mercoledì 28 gennaio 2015

Morire ammazzati a Tahrir Square, quattro anni dopo

Egitto, piazza Tahrir 4 anni dopo si continua a morire

herida-de-muerte-en-egipto Sembrava ieri quattro anni fa. Piazza Tahrir piena zeppa di persone, una moltitudine che chiedeva la deposizione di Mubarak, il faraone. Ci siamo entusiasmati, abbiamo accompagnato con la mente ed il cuore quella piazza. A Madrid gli indignados occupavano Puerta del Sol, a New York Zuccotti Park, a Tunisi la Avenue Bourghuiba. Un grande slancio partiva dall’altra sponda del Mediterraneo. Giorni di tensione, confronti anche violenti, tra i mazzieri di Mubarak, e la folla,il popolo che prende la piazza, si fa potenza, sperimenta, prova, sull’onda delle mobilitazioni in Tunisia ed in altri paesi della regione, a costruirsi un futuro migliore.
Poi l’arrivo al potere di Morsi e dei Fratelli Musulmani, gli errori tattici e strategici, il voler prendere tutto e subito, islamizzare a forza il paese. Ed avvenne quello che era nell’aria. La piazza, almeno buona parte della piazza – anche forze di sinistra c’erano – chiede l’aiuto dell’esercito. Di quelle forze armate che sempre hanno determinato la storia dell’Egitto, non a caso controllano buona parte dell’economia, un potere nel potere, uno stato parallelo. Spietate come il suo generale Al Sissi. Il “tamarod”, la piazza ancora piena che chiede la testa di Morsi. Golpe o fase due di Tahrir?
A sinistra a suo tempo ci si è accapigliati anche sulla definizione degli eventi, in una discussione fine a sé stessa.Sono stati i fatti a dire che golpe fu, deposizione armata di un governo comunque eletto regolamente. Un golpe allora, un regime militare ora, che gode del sostegno delle cancellerie occidentali, inclusa la Farnesina. Intanto Al Sissi prende il controllo del paese, fioccano condanne a morte e processi sommari per i Fratelli Musulmani, Mubarak e suoi vengono riabilitati, la censura mette a tacere le voci critiche. Decine di migliaia di persone incarcerate. Lui tranquillo comanda prima dietro le quinte, inermi cittadini vengono ammazzati nelle strade del Cairo, e la comunità internazionale tace.
Oggi Al Sissi è presidente. Il nuovo faraone, è il nuovo alleato delle capitali occidentali, garante dello status quo tra Palestina ed Israele, scudo armato contro la minaccia del Califfato. Inteprete di un’ipotetico Islam moderato, dopo il suo discorso del primo gennaio all’università del Cairo. Un potere armato fondato su basi fragili, se è vero che anche i seguaci di Mubarak starebbero pensando alla maniera di disfarsene. Eppoi sotto la cenere cova la rivolta – come se nessuno avesse appreso dal passato più o meno recente, senza giustizia sociale ed economica (ma come può essere se i militari controllano gran parte dell’economia del paese?) le teste di ogni colore sono destinate a cadere. E lui il generale usa il pugno di ferro.
Così come in una nemesi storica coloro che erano scesi in piazza Tahrir per chiedere libertà oggi trovano la morte sotto il fuoco dei suoi sbirri nel tentativo di celebrare quelle giornate di quattro anni fa. Il volto morente di Shaima el Sabag poetessa attivista di sinistra tra le braccia del compagno resta lì a ricordare che ancora una volta realpolitik e interessi geopolitici prendono il sopravvento sui diritti umani. Non è la sola a cadere, sono una decina, tra cui un giovanissimo rapper Ahmed Moh­sen. E noi nell’ebbrezza della liberazione di Kobane, e la vittoria di Alexis Tsipras rischiamo di cadere in una triste amnesia.

