mercoledì 26 ottobre 2011

A Durban una strada tutta in salita per il clima

Manca ormai poco più di una settimana all’inizio della diciassettesima conferenza delle parti (COP) della Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici che si riunirà a Durban e nella quale si tenterà di superare l’ impasse che da anni ostacola l’assunzione di impegni necessari per affrontare l’emergenza climatica, e avviare un processo di transizione rapida verso modelli produttivi e di consumo a basso contenuto di carbonio. Quest’ ennesimo appuntamento della comunità internazionale, si preannuncia già fortemente compromesso, se corrispondesse al vero ciò che in questi giorni ha denunciato il Guardian, ovvero che i paesi ricchi hanno ormai messo in conto che non sarà realistico giungere a nessun accordo vincolante sul clima prima del 2016, e che pertanto lo stesso possa essere messo in attuazione solo intorno al 2020. Queste indiscrezioni infiammeranno senz’altro le prime battute del negoziato che già si preannunciava complesso e pieno di incognite. Lo snodo centrale è rappresentato dalla necessità di ridurre le emissioni di gas serra per stabilizzare l’aumento della temperatura globale, e la volontà di assumersi l’impegno di stanziare fondi necessari per aiutare i paesi in via di sviluppo o in rapida industrializzazione. Se fino ad oggi nessun accordo è stato raggiunto lo si deve senz’altro alla mancanza di volontà politica degli Stati Uniti di sostenere un regime vincolante “a la Kyoto” che potesse obbligare Washington a fare la propria parte. D’altra parte però anche l’Unione Europea avrebbe potuto svolgere un ruolo di mediazione tra Stati Uniti e paesi quali India. Brasile, Cina ed invece ha assunto una posizione di basso profilo. Per quanto riguarda il protocollo di Kyoto, e la sua possibile sopravvivenza in un secondo periodo di vigenza, i negoziati sono ancor in alto mare. Negli incontri preparatori svolti a Panama ai primi di ottobre sono emerse varie ipotesi. Gli Stati Uniti insistono sull’adozione di un sistema di verifica delle riduzioni di emissioni nel quale i paesi fissano un tetto nazionale di massima, e si impegnano di volta in volta a rivedere lo stato d’attuazione, senza accettare l’eventualità di meccanismi di “enforcement” come quelli propri del protocollo di Kyoto. Questo sistema dovrebbe valere per paesi industrializzati come per quelli in rapida industrializzazione e in via di sviluppo. La resistenza di questi ultimi riguarda anzitutto il fatto che così facendo si viola il principio delle responsabilità eguali ma differenziate, che invece dovrebbe comportare un massimo impegno per la restituzione del debito climatico ed ecologico da parte dei paesi industrializzati verso il resto del mondo. Eppoi quest’ipotesi segnerebbe la fine del Protocollo di Kyoto, e con esso l’impossibilità di fissare un tetto vincolante per le emissioni di anidride carbonica. Il paradosso è che così viene meno anche uno dei presupposti necessari per alimentare il mercato globale di permessi di emissione, una delle ipotesi a costo zero prospettate dai paesi industrializzati e dalle imprese per compensare le proprie emissioni con l’acquisto di crediti di carbonio da paesi che emettono di meno. Senza un tetto . si dice – non ci può essere commercio di carbonio. Altra ipotesi quella di andare avanti con il protocollo di Kyoto con i paesi intenzionati a sottoscrivere il secondo periodo che inizia nel 2012, Unione Europea in testa, e includere il Protocollo nel quadro di un accordo vincolante più ampio che includa Stati Uniti, paesi del G77 e paesi del gruppo BASIC (Brasile, India, Cina, Sudafrica). La speranza dei negoziatori è di tenere aperto il canale di discussione ed evitare un ulteriore rottura che rappresenterebbe davvero la fine del modello di negoziato multilaterale. A Panama ha poi preso sostanza la possibilità di un’estensione al 2015 del Protocollo di Kyoto per dar tempo e fiato al negoziato in attesa di tempi migliori. Altra ipotesi quella di creare un annesso C per paesi in rapida industrializzazione. Insomma la questione è ancora del tutto aperta, al punto che nel corso della conferenza stampa tenuta all’indomani della Pre-COP ministeriale del 20-21 ottobre la Ministra degli Esteri Sudafricana si è limitata ad accennare alla necessità di proseguire il negoziato sul tema, richiamando alla responsabilità di tutti per affrontare l’urgenza di una riduzione decisa delle emissioni. A Durban le parti dovranno anche accordarsi sui termini della revisione della soglia fissata a Cancun per il possibile aumento di temperature a livello globale. A Cancun si fissò una soglia di 2 gradi centigradi ritenuta da molti inadeguata o addirittura disastrosa, e si lasciò aperta la possibilità di rivedere al ribasso tale limite fino ad un massimo di aumento di temperatura di 1,5 gradi. Questo tema è direttamente connesso alle politiche di mitigazione, ed al rispetto del principio di responsabilità comuni e differenziate, che oggi restano due macigni sulla strada dell’accordo, In particolare la questione relativa alla mitigazione ed ai cosiddetti NAMA (Nationally Appropriate Mitigation