giovedì 20 novembre 2008

Il presidente dell'Ecuador Correa chiede un Tribunale ONU sul debito estero

Oggi in occasione della presentazione del rapporto della commissione di auditoria del debito estero dell'Ecuador, il presidente Correa ha rilanciato la proposta di creare un Tribunale ONU di arbitrato sul debito estero. Proposta che da tempo fa parte delle piattaforme delle campagne di movimento sul debito in primo luogo Jubileo Sur. Da notare che tra i membri della Task force ONU sulla crisifinanziaria presieduta da Joseph Stiglitz, c'è il ministro dell'Economia dell'Ecuador Pablo Paez. La proposta di tribunale di arbitrato potrebebe essee cos' fatta propria dalla task Force...
Su un altro aspetto, continua il mistero sulla posizione negoziale dell'Ecuador nel negoziato commerciale con l'Unione Europea. L'annuncio fatto da organismi di stampa internazionali secondo il quale Correa avrebbe deciso di negoziare bilaterlamente con la UE, seguendo l'esempio di Colombia e Perù, e di fatto isolando la Bolivia e rompendo il fronte della Comunidad Andina de Naciones è stato seccamente smentito dallo stesso Correa che ha riaffermato la determinazione a non rompere la CAN ed a non perseguire un negoziato bilaterale. Nel frattempo i movimenti indigeni di tutto il paese hanno lanciato una serie di mobilitazioni per protestare e resistere contro le attività delle industrie estrattive, in primis quelle minerarie.

(ps. Secondo la nuova costituzione ecuadoriana anche chi scrive è ora di fatto cittadino ecuadoriano a tutti gli effetti, e potrà partecipare alle prossime elezioni presidenziali programmate per il primo semestre del prossimo anno. Almeno in questo caso non avrò dubbi)

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Ecuador propone crear tribunal internacional que investigue deuda externa

16:12 | Ecuador, que buscará no pagar la deuda externa que juzgue ilegítima, propuso la creación en la ONU de un tribunal de arbitraje internacional que investigue los préstamos otorgados a los países pobres, dijo el jueves el presidente Rafael Correa.


Quito, AFP

Ecuador, que buscará no pagar la deuda externa que juzgue ilegítima, propuso la creación en la ONU de un tribunal de arbitraje internacional que investigue los préstamos otorgados a los países pobres, dijo el jueves el presidente Rafael Correa.

“La contribución del gobierno de Ecuador (...) comienza por determinar la deuda externa ilegítima y promover, como ya lo hicimos en la ONU, la creación de un tribunal internacional de arbitraje de deuda soberana ” , afirmó el mandatario.

Correa planteó la propuesta al anunciar que buscará no pagar la deuda comercial externa, que suma al momento 3 860 millones de dólares en bonos, apoyado en una auditoría dispuesta por el gobierno que detectó ilegalidades en su contratación.

El mandatario agregó que se requiere una instancia jurídica independiente ya “que los países endeudados siguen acudiendo al FMI, es decir, a un representante de los acreedores” .

“Felizmente el Fondo Monetario Internacional (FMI) ya tiene sus días contados por decisión de sus mismos socios mayoritarios ” , declaró Correa, quien expulsó en su momento al representante del Banco Mundial en Ecuador acusándolo de intento de chantaje.

El presidente propuso igualmente a los países deudores “concertar las acciones” para “redefinir el criterio de sustentabilidad del servicio” de crédito externo.

Disarmo nucleare ora. Subito.

La questione nucleare nel nostro paese sta riprendendo vigore, in seguito alla decisione del governo di rilanciare l’energia atomica come volano di sviluppo, e per tentare di risolvere le gravi inadempienze verso gli impegni presi con il Protocollo di Kyoto. La questione nucleare oggi fornisce l’occasione per il rilancio di un movimento capillare che chieda con forza, a poco più di un anno dalla Conferenza delle Parti della Convenzione ONU sui Cambiamenti Climatici di Copenhagen, una netta inversione di rotta nelle politiche energetiche e di sviluppo del paese. Nucleare civile e militare sono però due facce della stessa medaglia. A tal riguardo vale la pena di rammentare che parallelamente al negoziato sul clima, si stanno sviluppando altri importanti appuntamenti, quello del 60esimo aniversario della NATO e quello della Conferenza per la Revisione del Trattato di NonProliferazione nucleare che si dovrebbe tenere nel 2010. Un trattato fortemente indebolito nell’ultima conferenza del 2005 dalla posizione statunitense volta a dar priorità all’aspetto della non-proliferazione rispetto a quello del disarmo e che deve invece restare la pietra angolare delle politiche sul disarmo e la nonproliferazione. In questo anche l’Italia dovrà svolgere la sua parte. In quanto membro della NATO, ma anche forte sostenitrice del Trattato di Nonproliferazione, l’Italia dovrà impegnarsi a sciogliere una volta per tutte quell’ambiguità di fondo che permette la presenza di 90 bombe atomiche statunitensi nelle basi di Ghedi ed Aviano revocando quell’accordo di condivisione nucleare, in virtù del quale potrebbe diventare un paese nucleare, e quindi responsabile delle conseguenze derivanti dall’uso dell’arma atomica. Dovrà poi rivedere le proprie strategie militari per escludere progressivamente l’opzione militare e sostenere – come raccomandato da una coalizione di paesi coordinati dalla Nuova Zelanda - la conclusione di una Convenzione sul Disarmo Nucleare. Anche le amministrazioni locali potranno svolgere la loro parte, sottoscrivendo fin d’ora il Protocollo di Hiroshima e Nagasaki proposti dai sindaci delle due citta martiri. Per questo la campagna "Un futuro senza Atomiche" rilancia le iniziative in sostegno alla legge di iniziativa popolare , depositata in Parlamento alla fine della scorsa legislatura, al fine di dichiarare l’Italia paese libero da armi nucleari. Il 27 novembre prossimo, a pochi giorni dall’assemblea del 24 novembre prossimo nella quale verrà annunciato il lancio delle iniziative contro il nucleare civile, la campagna terrà un incontro pubblico alla Camera per costituire un gruppo di contatto in Parlamento che possa sostenere la doscussione della legge. Mai come ora è necessario tracciare una linea rossa invalicabile, mai come ora il tema del disarmo nucleare è di forte rilevanza e deve essere centrale per chiunque crede nella costruzione della pace attraverso la forza della politica e della diplomazia. Una vocazione irrinunciabile per la nuova sinistra nel nostro paese.