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"Una lettera nella mia borsa". Poesia di Shaimaa El-Sabbagh 
I am not sure
Truly, she was nothing more than just a purse
But when lost, there was a problem
How to face the world without her
Especially
Because the streets remember us together
The shops know her more than me
Because she is the one who pays
She knows the smell of my sweat and she loves it
She knows the different buses
And has her own relationship with their drivers
She memorizes the ticket price
And always has the exact change
Once I bought a perfume she didn’t like
She spilled all of it and refused to let me use it
By the way
She also loves my family
And she always carried a picture
Of each one she loves
What might she be feeling right now
Maybe scared?
Or disgusted from the sweat of someone she doesn’t know
Annoyed by the new streets?
If she stopped by one of the stores we visited together
Would she like the same items?
Anyway, she has the house keys
And I am waiting for her

martedì 27 gennaio 2015

oggi, 70 anni fa. la Shoah Tra memoria ed impegno contro l'antisemitismo

  
Oggi, 70 anni fa. Si aprono i cancelli di Auschwitz ed il mondo scopre la Shoah. Per non dimenticare, per ripulire l'oggi dalla spazzatura dell'antisemitismo, contrastarlo con intelligenza e assoluta determinazione, con la capacità di discernere tra diritto alla libera espressione e oltraggio alla memoria o istigazione alla persecuzione. Ho avuto un'interessante ed importante conversazione qualche giorno fa con dei giovani rappresentanti delle comunità ebraiche, su varie questioni. Sulla Palestina, ad esempio, ma non solo. Ho chiesto loro, ma voi di chi vi sentite cittadini? mi guardano sorridendo, e forse anche un pò "annoyed" da una domanda forse un pò banale. "siamo cittadini italiani". Italiani, europei e del mondo. E sono preoccupati. Come non dar loro torto. Allora oggi, oltre alla memoria dell'orrore, che ci sia un impegno. Non rimescolare le carte secondo criteri antichi, quelli degli schieramenti ideologici. Non confondere i livelli tra chi ha diritto ad una terra ed uno stato, come nel caso del popolo palestinese, e chi nel mondo ha conosciuto direttamente o indirettamente quell'orrore. Ricordare sempre l'olocausto, per riaffermare la dignità ed il diritto di ogni persona alla propria identità, scelta, alla propria identità sessuale, etnica religiosa. Oggi il mio pensiero torna tra i corridoi stretti tra blocchi uniformi e grigi di cemento armato del memoriale all'olocausto (proprio dietro la porta di Brandeburgo) , un percorso tortuoso, voluto da Lebeskind per far sperimentare l'angustia fisica della negazione della propria identità. Il mio pensiero va a Berlino, a quel marciapiede di Varsavia che lascia una traccia del vecchio muro del Ghetto. va alle borchie di ottone che si trovano qua e lò sparse per Roma, davanti a portoni che nascondono storie tragiche. Ci passo davanti, mai sopra, per rispetto di quei nomi, e quelle date. E resto colpito da alcune di esse: bimbi quasi neonati. E al rione Monti, a Via degli Zingari, a quella targa anonima che ricorda l'altra faccia dello sterminio. E poi, e chissà quando in questo paese si deciderà a farlo, al triangolo rosa di marmo che taglia il canale di Keizersgracht, ad Amsterdam. Il memoriale dello sterminio degli e delle omosessuali. Ad un tiro di schioppo dalla casa di Anna Frank.