Actions) riguarda gli impegni di rendicontazione e verifica internazionale (in gergo MRV - Monitoring Reporting and Verification), in un gioco al rimpallo delle responsabilità tra paesi industrializzati e G77. A Panama qualche passo in avanti sembra essere stato fatto identificando un sistema binario di rendicontazione per paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Nessun passo in avanti invece sulla definizione della forma legale di un nuovo accordo sul clima, sull’eventualità di adottare a Durban un accordo internazionale legalmente vincolante o meno. Su questo punto i negoziatori si sono sbizzarriti prospettando una serie di opzioni alternative: dall’adozione di una roadmap verso l’adozione di uno strumento legalmente vincolante, all’adozione dello stesso a Durban, ad una dichiarazione sul futuro di uno strumento legalmente vincolante, all’affermazione dell’importanza di uno strumento legalmente vincolante, ad un’indicazione a continuare a discutere. Insomma da Durban uscirà ben poco al riguardo considerando anche che gli Stati Uniti sono contrari alla possibilità che dalla COP esca un mandato chiaro, mentre si è aperta una frattura all’interno dei G77, con i paesi insulari AOSIS che spingono decisamente per un accordo legalmente vincolante e India e Cina che sono contrari a dar mandato per negoziare un nuovo accordo. La posizione dell’Unione Europea resta quella di sostenere un secondo periodo di impegno per il Protocollo di Kyoto (il cosiddetto “Second Commitment Period”) a condizione però che si trovi accordo su un mandato per uno strumento legalmente vincolante. Sul tema delle finanze si gioca l’altra delicata partita. A Copenhagen nel 2009, si concordò per un fondo iniziale di aiuto pari a 30 miliardi di dollari che avrebbero dovuto essere innalzati a 100 entro il 2020. Finora pochi di quei fondi sono stati esborsati, spesso riciclati dalla cooperazione allo sviluppo. Lo snodo delle finanze rappresenta l’altro vero ostacolo verso un possibile accordo di massima a Durban, al punto che un mancato impegno al riguardo rischia di pregiudicare anche la costituzione del Fondo Verde per il Clima, struttura dedicata all’esborso dei fondi climatici. Anzi nell’ultima riunione preparatoria del Fondo Verde Per il Clima gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno puntato i piedi, non accettando un documento bozza nel quale non si chiarisce fino in fondo l’autonomia del Fondo dalla Conferenza delle Parti (cosa richiesta da Washington per aprire uno spazio di agibilità per la gestione da parte della Banca Mondiale), né il ruolo possibile del settore privato. Nel processo negoziale del Comitato Transizionale del Fondo Verde per il Clima sono emersi altri temi estremamente controversi sui quali non si è trovato accordo. Tra questi la possibilità di adottare un criterio di voto ponderato al Consiglio di Amministrazione del Fondo, ricalcando il sistema ben poco democratico del “one dollar-one vote” simile a quello seguito dalla Banca Mondiale, l’eccessivo potere dato al Consiglio, rispetto alla’autorità della Conferenza delle Parti, l’apertura di uno sportello dedicato al settore privato con modalità privilegiate di accesso, la decisione di passar dalla concessione di fondi a dono verso l’uso di fondi come leva per finanziamenti privati. Inoltre a fronte dell’intenzione iniziale di dotare il Fondo Verde per il Clima di due unici sportelli, uno per le attività di adattamento, l’altro per quelle di mitigazione, è emersa la richiesta dei paesi in via di sviluppo di aprire due altri sportelli uno dedicato al trasferimento di tecnologia l’altro alle attività di formazione e di “capacity building”. Nel corso della riunione di Panama si è anche raggiunto un consenso di massima sulla possibilità di uno sportello dedicato alle attività REDD+, ovvero di riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado delle foreste, sulla necessità di adottare una decisione chiara sul rilancio delle attività REDD+ e sull’urgenza di ampliare l’approccio al tema, considerando anche le ricadute dei programmi REDD su biodiversità, lotta alla povertà e fonti di sostentamento delle comunità che vivono o dipendono dalle foreste. Insomma, le prospettive per Durban sono di un esito di basso profilo, con il quale si proverà a “vendere” la COP17 come il vertice sull’adattamento, tema centrale per l’Africa e per le comunità indigene e contadine la cui sovranità alimentare è oggi minacciata dai cambiamenti climatici. E si rilancerà un accordo sulle foreste, che però rischia di rimanere monco, vista l’assenza di consenso sulle modalità di finanziamento, mentre sul Fondo Verde per il Clima, altro risultato auspicato dalla presidenza sudafricana ci sarà da attendere fino all’ultimo minuto di negoziato. Insomma, se una cosa Durban ci dirà, ancor una volta, è che non ci troviamo ormai di fronte ad una crisi nel sistema, ma per parafrasare Zizek, ad una crisi del sistema. Lo ribadiranno a gran voce le migliaia di attivisti, e rappresentanti di movimenti che marceranno anche a Durban per chiedere un cambiamento del sistema e non dei cicli climatici . Una strada tutta in salita.



