venerdì 28 marzo 2014

Matteo, Barack: no thanks! Noi siamo per l'AltraEuropa




Non importeremo gas di scisto dagli Stati Uniti, perché per produrlo si stanno distruggendo ecosistemi e la base di sussistenza di milioni di americani ed americane che già vivono in condizioni svantaggiate. Non lo faremo perché crediamo nella giustizia ambientale, e perché riconvertiremo i nostri sistemi produttivi ed industriali verso l'uso di energie dolci, su piccola scala, non nucleari né fossili. Non compreremo F35 perché quei cacciabombardieri, appunto sono bombardieri, a lungo raggio, invisibili, che possono portare bombe atomiche di ultimissima generazione. Non li compreremo perché con quei soldi vogliamo investire per la dignità ed i diritti di milioni di italiani senza lavoro e che già vivono in condizioni svantaggiate. Ed anzi usciremo dagli accordi di condivisione nucleare con la NATO perché le bombe atomiche sono un relitto della storia e sul nostro territorio non le vogliamo. Non vogliamo restare nella NATO perché crediamo che oggi la pace si fa costruendo la pace e non inviando truppe in Afghanistan oggi o spiegando AWACS, caccia e truppe lungo una nuova immaginaria cortina di ferro. E perché crediamo che oggi la NATO sia obsoleta e si debba dare maggior forza alle Nazioni Unite e ad un ruolo chiave dell'Unione Europea, attore di pace e disarmo, verso la soluzione negoziale delle controversie internazionali. E non crediamo ad un'Alleanza che venuta meno la sua ragion prima di esistere dopo il crollo del Muro ogni tot di anni si inventa una qualche ragione per sopravvivere. Non ci piace Putin con le sue politiche di potenza, i suo sogno eurasiatico, la repressione dei movimenti per i diritti civili, le crociate contro gli ambientalisti. Vogliamo pensare a modelli alternativi di soluzione delle crisi, come quella Ucraina, che diano pari diritti e dignità a tutte le persone che vivono in quel territorio già martoriato nel corso della storia. Non sosterremo il negoziato sul Trattato di Libero Commercio ed Investimenti (il TTIP) perché i nostri diritti non sono una merce, non sono negoziabili, né possono essere affidati a corti di arbitrato inaccessibili, ed in mano agli interessi delle imprese. Non sosterremo il TTIP perché è la copia in carta carbone dell'Accordo Multilaterale sugli Investimenti, e quella miriade di accordi di libero scambio che hanno contribuito alla corsa verso il basso nella quale hanno guadagnato le grandi imprese e perso i diritti umani, sociali ed ambientali. E chiederemo invece al nuovo Parlamento Europeo di sostenere un mandato negoziale alternativo. Questa è l'AltraEuropa possibile e necessaria. Nè quella di Renzi né quella di Obama

mercoledì 26 marzo 2014

Vertice USA-UE: Obama cares?

Oggi Obama è a Bruxelles, prima visita in una capitale di un paese membro della UE da quando è entrato alla Casa Bianca. L’agenda del summit UE-USA era inizialmente dedicata quasi esclusivamente al rilancio del negoziato per l’accordo transatlantico di libero scambio ed investimenti – il TTIP. Ora si discuterà anche di Ucraina, di come reagire a fronte delle mosse del Cremlino, come dare risposta alle preoccupazioni di Romania, Polonia e Moldavia. Quest’ultima ha accelerato le trattative per la partnership con la UE. Sullo sfondo si muove la NATO, che attiva i suoi Awacs, rafforza la sua presenza militare sul fianco est.
Prima vittima di questo brusco ritorno alla guerra fredda 2.0 la prospettiva di un ritiro delle armi nucleari tattiche USA – comprese quelle presenti su suolo italiano. La crisi ucraina apre la strada ad un nuovo riarmo, al ricorso al deterrente nucleare, ad un rilancio del ruolo della NATO dopo il fallimento conclamato in Afghanistan. Così Washington , dapprima con l’occhio concentrato sul Pacifico, abbandona ora la sua strategia di disimpegno militare in Europa.
Un’Europa che rischia così di rimanere stretta tra la morsa militare e quella della liberalizzazione del commercio e degli investimenti. In cambio riceveremo gas di scisto dagli USA a sostituire il gas russo. Il cerchio si chiude. Ecco tre ragioni per le quali un’AltraEuropa è oggi come non mai necessaria ed imprescindibile, per la pace, il disarmo, la conversione ecologica, la rilettura del ‘partenariato transatlantico’ la profonda revisione della partecipazione alla NATO.