Francesco Martone - membro del Consiglio Internazionale di Parliamentarians for Nonproliferation and Nuclear Disarmament (www.pnnd.org)
Lisa Clark portavoce campagna Un Futuro senza Atomiche (www.unfuturosenzatomiche.org)

mercoledì 19 novembre 2008

Dopo il G20 - la posizione del Transnational Institute

Statement on the G-20 Summit on the Financial Crisis, 15 November, 2008

November 18th, 2008 · No Comments

By the Transnational Institute Working Group on the Global Financial and Economic Crisis

The summit of a selective group of 20 widely diverse countries meeting in Washington moved the discussion of a new global financial architecture a step further, but it was a baby step, not the giant leap that is urgently needed not only to reverse the financial crisis but also to restructure fundamentally the global financial and economic systems. Why was there so little progress?

First, George Bush, representing the country with the largest responsibility for the global crisis, is the lamest of lame ducks. He could not commit his successor to any real course of action. His insistence on free markets reflects a dangerous and outmoded ideology with regard to financial regulation – abundantly demonstrated by his speech prior to the G20 meeting convened in which he re-visited the ideas that are the source of the worst worldwide financial crisis of the past 90 years. These outmoded and discredited ideas were included, unfortunately, in the G20 Communiqué.

Second, this meeting – sometimes called Bretton Woods II - was so hastily put together that unlike Bretton Woods I, its principal outcome was merely to reveal the fault lines of the debate, defined by the U.S. and European positions, although not that of Great Britain. The Europeans, led by president Nicholas Sarkozy of France, argued that since the 1980s, finance has become a quintessentially global phenomenon with money and credit washing across borders. Financial entities are thus able to exploit the inability of nation states to tax or regulate them effectively. Consequently, the Europeans call for a new global financial architecture that starts with, and gives primacy to, new cross-border global financial regulatory authorities. These global institutions are not now in place, must be constructed, and should be the G20’s core project for the immediate future. The Europeans note that existing international regulatory institutions, like the Basel Committee on Banking Supervision and the Financial Stability Forum, have very limited membership, cannot issue binding standards and rules, are heavily influenced by the financial lobby, and have proven to be totally inadequate both in predicting the financial crisis and in acting to stem it.

The United States’ counter-argument rests on the nation state, locates the primacy of regulatory authority in national governments, and adds new, cross-border forms of transnational collaboration and co-ordination. It starts with existing national regulatory regimes, upgrades them considerably, and expands them to encompass new financial instruments and institutions heretofore unregulated. The North Americans argue that this system offers the best tools for the broadest possible political control because it is rooted in national governments – their executives and parliaments, which are themselves subject to popular oversight, however imperfect. Behind these arguments, however, lie both ideology and the desire to protect the U.S.’s and UK’s financial sectors’ competitiveness as global financial industry centres.

The G20 Communiqué avoids this debate and attempts to diminish the distance between the U.S. and European positions. Several other fault lines emerged at the G20 meeting. Europe wants to go faster, broader, and deeper with new regulations than the U.S. and wants more co-ordination of policy intervention. The weakness of the G20 Communiqué also indicates that governments are paying more attention to the interests of their financial lobbies than to the interests and urgent needs of their own citizens and citizens worldwide.

Pushing all these divisions into the future and giving the new U.S. administration the necessary space to formulate its own positions, the G20 limited its scope to some broad general principles and an action plan for the next four and a half months that includes only measures that should have been taken long ago to correct the most obvious gaps in transparency and regulation. Whether or not these meagre measures are implemented will depend mainly on how aggressive civil society is in holding the G20 to their limited commitments.

No set of basic but effective principles, guidelines and criteria is yet on the official agenda. We offer four that should be minimum demands in exchange for the unprecedented taxpayer bailouts:

  • Total transparency – all financial instruments and all financial institutions to report fully on their activities and this information made available to the public;
  • A 10 percent rule – all financial instruments require a minimum 10 percent collateral, capital reserves in order to eliminate the uninhibited leveraging (sometimes only 1 dollar actually held for every $30-$40 lent to borrowers) that is a major source of the meltdown;
  • All current and future financial instruments should be brought under the umbrella of financial regulation;
  • New national and global regulatory systems to be subject to the widest and deepest democratic participation, including oversight, monitoring, and access to decision-making.

In our view, the global financial implosion is but one of several converging crises caused by government neglect and an ideology celebrating an individualist- based, free-for-all market fundamentalism over the need for civic responsibility. This irresponsible neglect has permeated governing regimes at every level: local, national, regional, and global. Consequently, two other enormous global problems now worsen and converge with the financial crisis: the planetary climate crisis and inequality within and across nations. The same political recklessness that has brought us financial default is also guilty with regard to the global climate and inequality crises of the 21st century.

Furthermore, the financial crisis has now become a crisis of the real economy. The private financial institutions receiving taxpayer bailouts should be obliged to lend to the real economy in order to ease the transformation towards an environmentally robust economy. They must be prevented from further indulging in exotic financial instruments that have greatly contributed to the current worldwide financial meltdown. We support the call for a minimum fiscal stimulus of at least 2 percent of GDP. The earlier anaemic attempts at fiscal stimulus of the G7 were far too small to have any effect.

A more comprehensive integrated set of proposals is therefore needed:

  • Closure of tax havens in countries of convenience and attention to other forms of tax evasion that allow global companies and wealthy individuals to avoid their statutory tax obligations in their countries of origin;
  • A commitment that no country be allowed to become insolvent;
  • Refusal of the nearly bankrupt and discredited IMF as the global dispenser of funds. The failed IMF ideology contributed to this global financial crisis in the first place;
  • Integration of southern countries as well as experts from NGOs and other parts of civil society into all discussions of a new global financial architecture;
  • Introduction of taxes on cross-border financial transactions – such as the Tobin Tax – that are new sources of tax revenues for government to pay for the financial bailouts, dampen financial speculation, and slow down the turnover of financial transactions in the global economy;
  • Limits to the riskiness of any new financial product or instrument, for example, by public governmental certification of a risk assessment of the product before it comes on market;
  • Suspension of the financial services negotiations within the GATS section of the Doha Round on trade liberalization. The deregulation and anti-regulation orientation of these negotiations is totally at odds with the premises of the G20 discussions for re-regulation and new regulation of the global financial sector;
  • Public disclosure of all lobbyists before national and global regulatory authorities;
  • Limits on excess compensation of top level management of financial institutions and elimination of forms of incentive compensation that reward excessively risky behaviour;
  • Involvement of global institutions other than the International Financial Institutions discussions concerning the new global financial architecture, including the UN and its appropriate agencies.