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venerdì 21 ottobre 2011

Libia, diritti umani e ingerenza umanitaria

Mio contributo al dossier di Mosaico di Pace sule missioni internazionali (Novembre 2011)

Dapprima denominato Odyssey Dawn e poi Unified Protector, l'intervento internazionale in Libia, approvato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in seguito all'intensa campagna diplomatica di Nicholas Sarkozy e David Cameron, ha aperto un intenso dibattito nelle opinioni pubbliche progressiste di mezza Europa. Lanciata con il supposto obiettivo di proteggere i civili dalla repressione del regime di Gheddafi, e soprattutto per evitare un possibile massacro della popolazione di Bengasi l'operazione militare ha rapidamente assunto i connotati di una guerra combattuta per rimuovere manu militari un regime. Nei fatti l'operazione, nelle intenzioni dei principali sponsor, era mirata a ridisegnare gli assetti di forza in una regione, quella del Maghreb, oggi attraversata da un vento di cambiamento che rischia di scuotere alle fondamenta gli obiettivi politico-strategici di gran parte dei governi che oggi partecipano alle operazioni della NATO. Dall'inizio della vicenda ad oggi sono state approvate tre risoluzioni, una delle quali , la risoluzione 1973, ha autorizzato l'uso discrezionale della forza a protezione dei civili ed ha marcato un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite, pieno di rischi ed incognite. In realta' qualche settimana dopo accadde lo stesso con una risoluzione che autorizzo' l'uso della forza nel conflitto interno in Costa d'Avorio tra le milizie del presidente uscente Laurent Gbagbo e quelle del presidente eletto Ouattara, sempre a seguito di un intenso attivismo dell'Eliseo. In ambo i casi viene per la prima volta messo in pratica il principio della Responsibility to Protect (R2P) sviluppato per dotare la comunita' internazionale di strumenti legali necessari per attivarsi in interventi umanitari con l'uso della forza. Memori della propria incapacita' di prevenire le stragi di civili di Srebrenica e Ruanda, le Nazioni Unite istituirono un gruppo di lavoro che elaboro' le linee guida e le giustificazioni giuridiche necessarie allo scopo. In sintesi si delineo' un approccio volto a mettere al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati. Lo snodo centrale della R2P e' il passaggio dal principio della “non ingerenza” quello della “non-indifferenza” , ed anche la possibilità che la comunità internazionale si assuma la responsabilità di attivarsi qualora il governo di uno stato venga meno alle sue responsabilità nei confronti dei propri cittadini, violandone sistematicamente i diritti umani fondamentali e compiendo crimini contro l'umanita' o crimini di guerra. Il rapporto stilato dalla Commisione sulla sovranita' degli stati ed adottato nel summit dedicato che si tenne nel 2005 prevede, a differenza delle missioni umanitarie normalmente condotte dall'ONU, l'intervento con possibile uso della forza anche senza il consenso del governo dello stato interessato. Da allora fino all'intervento in Libia pero' il principio della R2P non aveva ancora trovato applicazione pratica. Gli Stati Uniti in particolare tentarono piu' volte e senza successo di invocarlo per costruire il consenso necessario per legittimare un'operazione militare internazionale per porre fine a quell che i fautori dell'intervento avevano definito un genocidio in Darfur. A sei anni dalla sua adozione la R2P rischiava pertanto di rimanere lettera morta e possibilmente cadere in una prescrizione di fatto, nonostante fosse stato recepito in diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Per questa ragione il precedente fissato con la 1973 acquisisce certamente una portata storica, ma potrebbe allo stesso tempo segnare la fine del principio della R2P. Le modalita' con le quali si e' deciso e poi messo in atto l'intervento in Libia infatti mettono a nudo tutte le contraddizioni ed i rischi di un uso strumentale del principio della R2P. Rischi derivanti dal suo uso selettivo, dalla mancata gestione ed attuazione da parte di soggetti ed entità “terze” e dall'uso di strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza, non necessariamente adeguati alla protezione dei civili, nonche' dal