lunedì 17 marzo 2014

Il lato oscuro dello sviluppo e la resistenza delle donne indigene


14 marzo 2014, Indonesia - Ieri abbiamo visitato il villaggio dayak di Gohong a qualche ora da PalangKraya dove ormai sono da quasi una settimana ad un workshop internazionale sulla deforestazione e i diritti dei popoli indigeni organizzato dall'associazione per la quale lavoro da cinque anni, Forest Peoples Programme. Un'occasione unica per fare il punto sulle lotte e le emergenze comuni tra indigeni di America Latina, Asia ed Africa. Alcuni gli elementi ricorrenti: la pressione del landgrabbing, la pressione delle imprese e del modello estrattivista, la crescente repressione poliziesca e militare delle proteste. I popoli indigeni sono sotto assedio e gli spazi di sopravvivenza si stanno restringendo drammaticamente. Lo abbiamo constatato visitando il villaggio dayak di Gohong e parlando con i leader locali dopo essere stati accolti con una cerimonia di benvenuto, una sorta di autorizzazione ad entrare nella loro terra. Ai tempi dell'era Suharto la zona era stata identificata per un megaprogetto di coltivazione di riso su un'estensione di un milione di ettari progetto, poi accantonato dallo stesso Suharto interessato forse solo al taglio del legname. Oggi quell'area è una enorme torbiera, che si incendia o si inonda a seconda delle stagioni. I dayak sono ora sotto assedio dalle imprese della palma da olio, Prima le loro foreste sono state distrutte per il megaprogetto di produzione di riso, oggi la frontiera della palma da olio si avvicina pericolosamente alle loro terre. Non hanno più cibo tradizionale, ci chiedono aiuto di fronte all'inesistente volontà politica dei politici locali. E' un'ironia passeggiare per Gohong e vederla costellata di bandiere multicolori dei vari candidati alle prossime politiche. Andiamo poi a visitare un progetto di gestione delle risorse forestali delle Nazioni Unite. L'idea è quella di proteggere le foreste per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. Passeggiamo per l'altro villaggio, visitiamo una Longhouse dayak ricostruita per far spazio ad un centro di informazione dell'ONU. Resto perplesso dal contrasto tra propositi enunciati e la realtà. Tutt'intorno alla longhouse svuotata dei suoi abitanti originari, casette di legno, fogne a cielo aperto, un senso di abbandono. Un progetto di gestione delle risorse forestali collettive ci dicono per evitare le emissioni di gas serra causate dalla deforestazione, Alzo gli occhi, lo sguardo va alla riva opposta della laguna. Vedo due grandi strutture metalliche, un cantiere. Sarà una megacentrale a carbone . Ecco la logica: costruisci la centrale a carbone ed accanto proteggi la foresta per compensare le emissioni, E magari poi vendi pure i certificati di carbonio sul mercato globale. Questo viaggio in Indonesia mi riporta ad una tragica realtà che pensavo fosse ormai storia. Storie e realtà che avevo ascoltato, esperienze che avevo incrociato ormai oltre venti anni fa. Poco è cambiato, a parte la retorica dei governi e della comunità internazionale. Anzi, la pressione sule foreste e sulle terre indigene sta aumentando con la domanda crescente di cibo, biocarburante, minerali, petrolio, e la crescnte militarizzazione e repressone delle proteste. Estrattivismo, liberismo e crescita quantitativa illimitata vanno a braccetto con la criminalizzazione dei movimenti indigeni. Sarei tornato a casa con un grande senso di frustrazione se non fosse stato per una leader indigena colombiana (meglio non mettere il nome) che mi ha raccontato la sua storia. Era una suora - a Putumayo, nella foresta amazzonica colombiana. Lo è stata per qualche anno, ma poi non ce l'ha fatta più. “Vedevo il mio popolo soffrire, dovevo andare con loro, e resistere. E questo non era possibile restando chiusa in un mondo fatto di prescrizioni, ostilità, incomprensione. Ed ho preso la mia decisione, sono uscita ed ora organizzo le donne indigene contro i megaprogetti. Abbiamo marciato in 6000 contro l'apertura di una strada nel mezzo della foresta”. Mi racconta la sua storia con un disarmante sorriso sulle labbra. Le dico, certo hai dovuto fare un triplo sforzo da donna indigena: resistere alla religione, resistere al tuo governo, e resistere al machismo dominante anche tra indigeni. Mi guarda e sorride. L'emozione mi assale mentre ascolto una leader indigena indigena pigmea del Cameroon, Ci ha messo una settimana ad arrivare, non le davano il visto. Dice, “Sapete è la prima volta che prendo un aereo in vita mia, ho viaggiato migliaia di kilometri per arrivare qua ed ascolto il dolore comune, le storie di minacce, omicidi di donne indigene, ma dobbiamo unirci , lottare per i diritti umani”. Anche le mi sorride. Nessuna quota rosa o otto marzo per loro....

