https://www.jacobinmag.com/2014/10/invisible-no-more/
[16] http://www.pueblosencamino.org/index.php/joomla-stuff-mainmenu-26/search-mainmenu-5/1442-blanca-chancosa-responde-a-evo-morales

ENI, pozzi e poltrone


8 settembre 2015 - 
Ha fatto scalpore l'annuncio della scoperta da parte dell'ENI di un enorme giacimento di gas naturale in acque territoriali egiziane. Un annuncio comunicato personalmente dall'amministratore delegato al presidente egiziano Al-Sissi. Si dice che tale scoperta cambierà la geopolitica della regione, metterà in difficoltà Israele e le sue ambizioni di diventare leader regionale nel settore energetico. Nulla però si dice rispetto a cosa significhi fare affari con l'Egitto di Al Sisi. Un partner politico ed economico privilegiato del governo Renzi. Un presidente militare, che usa il pugno di ferro, condanna a morte decine di attivisti dei Fratelli Musulmani, imprigiona leader della primavera di Tahrir e giornalisti. Ma come non è l'Italia capofila mondiale della campagna contro la pena di morte? Già i diritti umani, vengono prima loro o i mercati? Si dice che le rendite dell'estrazione del gas assicureranno la stabilizzazione dell'Egitto, ma nulla si dice del fatto che a Tahrir la gente chiedeva non pane ma democrazia, e che i militari sono un potere economico parallelo. E poi viene a pensare anche a vicende di casa nostra. A un viceministro degli esteri, che aveva competenza geografica su quella regione, e che poi di punto in bianco è passato alla poltrona di vicepresidente dell'ENI.. Proprio nei giorni in cui Lapo Pistelli dava in pasto alle agenzie la sua decisione, dalla Nigeria arrivavano le notizie di proteste di giovani nigeriani che avevano occupato pozzi della succursale nigeriana dell'AGIP. Chiedevano giuste compensazioni per i danni arrecati dalle attività di estrazione. I livelli si confondono, è sempre più chiaro chi detta le linee di politica estera e geopolitica del paese. Per lo meno si abbia il buon gusto di risparmiarci la falsa retorica sui diritti umani, o sulla responsabilità sociale di impresa. 