The world is not undergoing a crisis in the system but a crisis of the system in which the real economy has become subservient to the financial economy. All solutions must be based on this underlying truth. Nothing less than a Global Round on a Reconstructed Economic Order is required to address an integrated reform and restructuring of the global economy – including finance, trade, investment, production, corporate codes of conduct, labour standards, systemic risk and environmental regulation. The efforts of the G20 are puny compared to the comprehensive and serious process appropriate to the scale of these converging crises of the 21st century.


by Susan George, Barry K. Gills, Myriam Vander Stichele and Howard M. Wachtel for the TNI Working Group on the Global Financial and Economic Crisis, Amsterdam, 17 November
2008

per saperne si più vai su www.tni.org

giovedì 13 novembre 2008

Costruire la Sinistra

Costruire la Sinistra: il tempo è adesso

Le ragazze e i ragazzi che in questi giorni portano la loro protesta in tutte le piazze del paese per una scuola che li aiuti a crearsi un futuro ci dicono che la speranza di un’altra Italia è possibile. Che è possibile reagire alla destra che toglie diritti e aumenta privilegi. Che è possibile rispondere all’insulto criminale che insanguina il Mezzogiorno e vuole ridurre al silenzio le coscienze più libere. Che è possibile dare dignità al lavoro, spezzando la logica dominante che oggi lo relega sempre più a profitto e mercificazione. Che è possibile affermare la libertà delle donne e vivere in un paese ove la laicità sia un principio inviolabile. Che è possibile lavorare per un mondo di pace. Che è possibile, di fronte all’offensiva razzista nei confronti dei migranti, rispondere - come fece Einstein - che l’unica razza che conosciamo è quella umana. Che è possibile attraverso una riconversione ecologica dell’economia contrastare i cambiamenti climatici, riducendone gli effetti ambientali e sociali. Che è possibile, dunque, reagire ad una politica miserabile la quale, di fronte alla drammatica questione del surriscaldamento del pianeta, cerca di bloccare le scelte dell’Europa in nome di una cieca salvaguardia di ristretti interessi.
Cambiare questo paese è possibile. A patto di praticare questa speranza che oggi cresce d’intensità, di farla incontrare con una politica che sappia anche cambiare se stessa per tradurre la speranza di oggi in realtà. E’ questo il compito primario di ciò che chiamiamo sinistra.
Viviamo in un paese e in un tempo che hanno bisogno di un ritrovato impegno e di una nuova sinistra, ecologista, solidale e pacifista. La cronaca quotidiana dei fatti è ormai una narrazione impietosa dell’Italia e della crisi delle politiche neoliberiste su scala mondiale. Quando la condizione sociale e materiale di tanta parte della popolazione precipita verso il rischio di togliere ogni significato alla parola futuro; quando cittadinanza, convivenza, riconoscimento dell’altro diventano valori sempre più marginali; quando le donne e gli uomini di questo paese vedono crescere la propria solitudine di fronte alle istituzioni, nei luoghi di lavoro – spesso precario, talvolta assente – come in quelli del sapere; quando tutto questo accade nessuna coscienza civile può star ferma ad aspettare. Siamo di fronte ad una crisi che segna un vero spartiacque. Crollano i dogmi del pensiero unico che hanno alimentato le forme del capitalismo di questi ultimi 20 anni. Questa crisi rende più che mai attuale il bisogno di sinistra, se essa sarà in grado di farsi portatrice di una vera alternativa di società a livello globale.
E’ alla politica che tocca il compito, qui ed ora, di produrre un’idea, un progetto di società, un nuovo senso da attribuire alle nostre parole. Ed è la politica che ha il compito di dire che un’alternativa allo stato presente delle cose è necessaria ed è possibile. La destra orienta la sua pesante azione di governo – tutto è già ben chiaro in soli pochi mesi – sulla base di un’agenda che ha nell’esaltazione persino esasperata del mercato e nello smantellamento della nostra Costituzione repubblicana i capisaldi che la ispirano. Cosa saranno scuola e formazione, ambiente, sanità e welfare, livelli di reddito e qualità del lavoro, diritti di cittadinanza e autodeterminazione di donne e uomini nell’Italia di domani, quel domani che è già dietro l’angolo, quando gli effetti di questa destra ora al governo risulteranno dirompenti e colpiranno dritto al cuore le condizioni di vita, già ora così difficili, di tante donne e uomini?
E’ da qui che nasce l’urgenza e lo spazio – vero, reale, possibile, crescente – di una nuova sinistra che susciti speranza e chiami all’impegno politico, che lavori ad un progetto per il paese e sappia mobilitare anche chi è deluso, distratto, distante. Una sinistra che rifiuti il rifugio identitario fine a sé stesso, la fuga dalla politica, l’affannosa ricerca dei segni del passato come nuovi feticci da agitare verso il presente. Una sinistra che assuma la sconfitta di aprile come un momento di verità, non solo di debolezza. E che dalle ragioni profonde di quella sconfitta vuole ripartire, senza ripercorrerne gli errori, le presunzioni, i limiti. Una sinistra che guardi all’Europa come luogo fondamentale del proprio agire e di costruzione di un’alternativa a questa globalizzazione. Una sinistra del lavoro capace di mostrare come la sua sistematica svalorizzazione sia parte decisiva della crisi economica e sociale che viviamo.
Per far ciò pensiamo a una sinistra che riesca finalmente a mescolare i segni e i semi di più culture politiche per farne un linguaggio diverso, un diverso sguardo sulle cose di questo tempo e di questo mondo. Una politica della pace, non solo come ripudio della guerra, anche come quotidiana costruzione della cultura della non violenza e della cooperazione come alternativa alla competizione. Una sinistra dei diritti civili, delle libertà, dell’uguaglianza e delle differenze. Una sinistra che non sia più ceto politico ma luogo di partecipazione, di ricerca, di responsabilità condivise. Che sappia raccogliere la militanza civile, intellettuale e politica superando i naturali recinti dei soggetti politici tradizionali. E che si faccia carico di un'opposizione rigorosa , con l’impegno di costruire un nuovo, positivo campo di forze e di idee per il paese. La difesa del contratto nazionale di lavoro, che imprese e governo vogliono abolire per rendere più diseguali e soli i lavoratori e le lavoratrici è per noi l’immediata priorità, insieme all’affermazione del valore pubblico e universale della scuola e dell’università e alla difesa del clima che richiede una vera e propria rivoluzione ecologica nel modo di produrre e consumare.
Lavorare da subito ad una fase costituente della sinistra italiana significa anche spezzare una condizione di marginalità – politica e persino democratica – e scongiurare la deriva bipartitista , avviando una riforma delle pratiche politiche novecentesche.
L’obiettivo è quello di lavorare a un nuovo soggetto politico della sinistra italiana attraverso un processo che deve avere concreti elementi di novità: non la sommatoria di ceti politici ma un percorso democratico, partecipativo, inclusivo. Per operare da subito promuoviamo l’associazione politica “Per la Sinistra”, uno strumento leggero per tutti coloro che sono interessati a ridare voce, ruolo e progetto alla sinistra italiana, avviando adesioni larghe e plurali.
Fin da ora si formino nei territori comitati promotori provvisori, aperti a tutti coloro che sono interessati al processo costituente , con il compito di partecipare alla realizzazione, sabato 13 dicembre, di una assemblea nazionale. Punto di partenza di un processo da sottoporre a gennaio a una consultazione di massa attorno a una carta d’intenti, un nome, un simbolo, regole condivise. Proponiamo di arrivare all'assemblea del 13 dicembre attraverso un calendario di iniziative che ci veda impegnati, già da novembre, a costruire un appuntamento nazionale sulla scuola e campagne sui temi del lavoro e dei diritti negati, dell’ambiente e contro il nucleare civile e militare e per lo sviluppo delle energie rinnovabili.
Sappiamo bene che non sarà un percorso semplice né breve, che richiederà tempo, quel tempo che è il luogo vero dove si sviluppa la ricerca di altri linguaggi, la produzione di nuova cultura politica, la formazione di nuove classi dirigenti. Una sinistra che sia forza autonoma – sul piano culturale, politico, organizzativo – non può prescindere da ciò. Ma il tempo di domani è già qui ed è oggi che dobbiamo cominciare a misurarlo. Ecco perché diciamo che questo nostro incontro segna, per noi che vi abbiamo preso parte, la comune volontà di un’assunzione individuale e collettiva di responsabilità. La responsabilità di partecipare a un percorso che finalmente prende avvio e di voler contribuire ad estenderlo nelle diverse realtà del territorio, di sottoporlo ad una verifica larga, di svilupparlo lavorando sui temi più sensibili che riguardano tanta parte della popolazione e ai quali legare un progetto politico della sinistra italiana, a cominciare dalla pace, dall’equità sociale e dal lavoro, dai diritti e dall’ambiente alla laicità.
Noi ci impegniamo oggi in questo cammino. A costruirlo nel tempo che sarà richiesto. A cominciare ora.