possibile sconfinamento delle finalita' iniziali in obiettivi di "regime change". Fin dall’inizio si decise infatti di dare massima enfasi allo strumento militare (no fly zone, no drive zone etc) piuttosto che agli strumenti politici, ed economici, e di mediazione internazionale. Altro punto riguarda il ruolo del Consiglio di Sicurezza che - a differenza di quanto proposto dalla Commissione ONU sulla sovranita' degli stati che attribuiva all'Assemblea Generale la facolta' di approvare o meno l'uso della forza - ha il diritto di decidere sull'uso della forza. Il fatto che tale decisione venga lasciata al Consiglio di Sicurezza. Cio' rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali. La prima questione aperta riguarda quindi le modalita' con le quali si decide di applicare la R2P ed autorizzare l'eventuale uso della forza. Andra' anzitutto affermato che questo principio, ed il conseguente diritto di ingerenza umanitaria, dovrebbero essere discussi e decisi nella maniera più democratica possibile, ossia dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite dove nessuno stato membro ha diritto di veto e dove vige il principio "una testa un voto". Così si potrebbe evitare il rischio di doppi standard e di un'applicazione strumentale del principio, che è pensato per difendere i deboli e non per promuovere gli interessi dei potenti. In attesa di una riforma in seno al Consiglio di Sicurezza potrà essere possibile per una coalizione di stati proporre una risoluzione all'Assemblea Generale, prendendo atto della incapacità del Consiglio di Sicurezza di operare rapidamente, e chiedendo l'applicazione del precedente "Uniting for Peace". Secondo questa procedura l'Assemblea Generale può essere investita di questioni relative alla sicurezza ed alla pace, qualora la situazione sul campo risultasse in rapido deterioramento, venissero meno le opzioni diplomatiche, e si rendesse necessaria una decisione genuinamente multilaterale. Il secondo punto riguarda il quando deve decidere. Sarà necessario proporre che il sistema delle Nazioni Unite rafforzi la sua capacità di "early warning" per prevedere lo scoppio di conflitti che possono mettere a rischio la vita di civili, ed attivare immediatamente l'Assemblea Generale, per mettere in campo tutte le misure politiche-diplomatiche- economiche volte a prevenire il conflitto. Qualora queste si rivelassero impraticabili si dovrà decidere per l'invio di una forza di interposizione (anche armata) che però risponda al comando delle Nazioni Unite, e non - come nel caso libico - ad una coalizione di volenterosi, poi collocata sotto l'ombrello della NATO. L'intervento della comunita' internazionale dovrebbe essere intrapreso attraverso il dialogo diplomatico, l'interposizione, assicurando il pieno rispetto della Carta delle Nazioni Unite e sempre tenendo in considerazione i diritti delle popolazioni minacciate che dovrebbero essere coinvolte e consultate rispetto alle modalità di intervento. Un caso esemplare puo' essere considerato quello del Burundi, nel quale la R2P è stata applicata in tutta la gamma di modalità previste eccetto l'uso diretto della forza: dalla pressione della società civile per un'iniziativa diplomatica regionale, allo schieramento di una forza regionale di "peacekeeping", ed una volta raggiunta la pace, ed effettuate le elezioni, si è passati al sostegno alla ricostruzione post-conflitto. Insomma, il principio di ingerenza umanitaria innesca dinamiche estremamente complesse e spesso contraddittorie, e comporta una serie di attivita' ed iniziative che vanno ben al di la' dell'uso puro e semplice della forza. Una possibile alternativa dovra' pertanto essere fondata su un nuovo approccio che faccia tesoro e si fondi sui principi della nonviolenza, giustizia e prevenzione dei confitti. In questo quadro sara' altrettanto urgente rilanciare proposte concrete su temi quali la sicurezza umana, la prevenzione dei crimini contro l'umanita' , la democratizzazione delle Nazioni Unite, nonche' una ridiscussione del ruolo e dell'utilita' della NATO. Perche' la pace non puo' essere confinata ad una rivendicazione etica pura e semplice, ma deve essere intesa come progetto politico volto a assicurare dignita' e giustizia agli esseri umani e relazioni solidali tra i popoli.