Un'AltraEuropa mediatore di pace

Quest 'Europa è  imbelle nella sua politica estera anche perché è un progetto politico incompiuto. Non parla ad una sola voce, basti pensare ai casi di Libia e Siria. Certo ora ha un corpo diplomatico europeo, c'è la figura dell'Alto Commissario, il Parlamento Europeo ha qualche potere in più. Ma da una parte manca una visione strategica dell'Unione ferma alla dottrina Solana, la European Security Strategy che a suo tempo creo non pochi mal di testa nella Washington neocon, vista la propensione alla prevenzione politica dei confitti in tempi di guerra preventiva. E spesso l'approccio strategico è determinato dagli interessi dell'industria militare, come dimostrato nella recente discussione in seno al Consiglio Europeo di dicembre scorso. Dall'altra un approccio intergovernativo che da più forza al più forte, in genere l'asse franco-tedesco, vista la latitanza di Londra. Il nucleo duro, quello economico-finanziario di Francoforte e Berlino resta con le sue velleità di conquistare i mercati dell'ex Europa Orientale. E mettere alla frusta i paesi del suo Sud, in virtù di un patto contratto a suo tempo con Parigi. A me l'Europa orientale e possibilmente i Balcani a te il Mediterraneo. Scelta scellerata come dimostrarono il naufragio dell'Union por le Mediterranée di Sarkozy e la fallimentare politica francese nel Maghreb e non solo. Eppoi ancora le incongruenze di un continente che vorrebbe essere "potenza", ma si trova ad sere ancora una vota schiacciato tra i due estremi poli di una possibile nuova guerra fredda. Torna alla  mente una proposta fatta a suo tempo da Etienne Balibar, quella dell'Europa mediatore evanescente. Questo potrebbe esser e fare l'AltraEuropa sull'Ucraina,  Mediare, evitare la lacerazione dell'Ucraina, lavorare per uno status di neutralità attiva per quel paese, ricucire con Mosca. Per farlo l'Europa deve attrezzarsi: rivedere le sue relazioni con la NATO, insistere per la "denuclearizzazione del continente" darsi strumenti di sicurezza improntati non su vocazione offensiva ma su risoluzione diplomatica e multilaterale dei conflitti, e della sua prevenzione, polizia internazionale. E rivedere a fondo il suo modello energetico, per ridurre progressivamente la dipendenza da combustibili fossili e gas naturale (sopratutto importato dalla Russia, di qui l'importanza geostrategica dell'Ucraina) , verso produzioni ecocompatibili, ed energie rinnovabili su piccola scala. Fare la pace facendo pace con il pianeta.