Roma, 7 novembre 2008


Primi firmatari:

Mario Agostinelli, Vincenzo Aita, Ritanna Armeni, Alberto Asor Rosa, Angela Azzaro, Fulvia Bandoli, Katia Belillo, Giovanni Berlinguer, Piero Bevilacqua, Jean Bilongo, Maria Luisa Boccia, Luca Bonaccorsi, Sergio Brenna, Luisa Calimani, Antonio Cantaro, Luciana Castellina, Giusto Catania, Paolo Cento, Giuseppe Chiarante, Raffaella Chiodo, Marcello Cini, Lisa Clark, Maria Rosa Cutrufelli, Pippo Delbono, Vezio De Lucia, Paolo De Nardis, Loredana De Petris, Elettra Deiana, Carlo De Sanctis, Arturo Di Corinto, Titti Di Salvo, Daniele Farina, Claudio Fava, Carlo Flamigni, Enrico Fontana, Marco Fumagalli, Luciano Gallino, Giuliano Giuliani, Umberto Guidoni, Leo Gullotta, Margherita Hack, Paolo Hutter, Francesco Indovina, Rosa Jijon, Francesca Koch, Wilma Labate, Simonetta Lombardo, Francesco Martone, Graziella Mascia, Gianni Mattioli, Danielle Mazzonis, Gennaro Migliore, Adalberto Minucci, Filippo Miraglia, Marco Montemagni, Serafino Murri, Roberto Musacchio, Pasqualina Napoletano, Diego Novelli, Alberto Olivetti, Moni Ovadia, Italo Palumbo, Giorgio Parisi, Luca Pettini, Elisabetta Piccolotti, Paolo Pietrangeli, Fernando Pignataro, Bianca Pomeranzi, Alessandro Portelli, Alì Rashid, Luca Robotti, Massimo Roccella, Stefano Ruffo, Mario Sai, Simonetta Salacone, Massimo L. Salvadori, Edoardo Salzano, Bia Sarasini, Scipione Semeraro, Patrizia Sentinelli, Massimo Serafini, Tore Serra, Giuliana Sgrena, Aldo Tortorella, Gabriele Trama, Mario Tronti, Nichi Vendola

mercoledì 5 novembre 2008

Il South Centre e le proposte di riforma delle istituzioni finanziarie internazionali

Il South Centre, think-tank internazionale che esprime le posizioni politiche dei G77, ha di recente pubblicato un comunicato nel quale delinea una serie di misure da intraprendere per costruire una Bretton Woods II efficace, efficiente e rappresentativa.
La prima: inclusività. Il dibattito non può essere relegato a consessi ristretti come i G8 o g20 ma deve svolgersi nell'ambito delle Nazioni Unite, facendo tesoro del processo che si innescherà all'indomani della Conferenza di Doha su Finanza per lo Sviluppo del novembre prossimo.
La seconda: intervenire per regolamentare la finanza globale attraverso meccanismi di supervisione e regolamentazione
La terza: un rilancio del Fondo Monetario Internazionale che dovrà recuperare la sua mission originaria creando sulla base dei Diritti Speciali di Prelievo una valuta globale di riserva. L'FMI poi dovrà essere il centro del coordinamento delle politiche finanziarie globali essendo maggiormente rappresentativo rispetto al G7. L'FMI dovrà poi essere in grado di esborsare rapidamente fondi di emergenza senza condizionalità rigide per mitigare squilibri nella bilancia dei pagamenti con l'estero o rapidi deflussi di capitali.
La quarta: un pacchetto di politiche macroeconomiche globali finanziato da un aumento dell'aiuto pubblico allo sviluppo
la quinta: una corte internazionale di arbitrato sul debito estero
La sesta: un rafforzamento del ruolo delle istituzioni finanziarie regionali, quali la Iniziativa di Chiang Mai o il Fondo di Riserva Latinoamericano, con il coordinamento del FMI.

Per il testo integrale www.southcentre.org

lunedì 3 novembre 2008

Ancora materiali sulla crisi finanziaria e sulle possibili soluzioni

Per una visione d'insieme della crisi finanziaria, le sue conseguenze e le possibili soluzioni vi consiglio di consultare il sito www.globalissues.org

Il Brettonwoodsproject inglese ha di recente postato in rete i materiali prodotti e le relazioni degli ospiti di un seminario organizzato da varie organizzazioni nongovernative inglesi sempre sul tema della riforma delle istituzioni finanziarie internazionali. www.brettonwoodsproject.org



Buona lettura

venerdì 31 ottobre 2008

Il Tribunale permanente dei popoli, e le multinazionali europee in America Latina

El Tribunal Permanente de los Pueblos, Enlazando Alternativas y la ruta hasta la centralidad de los derechos de los pueblos frente a los intereses de las empresas transnacionales

Presentación al Seminario sobre Transnacionales, Barcelona, 8 de Noviembre 2008
organizado por el Observatorio de Deuda y Globalizaciòn

Francesco Martone


Los innumerables procesos de resistencia al modelo neoliberal en América Latina, y en alguna medida en la Unión Europea de los pueblos y las comunidades locales han abierto un espacio de debate, articulación y propuesta que va mas allá de los casos específicos.