sabato 17 gennaio 2015

Siria, l'albero e la foresta

Va bene così , sono tornate salve, avranno passato un'esperienza infernale, non erano andate ad ammazzare nessuno, magari sono andate sprovvedute, ma possibile che piuttosto di azzannarsi su riscatti pagati o amenità varie, non si possa provare a ragionare sul contesto? Erano andate in un paese dove da anni centinaia di migliaia di persone vivono l'inferno sulla terra, dove la spietatezza del regime fa la pari con quella di Al Nusra e di IS. Dove Aleppo è in briciole e con lei Homs, e le prospettive di vita e sopravvivenza del popolo siriano, Sparito inghiottito nei meandri della realpolitik che oggi fa di Assad uno scomodo alleato-ombra contro le forse del Califfato, un tutore di uno status quo, (non scordiamo che la stessa logica della tutela dello status quo oggi legittima un altro signore dal pedigree certo non da nulla, il presidente Al Sisi) , un popolo che scompare sotto le bombe di ogni colore e foggia. E dei siriani e delle siriane che Greta e Vanessa pensavano di poter aiutare? Avessero letto le splendide parole di una canzone che spesso canto "Solo le pido a Dios", avrebbero appreso che la guerra è un mostro grande e calpesta duro, tutta la povera innocenza della gente. Bentornate, e speriamo di poter dire lo stesso di Padre Dall'Oglio e di chi oggi è ancora nelle mani di chissà chi. "Solo le pido a Dios", dice la canzone, che l'ingiusto non mi sia indifferente. Allora finiamo la sequela di accuse e contro accuse, insinuazioni e speculazioni. E guardiamo la foresta non perdendoci dietro l'albero. Tra qualche giorno - forse ai vari commentatori è sfuggito - si terrà a Mosca una riunione convocata dalla Russia, e sostenuta da John Kerry, per cercare di riattivare una trattativa. Molte delle opposizioni hanno già detto che non andranno, ma per lo meno che sia una crepa nell'indifferenza, per riportare all'ordine del giorno l'urgenza di una soluzione politica alla guerra siriana. Di certo non basterà forse sarà l'ennesimo flop dopo il fallimento di Ginevra 2, forse il risultato minimo sarà quello di unirsi attorno al piano dell'inviato speciale ONU Staffan De Mistura per un "congelamento" del conflitto in particolare a Aleppo. Aleppo unica zona senza Al Nusra e IS, che a quanto mi si spiega è luogo di un tentativo di autogoverno dal basso, di gestione collettiva dell'emergenza. E mi chiedo perché il Rojava si e Aleppo no? E mi restano in mente le parole di un amico siriano esule qua in Italia, che mi raccontava con rassegnazione come suo fratello fosse stato torturato dalla polizia di Assad fino a morire. Storie e drammi personali che spariscono nel susseguirsi di parole.

venerdì 9 gennaio 2015

Inside-outside

Inside-outside. Dentro-fuori. Mi torna spesso alla mente quest'ipotesi di lavoro per cercare di immaginare una qualche risposta "politica" all'ennesimo dramma che occupa ora le nostre teste, e le testate di giornali di tutto il mondo. Solo frammenti di ipotesi di lavoro. Il primo: prendere coscienza del punto dal quale parte il nostro sguardo sugli eventi. Un punto di partenza di cittadini e persone di sinistra, o per lo meno preoccupate di assicurare i diritti, promovere la pace, ed il bene comune. Io persona di sinistra, non islamica, che si sforza ma che si rende conto di non poter avere tutti gli strumenti per capire un mondo "altro". Allora riconoscere la propria limitatezza e la propria "alterità" serve a decifrare meglio le ipotesi sulle quali provare ad avviare una riflessione concreta. Secondo: che l'Islam lo conosce e lo vive chi è islamico, chi è laico ma deriva da quella storia, chi si sforza di superare barriere, chi costruisce ponti e prova a ridisegnare frontiere. Che la linea di frontiera la definisce chi sta da una parte ma anche da chi sta dall'altra parte. E' lì il tema della negoziazione, della mediazione, della traduzione delle differenze. Allora ne sovviene la terza: ogni esperimento di igngegneria sociale, di costruzione a tavolino di società multiculturali è fallito, dall'Inghilterra alla Francia. E si deve riprendere il discorso su altri fondamenti, quelli della centralità del soggetto che si vorrebbe beneficiario di tale politica. Credo che l'unica maniera per poter affrontare questo grande interrogativo che ci pone l'integralismo islamico, con le sue derive violente e militari sia quello di provare a sostenere una strategia dentro-fuori. Chi è dentro quel mondo sa ed ha gli strumenti per mettere in discussione le sue degenerazioni, ha i linguaggi, le pratiche, nel sangue, nella mente. Sono loro che - senza applicare distinzioni tra islam radicale o moderato - sono cittadini e cittadine di cultura, estrazione o religione islamica che ripudiano la guerra, la violenza, il fanatismo, che vogliono vivere in una società plurale che sappia valorizzare le differenze senza necessariamente omologarle a forza. Sono loro cui spetta il lavoro "dentro", E noi possiamo solo contribuire a creare le condizioni perché questo avvenga. Ossia, la politica invece di dichiarare guerra dovrebbe mettere in campo iniziative, progetti, risorse per dare capacità "empowerment" per quelle persone, assicurare la circolazione di idee, agevolare lo scambio, sostenere iniziative culturali e di dialogo all'interno di quella o quelle comunità. Eppoi far si che ogni possibile rigurgito razzista, islamofobico, xenofobo sia messo al bando, perseguito che alla fine l'agenda politica di chi uccide in nome di Allah è identica a quela di chi vuole sbarrare le frontiere, perseguire chi si percepisce come diverso. Aprire spazi di dialogo ed interlocuzione all'interno, e costruire barriere di protezione dei diritti civili ed umani, di rispetto della dignità della persona all'esterno e dall'esterno. Per far sì che anche la necessaria opera di tutela della "sicurezza", significhi protezione e tutela della dignità e dei diritti delle persone, non deriva securitaria.