lunedì 10 marzo 2014

Dietro la crisi ucraina lo spettro di una nuova guerra fredda

una domanda: Nelle ultime sue dichiarazioni sulla crisi Ucraina la Ministra degli Esteri Mogherini sposa una linea di cautela, apparentemente volta a lasciare aperta la strada a ipotesi di mediazione che rispettino l'integrità del paese ma anche la sua composizione plurietnica, e le radici storiche della crisi stessa. Un'ipotesi perseguita forse troppo debolmente ma che presuppone certo un impegno alla de-escalation del potenziale conflitto. Nel mentre assistiamo al rischio di una nuova guerra fredda, la risposta "dura" a questa crisi nel mezzo dell'Europa è fatta di armi, soldati, controllo militare del territorio. La NATO smentisce oggi ogni eventuale ipotesi di partnership per l'Ucraina, ma gli Stati Uniti inviano cacciabombardieri nei paesi limitrofi. Putin gioca al braccio di ferro, spostando i suoi soldati in lungo e largo in Crimea. De-escalation, e mediazione internazionale, va bene. Ma questo presuppone che chi la propone sia parte terza, una sorta di neutralità attiva, un arbitro imparziale. E qui casca l'asino. Come può l'Italia esserlo in caso se la sua politica "dura" quella militare e strategica prevede nientedimeno che il potenziamento della sua possibile capacità offensiva nucleare? Già sembra che questo elemento continui a rimanere fuori da ogni discussione sul disarmo, la non-proliferazione, gli F35. Per essere più specifici: gli F35 che l'Italia avrebbe deciso di comprare avranno un lotto che verrà predisposto al trasporto e sgancio di armi nucleari americane. Senza F35 questa capacità non sarebbe, visto che una volta usciti di scena i Tornado gli Eurofighter non avrebbero la stessa capacità. Secondo, quelle bombe atomiche di nuova generazione che verrebbero imbarcate sugli F35 sarebbero di nuova generazione, ossia a potenza variabile, al punto da essere tattiche e strategiche alla bisogna, Imbarcate su un cacciabombardiere "stealth" e potenzialmente a lungo raggio come l'F35 potrebbero essere sganciate finanche su Mosca. E l'Italia sarebbe l'unico paese europeo NATO senza propria capacità nucleare a disporre di questa facoltà. I Russi sono molto irritati per questo e tutto il negoziato per il disarmo e la non proliferazione rischia di esserne pregiudicato. Allora esiste un'evidente contraddizione tra una politica estera enunciata pubblicamente e fatta di invito alla prudenza e la de-escalation ed una militare e di sicurezza che invece metterebbe l'Italia in prima fila in una nuova corsa agli armamenti nucleari. Come la mettiamo?

http://www.other-news.info/2014/03/nato-and-russia-caught-in-new-nuclear-arms-race/

il debito ecologico e l'AltraEuropa

Palangkaraya, Kalimantan Tengah, Indonesia. Terzo giorno di workshop su deforestazione e diritti dei popoli indigeni. Ascolti le storie di comunità indigene dall'Indonesia, Malesia, Repubblica Democratica del Congo, Guyana, Paraguay, Peru le minacce alla loro sopravvivenza, la dura repressione della polizia e dell'esercito, la progressiva scomparsa delle loro fonti di sussistenza e delle loro foreste. E dopo i fiumi di parole, hashtag, dichiarazioni tweet della politica nostrana torni finalmente con i piedi per terra. Già proprio la terra, dove vivono da millenni, le loro radici, la loro visione del mondo. E lo fanno con il sorriso, ma con profonda determinazione, Parlano raccontano delle alternative che con fatica cercano di costruire, le varie forme di resistenza, da quella della disobbedienza civile, e azioni dirette alla creazione di reti internazionali di appoggio. Si susseguono le loro esortazioni ad assumerci noi, europei, le nostre responsabilità. L'Unione Europea è tra i principali importatori di "embodied deforestation", prodotti agricoli e forestali la cui estrazione e produzione causa la distruzione di foreste. Secondo un recente studio della Commissione Europea l'a UE ha importato nel periodo 1990-2008 almeno un terzo di tutto il volume mondiale di prodotti agricoli e bestiame la cui produzione ha causato deforestazione. Dalla soya (abbiamo ascoltato le testimonianze di indigeni Guaranì dal Paraguay) alla palma da olio (qua in Kalimantan diffusissima, e in espansione di Africa, Perù e Colombia) Un leader indigeno guyanese ci racconta come un anziano leader del villaggio da solo ha fermato un bulldozer di una compagnia asiatica. Insomma, le loro vite, la loro dignità hanno molto a che fare con i nostri stili di vita, con la false soluzioni ai cambiamenti climatici ( gli agrocarburanti ad esempio), il consumo di carne e proteine animali. Ci dev'essere spazio per tutto questo, per il riconoscimento del debito ecologico nei programmi per l'AltraEuropa. Perché l'AltraEuropa è necessaria e non più rinviabile non solo per noi.