En primer lugar, han llevado al fortalecimiento de una red bi-regional de movimientos sociales europeos latinoamericanos, que se basa en un nuevo modelo de cooperación que va mas allá de la simple solidaridad. Se trata en verdad de perseguir un modelo horizontal, de intercambio de experiencias y de construcción de una plataforma política común frente a los acuerdos de libre comercio, a la penetración del capital transnacional de origen europeo, y a las políticas de la “Europa Global”.

Al mismo tiempo la convergencia de este proceso con aquello del Tribunal Permanente de los Pueblos, con sus sesiones especificas y audiencias sobre las responsabilidades de las Empresas Transnacionales (ETN) europeas en América Latina, contribuye a una nueva fase del proceso de resistencia: de la denuncia a la elaboración de nuevos paradigmas jurídicos y legales para afirmar la centralidad de los derechos de los pueblos frente al modelo económico neoliberal.

Este informe trata de abordar los retos y las oportunidades adelantadas por el trabajo y las elaboraciones del Tribunal Permanente de los Pueblos en la construcción de nuevos marcos jurídicos y de derecho internacional, y al mismo tiempo analizar la pertinencia de este trabajo con los procesos institucionales y de los movimientos en el tema de responsabilidad corporativa y derechos humanos.


a. El Tribunal Permanente de los Pueblos: orígenes y atribuciones



El Tribunal Permanente de los Pueblos nace en el 1979, como consecuencia del pedido hecho en el curso de la tercera sesión del Tribunal Russell 2 sobre América Latina, para constituir un espacio donde los pueblos puedan tomar la palabra, encontrarse, y representar sus casos del violaciones de derechos de los pueblos.

A más de ser un Tribunal de opinión, emanación directa de la Fundación Internacional Lelio Basso, el TPP tiene un carácter permanente, y por eso ha podido acompañar por un largo espacio de tiempo las etapas fundamentales en el proceso de liberación de los pueblos.

No tiene una agenda, ni prioridades preconstruidas, pero deriva su programa de trabajo de los pedidos de los movimientos, organizaciones ciudadanas, organizaciones populares, que necesitan su intervención para poner en el centro del debate cuestiones que no encuentran espacio en las agendas de los gobiernos, o se encuentran con grave retrazo.

El Tribunal por lo tanto, tiene varias tareas: abrir un espacio de denuncia, brindar herramientas para la lucha de afirmación de los derechos, estimular los gobiernos y la comunidad internacional para que pongan al centro de sus acciones los derechos fundamentales, e identificar los retrasos, o los vacíos en la elaboración del derecho internacional, proponiendo instrumentos y elaboraciones nuevas o alternativas.

En los últimos años el Tribunal se ha ocupado de estudiar, profundizar y abordar el tema de la relación entre los derechos de los pueblos y la economía global, entendida como nueva forma de colonización. En este sentido esta área de trabajo tiene una continuidad con sus orígenes, que se encuentran en la Declaración de Argel sobre la autodeterminación de los Pueblos, proclamada hace 30 años.

Entre las sesiones y audiencias hechas en estos últimos anos, se pueden evidenciar aquellas que se ocupan de Colombia (TPP Capitulo Colombia), sobre las Filipinas, la participación a un Tribunal internacional sobre el Banco Mundial, la sesión sobre Unión FENOSA en Nicaragua, y mas recientemente, la audiencia de Guatemala sobre transnacionales en América Central.



b. El trabajo del Tribunal en el marco de la red Enlazando Alternativas



Los movimientos europeos y latinoamericanos que son parte de la red bi-regional Enlazando Alternativas , apelaron al Tribunal antes de la sesión EA2 organizada paralelamente a la Cumbre Euro-Latinoamericana de los Jefes de Estado y de Gobierno de Viena, Mayo 2006.

El objetivo del pedido al Tribunal era examinar una serie de casos de empresas transnacionales europeas en varios países de América Latina para identificar las bases y la existencia de motivaciones suficientes para convocar una sesión oficial del Tribunal. Como está señalado en la declaración de Viena, el papel del Tribunal es:

“ to investigate the increasingly dominant role of European TNCs in strategic areas, such as services, infrastructure, petroleum, water, finance and telecommunications” EA2 “particularly asked for an examination of the threats thereby posed to political sovereignty, development policy, economic autonomy, environmental sustainability and democratisation in Latin America.”

El Tribunal reveló casos difusos de violación de derechos fundamentales entre ellos: violación al derecho al acceso a los servicios públicos esenciales; violación al derecho a la tierra, violación al derecho a la soberanía y seguridad alimentaría, violación de los derechos laborales, violación de los derechos de los pueblos indígenas, violación de los derechos ambientales y acumulación de deuda ecológica, y violación de los derechos civiles y políticos .

Por todos estos factores, el Tribunal concluyó que:

“ la complejidad y la seriedad de las violaciones de derechos necesitan de una investigación más profunda con el objetivo de desarrollar nuevas herramientas legales internacionales, que puedan responsabilizar las ETNs”.

En Viena, se produzco entonces un proceso de articulación más amplia, de análisis, puesta en redes que juntaban comunidades en resistencia, abogados y activistas para desarrollar un marco de referencia sólido y para armar la sesión del Tribunal que se hizo en Lima en ocasión de la Cumbre de los Pueblos, paralelamente a la Cumbre empresarial Euro-Latinoamericana y aquélla de los Jefes de Estado y de Gobierno, en Mayo 2008.


c. La sentencia de Lima


En el conjunto de las sesiones de Viena y Lima, el Tribunal analizó 21 casos de empresas en 12 sectores , cuyo resultado fue la identificación de impresionantes efectos negativos, que son paradigmáticos de la conducta de las empresas transnacionales, y de la alineación de responsabilidad por parte de los Estados:

“Las actividades de las ETNs se pueden desarrollar en condiciones de total permisividad y/o impunidad por parte de las autoridades públicas responsables (en los países de origen de las ETN y/o en los países donde estas actúan”.

Vale la pena de reiterar que el trabajo del Tribunal tiene varios sentidos. Uno es seguramente abrir un espacio de denuncia pública, internacional de violaciones que afectan los derechos de los pueblos y de comunidades impactadas, el otro es identificar los límites en el derecho internacional e imaginar opciones adicionales o alternativas al cuadro normativo actual. Otro sentido, es mas político, y se refiere al tema más general de la relación entre derechos de los pueblos y economía global.

Objetivos generales del proceso del TPP que sigue paralelamente a las actividades y campañas de la red bi-regional Enlazando Alternativas, que han sido debatidas en ocasión de la ultima reunión de la red en el Forum Social Europeo de Malmoe, Suecia, en octubre 2008, son entonces:


“* Denunciar las innumeras violaciones a los derechos humanos de todas las generaciones por parte de las ETN europeas y a partir de la acumulación de evidencias de todos esos casos, sectores y países representados denunciar el carácter sistémico y estructural del régimen de poder de las corporaciones transnacionales;

* Denunciar todo un sistema de ‘legalidades’, espacios e intereses dominantes que son claramente injustos y amplían cada vez más el avance de las ETN (Tractados de Libre Comercio, Acuerdos Bilaterales de Inversiones, Organización Mundial del Comercio, Banco Mundial, Banco Interamericano de Desarrollo, Fondo Monetario Internacional, Banco Europeo de Inversiones, CIADI);

* Avanzar hacia una jurisprudencia y normas vinculantes desde la perspectiva de los derechos de los individuos y los pueblos, y establecimiento de un objetivo a largo plazo, que el enjuiciamiento moral sea un paso previo a procesos judiciales ordinarios contra transnacionales por sus crímenes”.