Dalle missioni ad una "mission" di pace nel mondo

Editoriale per il dossier sulle missioni internazionali curato per Mosaico di Pace (Novembre 2011)


Questo dossier intende fornire alcuni elementi necessari per operare un cambio di passo dallo studio critico delle “missioni” internazionali, all’elaborazione di una nuova “mission” pacifista e nonviolenta per il nostro paese, che ripudi la guerra in tutte le sue categorie, vecchie e nuove che siano. Elettra Deiana ci offre un breve excursus storico della trasformazione delle dottrine italiane di difesa e delle finalità delle missioni all’estero, diverse nella loro natura e modalità operative, sottolineando i rischi connaturati alla possibile violazione o elusione dell’articolo 11 della Costituzione. Il contributo di Giulio Marcon tratta della commistione tra cooperazione civile e militare, uno degli elementi di maggior novità negli ultimi anni. Se questo approccio ha trovato la sua prima espressione nell’Operazione Arcobaleno, oggi sembra essere diventato “mainstream”, segnando l’uso dei fondi di cooperazione , già scarsi se non inesistenti, a favore di formule ibride proprie delle operazioni di contro-insurgenza. Altro tema trattato riguarda l’ingerenza umanitaria o “responsibility to protect” ovvero la possibilità della comunità internazionale di intervenire per proteggere i diritti di popolazioni a rischio, qualora quei governi vengano meno alle loro responsabilità. L’intervento internazionale in Libia rischia di sancirne la fine, viste le modalità seguite e l’uso del tutto strumentale per legittimare una guerra volta a rimuovere “manu militari” un regime. Comprimendo al massimo i vincoli del diritto internazionale si aprono così zone grigie di legalità ed illegalità che rischiano di rendere ridondante l’impianto del diritto internazionale, creando uno stato di eccezione permanente volto a legittimare qualsiasi forma di intervento contro il nemico di turno. Sarà pertanto urgente lavorare per la costruzione di un’alternativa plausibile, facendo tesoro di esperienze positive di interposizione quali la missione UNFIL in Libano, oggetto della testimonianza diretta dell’ex ambasciatore italiano a Beirut, Giuseppe Cassini. Oppure traendo le necessarie considerazioni dall’esperienza afghana (riportata da Emanuele Giordana e Gianni Rufini) in una fase storica nella quale l’intervento internazionale piuttosto che assicurare la pacificazione ed il rispetto dei diritti umani è accompagnato da una preoccupante escalation del conflitto anche nelle aree di competenza italiana, e dal crescendo di violazioni dei diritti umani da parte delle forze governative. Al Kosovo dedicheremo uno spazio più ampio in un prossimo numero, vista la rilevanza storica ed il recente riacutizzarsi del conflitto interetnico in quella regione.