lunedì 3 marzo 2014

Con Tsipras per l'AltraEuropa


L'Europa e la sinistra si trovano ad un bivio: veder crescere i movimenti antieuropeisti e di estrema destra nazionalista. o trovarsi in una situazione contraddittoria tra retorica “ufficiale” della crescita e rilancio dell'economia, e la pesante eredità del Fiscal Compact e delle politiche d austerità imposte dalla Troika. Alexis Tsipras con la sua candidatura e la proposta rivolta alle sinistre in Italia ci chiama pertanto alla responsabilità di contribuire a spostare a sinistra l'asse della discussione e della proposta programmatica, guardando all'Europa politica come parte essenziale della soluzione piuttosto che progetto da rigettare. Sinistra Ecologia Libertà si è confrontata - secondo il mandato dato dal proprio recente Congresso - con i promotori della Lista e con Tsipras in persona, per verificare le condizioni e le possibilità di una propria adesione, poi confermata dall'Assemblea nazionale del partito. Oggi ci apprestiamo ad un percorso comune con vari soggetti politici e sociali, e personalità del mondo della cultura, dei movimenti e della società civile. Una scelta che non è in antitesi rispetto alla scelta già fatta da SEL di collocarsi nell'ambito del Socialismo Europeo chiedendo di aderire al PSE, ma piuttosto un contributo affinché si affermi in Europa una visione larga di sinistra socialista, progressista, ambientalista e federalista. Un'esortazione anche al PSE ed al suo candidato alla Presidenza della Commissione Martin Schulz affinché consolidino ulteriormente le proposte alternative e critiche verso il neoliberismo e l'austerity già presenti in buona parte nel proprio programma, riconfermate dallo stesso Schulz nel suo discorso di chiusura del Congresso del PSE a Roma. Perché ciò sia possibile, si dovrà scongiurare l'eventualità di una GrosseKoalition a livello europeo, creando cioé le condizioni per una maggioranza alternativa in Parlamento Europeo, che comprenda e trascenda le famiglie politiche tradizionali, quelle dei Verdi, del PSE e della Sinistra Europea, con le loro declinazioni in seno al Parlamento Europeo. Uno spazio ancora tutto da definire, dove forte è il rischio che uno dei suoi potenziali abitanti, il PSE, penda verso altri orizzonti, quelli delle larghe intese. O altri verso una sinistra identitaria o puramente di testimonianza. Per chi deciderà di abitarlo saranno necessarie capacità e determinazione di mettersi in discussione, lanciare ponti, costruire relazioni e non perdere mai di vista l'obiettivo. Un obiettivo che deve essere caratterizzato da un forte messaggio per la dignità delle persone, i diritti e la giustizia sociale. Una proposta politica credibile per l'Europa dovrà infatti trarre la sua origine dalle condizioni di vita materiali delle persone, affondare le sue radici nelle contraddizioni e nella sofferenza che la crisi sta generando. Si pensi che secondo i dati della Croce Rossa Internazionale e di Oxfam, in Europa si prevede che entro il 2020 ci saranno 150 milioni di poveri. 1 cittadino dell'Unione su 4 oggi e in situazione di povertà ed uno su otto della forza lavoro disoccupato, un lavoratore su 5 precario. Oggi la povertà minaccia circa 150 milioni di persone, pari al 24% della popolazione. Un proposta per l'AltraEuropa, per essere credibile e concreta, dovrà quindi contenere pragmatismo ed idealismo. Il pragmatismo di impegnarsi fin da subito per l'adozione di una serie di misure immediate per contribuire a affrontare le drammatiche ricadute sociali del modello di austerità. L'idealismo di costruire un'Europa federale, solidale, ancorata sulla democrazia reale e su ideali cosmopoliti, propri dell'utopia di Altiero Spinelli degli Stati Uniti d'Europa. Un tale spazio, la “terra di mezzo”, ha senso pertanto solo se serve per praticare degli obiettivi chiari per una netta inversione di tendenza delle politiche europee, dalla critica radicale al fiscal compact, al rilancio delle politiche europee di