giovedì 8 gennaio 2015

Je suis Charlie, je suis Ahmed, Je suis Baqa aussi


Il diluvio di dichiarazioni, condanne, dissociazioni, teorie della cospirazione, accuse e scuse – come diceva il poeta “senza ritorno” - che segue la tragica esecuzione dei giornalisti di Charlie Hebdo (potevano essere anche di Canard Enchainé o de Les Echos de la Savanne, o Fluid Glacial)
del poliziotto franco-algerino Ahmed, finito con un colpo alla testa, mi fa pensare.
Oltre la giusta condanna e sdegno, l'urgenza di riaffermare quasi autisticamente la profonda fede nella libertà di espressione, di stampa, nei nostri valori democratici. Fa pensare al ritardo con il quale la politica e non solo arrivano nel cercare di capire e di leggere questi fenomeni. Si distingue tra Islam radicale ed Islam moderato, tra califfi, e quaedisti, si fa la radiografia della tattica militare, si trasforma nell'immaginario una metropoli in campo di battaglia. Ci si schiera automaticamente da una parte o dall'altra, o per lo meno contro presunti corresponsabili. Ho letto poche cose valide sulla questione, l'unica forse dalla penna di Igiaba Scego, una amica e sorella, che vive sulla sua pelle il suo essere donna di cultura, e di impegno politico e sociale. Il resto, fuffa. Il che rende merito ad Igiaba ma lascia un gran senso di vuoto e preoccupazione. Vuoto che riflette forse il vuoto di chi non ha strumenti per proporre un punto di vista che non sia appunto il “noi” ed il “loro”, o l'analisi al tornasole delle responsabilità storiche, di chi ha finanziato Al Qaeda prima e lo bombarda ora etc etc. Va tutto bene nel calderone della discussione. Anche l'uso di terminologia militare, siamo in guerra, ci hanno dichiarato guerra. Allora si risponde con la guerra. Si evoca al guerra di Spagna, la resistenza contro il nazifascismo. Mi pare si vada a cercare nelle proprie zone di “comfort” culturale ed ideologico conforto di fronte alla paura, ed alla difficoltà. Ci si interroga, si interpellano esperti di turno, islamisti o islamici "compatibili" o meno. Ci si indigna per le esternazioni leghiste o fasciste. Si prova nell'attimo di un tweet o di un'intervista a dare risposte ad un fenomeno che affonda le sue radici in processi che si sono andati consolidando in decenni. Ricordo erano forse 20 anni fa, e per Greenpeace International partecipai ad uno studio di analisi strategica per capire dove potesse andare il mondo nei venti anni a venire e quali fossero le forze ed i soggetti che avrebbero rappresentato una sfida all'ordine delle cose. Non ricordo chi, forse Rudolph Bahro, intellettuale tedesco mi disse, "l'Islam!". E mi venne in mente lo sguardo allucinato di un predicatore che incrociai un anno prima in una moschea a Penang in Malesia. Venti anni non si cancellano con un colpo di spugna. In una discussione poi tutta “europea” ed “occidentale” o da mondo di minoranza, dove passa in secondo piano il massacro di 2mila persone inermi ad opera di Boko Haram in Nigeria. Stesse bandiere nere, stessi paramenti “ridicoli” come dice Igiaba, stesso sangue versato, stessa follia.