En lo que se refiere al último aspecto, una propuesta de como reconstruir una práctica de responsabilidad y afirmación de los derechos fundamentales varía según del eje y del criterio de análisis del problema.

Hay los que piensan que el sector privado puede ser portador de derechos, a condición que no se introduzcan normas vinculantes para su conducta, pues esto podría representar una violación de las leyes del libre mercado.

Hay los que se imaginan una recuperación del poder estatal, del control público sobre la esfera del mercado, y otros más que imaginan formas híbridas.

El tema es muy pertinente hoy frente a la crisis financiera, y a como los neoliberales mismos están llamando con urgencia a un papel protagónico del Estado, para rescatar los bancos y los inversionistas especulativos. Así que la intervención del Estado en este caso no sirve para asegurar el bien común, pero lo confunde con el interés de sobrevivencia de los bancos, garantizando los derechos de los mismos actores que han causado la crisis, y socializando los gastos sobre las víctimas primarias. Se está actuando de alguna manera una transición del “corporate welfare” al “financial welfare”.

El primer tema es entonces tener bien claro cual es el punto de partida de nuestro análisis. O sea, estamos hablando de empresas? Si este fuera el caso lo que nos debería preocupar es identificar normas, estándares, etc. para que estas empresas actúen bien o no hagan daño. (“do no harm, do good”)

O se está hablando del Estado, así que el discurso seria lo de analizar el papel del Estado, la devolución de poderes soberanos al mercado y al sector privad? En este caso lo que nos preocuparía es de proponer soluciones puramente institucionales al problema.


O estamos metiendo al centro los derechos, y nuestro punto de partida y de llegada es la identificación de los vacíos en la afirmación de los derechos fundamentales, y propuestas para fortalecerlos. En una palabra, el sector privado y el Estado nos interesan solo en forma secundaria, como co-responsables o actores que juegan un papel en la afirmación de los derechos. Por último lo que nos importa no es tanto reformar la empresa, o fortalecer el Estado sino garantizar los derechos fundamentales de los pueblos.

En realidad el tema principal es lo de rearticular un nuevo espacio público donde se pueden desarrollar y fortalecer los derechos.

Por eso es útil hacer referencia al dictamen de Lima, cuando aborda el tema de la transformación del papel del Estado. El TPP denuncia la coincidencia del interés privado con el interés público, la connivencia y la complicidad de los estados y oligarquías nacionales, el abandono de la idea de un proyecto propio porque los Estados aceptan que los intereses empresariales coinciden con el interés general.

En este sentido utilizar como oportunidad el tema de la responsabilidad de las empresas sirve a dos niveles políticos.

Por primero a analizar las dinámicas de progresiva debilitación de la esfera publica nacional y internacional, la alineación de competencia normativa y jurídica de los estados, en términos activos, (a través de la adopción de políticas de liberalización, privatización, desregulación, “responsabilidad de acción”) en términos omisivos (impunidad, corrupción), o en términos represivos (criminalizacion de los movimientos sociales, represión sindical, adopción de leyes que cierran espacios de articulación democrática).

Un caso paradigmatico de estas dinamicas es Colombia. En el dictamen final de la sesion del TPP capitulo Colombia, “Empresas transnacionales y derechos de los Pueblos en Colombia, 2006 – 2008”, hecho en Bogotà en Julio 2008, el TPP afirma que:

”Colombia parece presentarse, en este sentido, como un verdadero laboratorio político institucional donde los intereses de los actores económicos nacionales e internacionales son plenamente defendidos a través del abandono por el Estado de sus funciones y de su deber constitucional de defensa de la dignidad y de la vida de una gran parte de la población, a la cual se aplica, como si de un enemigo se tratara, la doctrina de la seguridad nacional, en su versión colombiana”.


En ultima instancia, el trabajo de campañas sobre ETNs sirve a identificar estas dinámicas, para entender el impacto del neoliberalismo sobre el papel del Estado, y entender cuales son las partes buenas que se pueden utilizar de lo que queda del Estado para rearticular una nueva esfera pública de justicia y responsabilidad.

Al mismo tiempo este ejercicio servirá a reclamar una recuperación del papel protagónico del Estado, a imaginar, construir nuevas formas de representación, responsabilización, y herramientas de trabajo, para la defensa y la promoción de los derechos fundamentales frente al sector privado y no sólo.

En este sentido, el desafío es mas importante por el futuro. En realidad se trata de imaginar formas nuevas, participativas, híbridas de la esfera pública, que incluya también un papel protagónico de los diferentes “right holders” (los que tienen derechos), en un proceso de construcción que no tiene modelos preconstituidos pero que se desarrolla paralelamente a nivel teórico y con las prácticas de lucha y resistencia. Y por eso las diferentes experiencias en América Latina, de resistencia, oposición a la privatización, de manejo comunitario, de autogestión, pueden brindar ejemplos interesantes que salen si da una elaboración teórica pero fortalecida y caracterizada por la practica de búsqueda de alternativas y de resistencia.

Esto puede definirse como el sentido mas “político” del trabajo del Tribunal y de su interacción con la Red Enlazando Alternativas.


d. El debate internacional sobre responsabilidad corporativa y el proceso del Tribunal



Adicionalmente a lo que se ha señalado anteriormente, hay que anotar cómo el problema de la relación entre sector privado, Estado y derechos fundamentales se explicita también a nivel de esfera transnacional.

Y eso es consecuencia de la estructura misma de las Empresas, por la globalización de la economía, y por los factores que contribuyen a la transformación del papel del Estado, así como por las políticas económicas y comerciales impuestas por las Instituciones Financieras Internacionales y los organismos internacionales.

En este sentido la Sentencia del Tribunal identifica como corresponsales de la transformación del papel del Estado, las políticas de la UE, que utiliza las negociaciones bilaterales de los Acuerdos de Asociación, (AdAs) para avanzar la agenda de sus ETNs, (la plataforma política y comercial de Global Europe), y de los otros organismos como la OMC, las IFIs.

El trabajo del Tribunal asume entonces una importancia adicional en el debate presente sobre las responsabilidades de las empresas, siendo su elaboración relevante también en el debate que se desarrolló y que está siguiendo sobre las Normas sobre ETNs y derechos humanos.