welfare. Si può proporre un Patto di Stabilità Sociale come chiave di volta per affrontare a breve termine gli effetti devastanti delle politiche di austerità, ed a lungo termine ricostruire un sistema istituzionale democratico di governo dell'economia. Ciò implica , oltre alla critica radicale ed al contrasto al Fiscal Compact, la richiesta forte di stanziamento di fondi per un programma europeo di sostegno di emergenza sopratutto nei settori della sanità, e verso le categorie maggiormente colpite dalla crisi, anziani, giovani e bambini, ed un reddito minimo europeo. Il finanziamento dei deficit dei governi della Eurozona andrebbe mutualizzato attraverso l'emissione di Eurobond. Per far ciò la Banca Centrale Europea dovrà diventare “prestatore di ultima istanza” e messa in grado di emettere Eurobond. Al contempo dovranno essere adottare misure fiscali quali una “vera” tassazione sulle transazioni finanziarie ed un sistema fiscale redistributivo fondato su una “patrimoniale” su scala europea. Che servano non solo a assicurare la giustizia fiscale ma anche a finanziare politiche di welfare, e rilancio della piena e buona occupazione attraverso programmi europei di conversione ecologica dell'economia e dei sistemi produttivi, quello che viene definito “Green New Deal”. Debito finanziario e debito ecologico sono anch'essi facce della stessa medaglia, Per questo dovrebbe essere proposto con determinazione un progetto radicale di conversione del sistema produttivo, che contribuisca alla costruzione dell'Europa attraverso la promozione e tutela dei beni comuni, acqua, cibo, salute, aria, saperi e non della loro mercificazione. Accanto alla richiesta di un pacchetto di misure immediate, per l'unione fiscale, per la separazione delle banche commerciali da quelle “speculative” si potrebbe proporre l'introduzione progressiva - nel quadro della revisione dei Trattati – di elementi di federalismo e democrazia reale nell'architettura politica, economica e finanziaria dell'Unione per ovviare a quel deficit di democrazia che rischia di far collassare definitivamente il progetto europeo. Proprio in tal senso, prioritaria sarà la proposta di rafforzamento del potere di iniziativa legislativa del Parlamento Europeo, di controllo e definizione del bilancio europeo, nonché l'introduzione di nuovi strumenti di democrazia diretta di tipo referendario che permettano ai cittadini e cittadine europee di partecipare direttamente alla definizione delle politiche europee, e recuperare quel “demos” così essenziale per il rilancio del progetto di un'altra Europa possibile. Un'Europa che deve anche guardare al proprio esterno come attore globale responsabile, in sostegno alla pace, alla solidarietà internazionale, alla tutela dei diritti umani, al disarmo. Sono queste le ascisse e le ordinate di quella “terra di mezzo” nella quale SEL intende operare con l'obiettivo di costruire insieme assieme alle altre forze e soggetti che oggi lavorano nella lista Per un'AltraEuropa con Tsipras una “roadmap” per l'AltraEuropa. Un ipotesi di lavoro comune che possa essere, anche all'indomani delle elezioni europee, base di una collaborazione più stretta tra le varie famiglie socialiste, progressiste, ambientaliste e di sinistra europee, passando da una fase di contrasto alle politiche ordoliberiste, ed i suoi corollari “politici” (ossia larghe intese o Grosse Koalition, a maggior ragione nell'ipotesi da scongiurare che tale formula possa prender piede anche a livello europeo), ad una fase di costruzione dell'AltraEuropa. Una fase costituente, che non può e non deve essere lasciata esclusivamente nelle mani dei partiti politici europei, ma andrà  condivisa con movimenti, sindacati, soggetti sociali e politici al fine di ricostruire insieme uno spazio comune di cittadinanza, diritti e dignità.

( membro della Presidenza Nazionale e già responsabile esteri, Europa e Cooperazione di Sinistra Ecologia Libertà - scritto e pubblicato per ADISTA, 3 marzo 2014)