Frammenti da un mondo in crisi

Nel corso dell’ultimo vertice dei ministri dell’economia del G20 dominato dalla discussione sulle misure di salvataggio dell’eurozona, è stata respinta la proposta avanzata da Francia e Germania di approvare l’istituzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, la Financial Transaction Tax. L’Europa è unita sulla FTT, ma spezzata in più parti rispetto alle misure da intraprendere per il salvataggio di paesi indebitati, al punto da far prospettare il rinvio del vertice ministeriale previsto per questo weekend. Paradossalmente, l’opposizione principale alla FTT proviene non solo da Canada e Stati Uniti, ma anche dall’India, mentre Brasile e Sudafrica la sostengono con forza. Anche il blocco BRICS si sta sciogliendo? Nel frattempo il movimento globale degli indignados lancia un’iniziativa globale per la Robin Hood March da tenersi il 29 ottobre alla vigilia del G20 di Nizza

È stato liberato dopo oltre 5 anni di prigionia il soldato israeliano Gideon Shalit, in cambio di un migliaio di prigionieri palestinesi. Uno spiraglio per il rilancio della trattativa internazionale si dice. Nel frattempo la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina è passata dal Consiglio di Sicurezza all’organismo dell’ONU preposto a vagliare l’ammissione di nuovi stati. Un escamotage per guadagnare tempo e ridare fiato all’iniziativa del Quartetto? Se da una parte il presidente Obama insiste nella sua decisione di porre un eventuale veto su una decisione del Consiglio di Sicurezza, dall’altra l’offensiva diplomatica palestinese continua. Dal Palazzo di Vetro è passata ora alle singole agenzie specializzate, UNESCO in testa, che stanno valutando il da farsi.

Il corpo martoriato del dittatore viene esposto come trofeo o simbolo di una nemesi storica per suggellare la chiusura violenta del passato di un paese, la Libia, che oggi dichiara la sua liberazione. Restano molti interrogativi ai quali si dovrà dare risposta. Quali segreti si porta nella sua tomba segreta Mohammar Gheddafi? Quale prospettiva di pace in un paese che ora entrerà nella fase più difficile, quella della ricostruzione e della riconciliazione nazionale, spaccato com’è tra varie fazioni fino ad ora unite contro un unico nemico? La storia dell’operazione internazionale in Libia ci interroga su questioni molto controverse. Su come tutelare i diritti umani senza legittimare la rimozione violenta di un regime e quale scala di priorità dare tra pace e giustizia. A suo tempo il procuratore generale del Tribunale Penale Internazionale Moreno Ocampo venne criticato per aver spiccato mandato di cattura internazionale per Gheddafi e la sua famiglia mentre erano in corso trattative per una soluzione negoziale del conflitto. Si disse che quella scelta fosse stata controproducente e si argomentò molto sulla relazione che intercorre tra pace e giustizia internazionale. Una presuppone o esclude l’altra? Piuttosto che essere giustiziato per una taglia da 20 milioni di dollari Gheddafi avrebbe dovuto essere stato giudicato da un tribunale internazionale. Così non è stato.