La misma sentencia del TPP Capitulo Colombia se refiere a este nivel de trabajo, afirmando que:

“Las ETN actúan a nivel global y por lo tanto requieren una respuesta global. La respuesta a nivel de Estado es indispensable, pero no suficiente. El derecho internacional de los derechos humanos, las Constituciones y las normas de tutela de las personas y comunidades deben prevalecer para evitar que las ETN violen los derechos de la humanidad entera”


Será entonces útil para proponer una llave de lectura de cómo se está abordando el tema a nivel oficial, hacer referencia al trabajo a nivel de Naciones Unidas sobre derechos humanos y ETNs, en particular el Informe Ruggie, porque allí se encuentran elaboraciones que son pertinentes, aunque sea limitadas o criticables, al trabajo del Tribunal.

Principalmente, en este caso, el tema de nuestro interés es la relación entre responsabilidad de los Estados, y la de las empresas.

De alguna manera, Ruggie reconoce la necesidad de articular una redistribución de responsabilidades. Pero el problema es que en su informe final Ruggie rechaza cualquier posibilidad por las Naciones Unidas de adoptar Normas vinculantes por las ETNs.

El cuadro de referencia propuesto por Ruggie se articula en tres ejes, la
obligación del estado de proteger contra los abusos de derechos humanos cometidos por las empresas, la responsabilidad corporativa de respectar los derechos humanos, el acceso efectivo a medidas de remedio.

Entonces Ruggie hace una clara y explícita distinción entre las obligaciones de los estados frente a los derechos humanos y la responsabilidad limitada de las empresas. De este modo se aleja fuertemente de las Normas que aunque reconocen la responsabilidad de los Estados, formulaban una definición mas amplia y vinculante de la responsabilidad corporativa:

“Within their respective sphere of activity and influence, transnational corporations and other business enterprises have the obligation to promote, secure the fulfilment of, respect, ensure respect of and protect human rights (…).”

Ruggie introduce el concepto de “due diligence” o sea los pasos que las compañías deben seguir para ser concientes, prevenir y enfrentar impactos negativos a los derechos humanos. Tal proceso de “due diligence” incluye medidas como, una “política corporativa sobre derechos humanos”, evaluaciones sistemáticas del impacto de las actividades sobre derechos humanos , la integración de los derechos humanos en todas las actividades de la empresa, y un proceso de auditaría y monitoreo.

La distinción que Ruggie hace explícitamente es entre la “obligación del Estado de proteger” y la “responsabilidad corporativa de respectar” restringiendo así el plazo de las obligaciones de las empresas, limitando además el nivel de sus compromisos. El informe Ruggie en última instancia no va mas allá de reiterar el estatus quo del debate.

Como consecuencia de los limites representados en la propuesta de las Naciones Unidas, el trabajo del Tribunal tiene un impacto relevante en el debate internacional sobre responsabilidad de las empresas.

En la sentencia de Lima, el TPP reconoce que la responsabilidad de promover, respectar, garantizar, y hacer respectar los derechos humanos corresponde principalmente a los Estados. Eso pero no significa que las empresas no sean obligadas a cumplir con normas internacionales . En realidad, al lado de la obligación de las instituciones publicas, hay que subrayar la urgencia de dictar normas internacionalmente vinculantes para que “estas empresas apliquen en cualquier lugar los estándares de respecto de los derechos humanos, independientemente del país en el que operen”.

El TPP reconoce la

“flagrante responsabilidad de agentes o sectores privados como las ETNs que con su actuación (…) producen relevantes violaciones de derechos (…). Estos agentes deben responder por sus actos”. “Las ETNs DEBEN respeto a los regímenes legales de los Estados donde operan y todos los tratados internacionales ratificados por los países”.

Además el TPP identifica algunos mecanismos de impunidad como la utilización por parte de las empresas de códigos de conducta voluntarios

“que hacen que aquellas se sientan irresponsables frente al derecho positivo de los Estados y al Derecho internacional”.

Esta formulación representa un rechazo del principio de la “due diligence” formulado por Ruggie.



e. Desvelar la retórica



Toda la elaboración alternativa que se esta produciendo, como consecuencia del trabajo del Tribunal sobre el tema de la responsabilidad de empresa es fundamental para desmantelar la nueva retórica que considera a la empresa como actor de desarrollo.

Este discurso se está afirmando en particular en el marco del debate sobre la Financia para el Desarrollo, que culminará en la Cumbre de Doha, en noviembre próximo, cuando las Naciones Unidas harán un balance de los compromisos adquiridos hace 5 años en la Conferencia Financing for Development de Monterrey.

Leyendo el borrador de la declaración final de Doha se nota un fuerte énfasis en el papel del sector privado, de las inversiones privadas en la lucha contra la pobreza. La incapacidad de los Estados de respetar los compromisos de destinar el 0.7% de su PIB a la cooperación internacional abre así el espacio a nuevas fórmulas de compromiso de la empresa, a través del apoyo a las inversiones y/o a los “public private partnerships” (Partenariados Pùblico-Privados).

El tema está también al centro del debate en la próxima cumbre del G8, donde se está tratando de rearticular el concepto mismo de cooperación y de lucha a la pobreza. Bajo el pretexto de la falta de recursos financieros públicos frescos, se están manipulando el concepto y la práctica de cooperación, para incluir el sector privado y las empresas como actores primarios, al mismo nivel de los estados. De este modo se actuará la transformación de la empresa de actor de crecimiento a actor de cooperación. Por eso hoy, desmantelar la falsa retórica que se articula sobre empresas y responsabilidad de las misma sirve también a obstaculizar el proceso de privatización definitiva de la cooperación internacional.

En el caso específico de las políticas de la Unión Europea y su agenda negociadora comercial en los Acuerdos de Asociación con los países de América Latina, el trabajo del Tribunal sirve a desvelar los gastos sociales y ambientales actuales y posibles de una “corporatización” de las relaciones comerciales. Pues de atrás de la retórica del buen gobierno, de la afirmación del estado de derecho, y del desarrollo sostenible, la verdadera agenda europea esta informada por la estrategia de Global Europe. En sustancia se trataría de maximizar la competitividad y la penetración del sector privado europeo en los mercados extra-europeos, y al mismo tiempo aprovechar de los acuerdos bilaterales para ganar acceso a sectores estratégicos como los de los servicios públicos, de los recursos naturales, y de la infraestructura y de las inversiones. Todos temas que se quedaron afuera de la negociación en el marco de la OMC como resultado de la oposición de los países del Sur y de los movimientos sociales.


f. Retos y tareas futuras.


El trabajo del TPP sobre el tema de los derechos de los pueblos y la economía global seguirá con la intención de organizar una sesión conclusiva sobre las responsabilidades políticas de la Unión Europea en avanzar la agenda corporativa, con el objetivo de avanzar propuesta de instrumentos para juzgar y responsabilizar las instituciones comunitarias.