http://www.mosaicodipace.it/mosaico/a/42030.html

Perché bombardare l'Iraq è una pessima idea

10 ottobre 2015 - www.comune-info.net
Il semi-scoop, poi ridi­men­sio­nato, sull’eventuale uso dei Tor­nado ita­liani di stanza in Kuwait per bom­bar­dare Daesh (Isis) in Iraq sol­leva que­stioni cru­ciali. Cer­ta­mente è impe­ra­tivo richia­mare il governo ai suoi doveri isti­tu­zio­nali di coin­vol­gere il Par­la­mento in deci­sioni più che sen­si­bili per la poli­tica estera del paese.
Ormai è un dato di fatto, certo da con­tra­stare poli­ti­ca­mente, che le deci­sioni di poli­tica estera «hard», ossia sull’uso della forza mili­tare, siano sot­tratte al par­la­mento che si limita ad aval­lare deci­sioni già prese. O a sot­to­stare ad inter­pre­ta­zioni discu­ti­bili sulla legit­ti­mità poli­tica della deci­sione in que­stione: basti pen­sare a come il governo ha deciso sul l’invio di armi ai pesh­merga ira­cheni, e sulla rela­tiva riso­lu­zione delle Com­mis­sioni Esteri e Difesa riu­nite nell’ estate 2014, di avviare l’ esca­la­tion con l’invio di Tor­nado e drone da ricognizione.
C’è certo una que­stione di metodo da stig­ma­tiz­zare, ma soprat­tutto di merito.Bom­bar­dare in Iraq è una pes­sima idea che pre­clu­de­rebbe un’eventuale solu­zione poli­tica spesso evo­cata, ma mai effet­ti­va­mente messa in pra­tica. Soste­nere e asse­con­dare le richie­ste del governo Abadi, nel quale Al Maliki resta vice­pre­si­dente rischie­rebbe di raf­for­zare gli sciiti piut­to­sto che spin­gerli verso un com­pro­messo con i sun­niti, ele­mento cen­trale per un governo inclu­sivo. Anche per­ché que­sto governo poco o nulla ha fatto per ripa­gare quel debito sto­rico di Maliki verso i sun­niti, fatto di minacce, repres­sione e vio­lenza, che ha assi­cu­rato un ter­reno fer­tile per Daesh. Con­tri­buire all’escalation delle ope­ra­zioni della coa­li­zione inter­na­zio­nale con­tro l’Isis in Iraq — dove il con­flitto è interno, a dif­fe­renza della Siria dove il con­flitto è una guerra per pro­cura tra varie potenze vec­chie o aspi­ranti tali — sor­ti­rebbe poi l’effetto per­verso di dere­spon­sa­bi­liz­zare que­gli attori regio­nali, quali Iran, Tur­chia ed Ara­bia Sau­dita, che dovreb­bero deci­dersi a rinun­ciare alle pro­prie aspi­ra­zioni geo­po­li­ti­che e impe­gnarsi a con­tra­stare Daesh con­tri­buendo alla rico­stru­zione di un assetto poli­tico sta­bile nella regione.
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Per quanto riguarda l’Italia, que­sto epi­so­dio pare l’ennesima riprova di man­canza di pro­spet­tiva stra­te­gica. E nel caso dell’Iraq come della Libia o dell’Afghanistan, si sup­pli­sce affi­dan­dosi allo stru­mento mili­tare — oltre che su alleanze discu­ti­bili quali l’asse creato da Mat­teo Renzi con Al-Sisi e Neta­nyahu — scelta che pre­clude la pos­si­bi­lità di pen­sare ad una poli­tica estera «altra», in un con­te­sto reso ancor più intri­cato dall’entrata in gioco della Russia.
Scelta scel­le­rata quella che riguarda il Medio Oriente, che rimanda alla neces­sità di rom­pere il silen­zio sulla tra­ge­dia pale­sti­nese — un popolo senza diritti e sotto occu­pa­zione mili­tare, senza Stato e terra insi­diata e negata dalla stra­te­gia colo­niz­za­trice israe­liana — che si con­suma nel san­gue sotto i nostri occhi (L’occupazione e la sopravvivenza). Per quanto riguarda l’Iraq, è evi­dente che Daesh non potrà essere scon­fitto con le armi (a mag­gior ragione quattro Tor­nado non faranno la dif­fe­renza), ma con una poli­tica di con­te­ni­mento e di rico­stru­zione di una cor­nice di governo che sia inclu­siva dei sun­niti, rin­no­vata e cre­di­bile. Ipo­tesi del tutto remota con que­sto governo a Bagh­dad, al cen­tro di mobi­li­ta­zioni di piazza senza precedenti.
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Che fare allora? Una poli­tica estera di costru­zione attiva della pace dovrebbe fon­darsi su quat­tro pila­stri: diplo­ma­zia, nego­ziato, aiuti e embargo delle armi. Ovvero rilan­cio dell’iniziativa diplo­ma­tica con chi sostiene l’Isis, stop all’invio di armi e de-escalation, soste­gno per un governo inter-religioso e plu­riet­nico in Iraq, che rico­no­sca auto­no­mia ai kurdi e rece­pi­sca le istanze della società civile e dei movi­menti che di recente hanno par­te­ci­pato a Forum Sociale Iracheno.
Eppoi soste­nere Libano e Gior­da­nia oggi in grande dif­fi­coltà nella gestione dell’enorme massa di pro­fu­ghi siriani, raf­for­zando con gli stru­menti dell’intelligence il con­trollo delle fron­tiere locali, non per argi­nare l’esodo dei pro­fu­ghi, ma per pre­ve­nire lo spo­sta­mento delle mili­zie Isis da un tea­tro all’altro, come avviene ancora oggi sulla fron­tiera tra Tur­chia e Rojava.
Ma forse la bou­tade sull’Iraq era solo tale, per son­dare il ter­reno, e capire dove poter cer­care di met­tersi in evi­denza, pro­vare ad essere invi­tati nei tavoli che con­tano. Se così fosse oltre dalla man­canza di pro­spet­tiva stra­te­gica o di un’ipotesi poli­tica di gestione e solu­zione della crisi, la Far­ne­sina e Palazzo Chigi sem­brano essere con­dan­nati all’irrilevanza sugli scac­chieri inter­na­zio­nali, in par­ti­co­lare su quello libico. Un altro dos­sier ancor più deli­cato e urgente dopo l’annuncio fatto a fine man­dato dall’ormai ex-inviato spe­ciale Onu Ber­nar­dino Leon di un fra­gile accordo tra Tobruk e Tri­poli, che apre allar­manti pro­spet­tive per un’avventura mili­tare ita­liana in Libia. Ma chi è causa del suo mal pianga se stesso.

* Membro del Comitato Nazionale di Un ponte per…

Articolo pubblicato anche su il manifesto