A riflettere sulle immagini di piazza Syntagma dei giorni scorsi, di un parlamento sotto assedio ormai ridotto ad immagine senza sostanza, “imago sine re” dicevano i Romani, e condannato ad accettare supinamente le prescrizioni della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale vengono alla mente le parole dell’economista Dani Rodrik. Nella sua ultima fatica, “Il paradosso della globalizzazione”, Rodrik ci dice che non è affatto vero che i mercati globali prosperino grazie ad uno stato “leggero”, anzi ci dimostra il contrario. Semmai il problema da affrontare è quello di sciogliere un “trilemma”, tra democrazia, globalizzazione economica ed interesse nazionale. “Non possiamo perseguire contemporaneamente tutt’e tre” aggiunge, e conclude ” Dobbiamo fare delle scelte, ed io voglio essere chiaro sulle mie: la democrazia e l’autodeterminazione devono essere prioritarie rispetto all’iperglobalizzazione. Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro contratti sociali e quando questo diritto confligge con le esigenze dell’economia globale dovrà essere il primo a prendere il sopravvento”. Con buona pace dei deputati greci e dei parlamentari italiani cui era stato proposto di introdurre in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio con l’avallo di buona parte del centrosinistra.

Si riaccende lo scontro in Kurdistan turco. Dopo la recente offensiva del PKK dura è stata la risposta dell’esercito di Ankara in un conflitto che si trascina ormai da anni, e supera i confini nazionali, aggravando ulteriormente la situazione già difficile in Irak. Come fantasmi della storia riemergono le rivendicazioni di popoli senza stato, dal Kurdistan al Sahara Occidentale, riemergono le tensioni in Kosovo, mentre dal paese basco arriva la notizia dell’abbandono definitivo delle armi da parte dell’ETA. Quella stessa Turchia che aspira a svolgere un ruolo di “playmaker” nel Mediterraneo, secondo i principi del “neo-ottomanesimo” e che l’Unione Europea ha fin troppo tardato ad accogliere. Quella Turchia che avrebbe mediato per la liberazione di Gideon Shalit, e che di recente avrebbe concluso un accordo con la Norvegia per la formazione alla diplomazia di pace, e prevenzione dei conflitti. E che oggi al suo interno non trova la chiave di svolta per porre fine ad un conflitto senza altre vie d’uscita, per il popolo kurdo e per quello turco.

Si avvicina la data fatidica delle elezioni in Tunisia, culmine della cosiddetta rivoluzione dei gelsomini, mentre in Egitto la transizione appare sempre più complessa e piena di rischi. Al Cairo i militari continuano a tenere il bastone dalla parte del manico forti di un possibile accordo con i Fratelli Musulmani per costruire uno stato egiziano nazionalista con forte impronta islamica. In Tunisia le aspettative sono differenti, vista la differente genesi del processo di trasformazione. Un ruolo forte dei sindacati, di alcuni partiti politici della sinistra, un ruolo defilato dei militari lascerebbero ben sperare. Sullo sfondo, una grave crisi economica e sociale, e l’avanzata galoppante del partito islamico Ennahdha, il cui leader Rachid Ganouchi qualche giorno fa ha prospettato il rischio di brogli elettorali, e minacciato una rivolta. Quale che sia l’esito finale chi andrà al potere in Tunisia dovrà imbarcarsi nell’arduo compito di riscrivere la Costituzione, e tenere in vita uno spirito “costituente” affermatosi non nel Palazzo ma nelle piazze e nelle strade del paese.

Peacereporter ci informa della pubblicazione di un documento sullo stato del conflitto in Afghanistan. Secondo l’Afghan NGO Safety Office (Aprile 2011), si è registrato un aumento degli attacchi da parte delle varie componenti dell’insurgenza afghana del 51% rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno. Nel marzo 2011 sono stati registrati ben 1102 attacchi, mentre nel primo trimestre si è registrato un aumento del 115% nella regione di Herat e del 164% in quella di Farah, nelle quali operano i contingenti italiani, per un totale di 116 attacchi. Un conflitto senza uscita, scomparso dall’attenzione dei media, caratterizzato da quello che viene definito “stallo perenne sotto escalation”, nel quale le operazioni di controinsurgenza di fatto rafforzerebbero le attività dell’insurgenza. Ed accanto a ciò si nota l’intensificarsi delle attività di gruppi armati irregolari, al soldo di capi tribali o politici locali, e tollerati dagli Stati Uniti.