Al mismo tiempo, el Tribunal en su sesión de Lima articuló una serie di recomendaciones en su sentencia que pueden servir como hoja de ruta por las campañas europeas y latinoamericanas frente a la Europa Global, a las ETNs, y a los acuerdos de Asociación.

A nivel nacional, como ya pasó con el caso Thyssen Krupp en Brasil, la sentencia del Tribunal puede ser utilizada como instrumento de convocatoria y presión negociadora con la empresa. Al mismo tiempo el TPP identifica algunas medidas sobre las cuales las redes internacionales pueden concentrar su trabajo de presión. La primera es la de - proponer legislaciones de responsabilidad extraterritorial por las ETNs utilizando como ejemplo el ATCA (Alien Tort Claims Act) norteamericano, en los países de origen de las ETNs. Al mismo tiempo se propone de fortalecer las herramientas jurídicas y legales para proteger los derechos de los pueblos a nivel de Estados donde las ETNs actúan a través de campaña sobre el Derecho a la Consulta Previa, y de aplicación del principio de precaución.

A nivel internacional el próximo paso será pedir al Consejo de Derechos Humanos de las Naciones Unidas que designe un Relator Especial para que presente un informe sobre el concepto de deuda ilegitima y ecológica, histórica , y sobre la calificación de las violaciones de los derechos por parte de gobiernos, ETNs, y instituciones internacionales. Adicionalmente los grupos se movilizarán para la construcción de un Tribunal Formal Ecológico y Económico, como el Tribunal de la Haya, para juzgar a las ETN's por los delitos sociales y ambientales que cometan.

Como caso especifico de la privatización de la justicia y del derecho internacional para garantizar los intereses de los inversionistas extranjeros, se seguirá la campana sobre el CIADI (Centro Internacional de Arbitraje sobre Disputas relativas a las inversiones) la agencia del banco Mundial que actúa en protección de los intereses de las empresas, en particular concentrándose sobre el fallo CIADI-Telecom-Gobierno Boliviano. Al mismo tiempo se propone de convocar un grupo especialista birregional de acompañamiento a grupos en resistencia que quieren desarrollar denuncias, y de crear enlaces con grupos de juristas con el objetivo de explorar la posibilidad de llevar a juicio a las transnacionales.

El TPP por su parte ya tiene otras sesiones en programa, unas sobre las empresas del sector agroquímico, convocadas por la red Pesticides Action Network y muchas otras organizaciones campesinas y sociales. Mas recientemente, hubo interés por parte de organizaciones que trabajan sobre el tema de la deuda ilegitima y ecológica para convocar una sesión especifica sobre el tema de la deuda.

Conclusión


Para concluir esta breve elaboración sobre el TPP, la relación con la red Enlazando Alternativas, y sobre el tema de los derechos fundamentales y Empresas Transnacionales, hay que reiterar que el reto principal que nos ocupará es rearticular el concepto y la práctica de un nuevo espacio público. Un tema de gran actualidad y urgencia, considerando también como la respuesta institucional a la crisis financiera sigue perpetuando el mismo modelo, a través de la utilización de los recursos públicos del Estado para garantizar los intereses corporativos del sector financiero privado.

En este sentido, hablar hoy de responsabilidad de las empresas transnacionales no puede limitarse simplemente a reiterar principios y criterios de respeto de los derechos humanos por parte de éstas, o de reconstruir los fundamentos del Estado.

Como afirma el filosofo español Daniel Innerarity en su obra “El nuevo espacio publico”:

”una tal reflexión puede también ser ocasión de repensar la manera en la cual readaptar nuestros ideales normativos sobre la democracia y la vida en común a las condiciones actuales de gobierno y funcionamiento de la sociedad. (…) La tradicional distinción entre esfera publica y privada se ha precarizado, talvez es inútil, pero no esta todavía bien claro con que se pueda sustituirla. Posiblemente no nos encontramos frente a la fin de la esfera privada, ni de la desaparición de la publica, pero al interior de una enorme transformación de la relación entre lo que tenemos que considerar como esfera publica y privada”.

La cuestión es reconocer como un nuevo espacio publico de derecho se reconstruye dando centralidad a las resistencias y alternativas propuestas por los pueblos.


per maggiori informazioni
sul TPP e le sentenze di Vienna e Lima: www.internazionaleleliobasso.org
Su Enlazando Alternativas: www.enlazandoalternativas.org
Sul dibattito sul rapporto Ruggie www.businessandhumanrights.org, Global Policy Forum
Sugli accordi bilaterali UE-America Latina www.bilaterals.org
Su Global Europe www.globaleuropewatch.org
video sulla sessione del Tribunale di Lima

lunedì 27 ottobre 2008

A politics of crisis: Low-energy cosmopolitanism

Questo articolo è uscito sul sito OpenDemocracy, ed a mio parere coglie alcuni aspetti molto importanti rispetto alle sfide che la crisi finanziaria pone in termini di recupero di uno spazio politico pubblico. Ed altrettanto importante, mi pare, l'enfasi sui rischi derivanti da una opzione "localista" per gestire gli effetti della crisi, non solo economica ma anche del modello di sviluppo dipendente dai combustibili fossili. Anzi, gli autori giustamente sottolieano l'importanza di rielaborare un approccio cosmopolita alle soluzioni da "sinistra" alla crisi ed alle alternative al modello dominante.

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The global financial turmoil is opening new fissures in the world's political crust. All the more need to make a cool assessment of the prospects for left and right, say Andrew Dobson and David Hayes.

By David Hayes and Andrew Dobson for openDemocracy.net

There are signs that the global financial crisis is giving some solace to forces of the political left. No wonder, for the left has been delivered a plausible story that also goes with the grain of much common-sense wisdom.

It runs like this. The collapse of major banks and investment houses reveals the speculative house-of-cards on which neo-liberal capitalist economics has been built; the actions of governments around the world in bailing out and directly investing in these institutions show that an active state is essential to financial stability. The condition of the political right in the two major states most imbued with the market dogma of the age (the United States and Britain) suggests that an epochal shift may be underway - in which the balance between "private" and "public" is moving back in favor of collective, social and more inclusive (even egalitarian) solutions.

Indeed, the argument continues, the financial-sector's trading can now be seen to have imposed huge social costs, which states (and thus citizens) are now forced to carry. This confirms the folly of building a central part of the economy on a foundation of personal wealth-accumulation, recklessness and unaccountability. The only way forward is to restore to the center of politics the long-derided idea of the "public" - and with it, associated notions of the public sector, public ownership and the public interest. This can only be good for the left.

There is truth in the diagnosis - but the conclusion could be misplaced, and is almost certainly too hasty. There are three reasons to question whether the left's pheonix will rise out of the ashes of this crisis.

Whose revival?

The first is that it is not yet clear if measures such as the nationalization of banks and building societies are going to work. The omens are at best mixed; even after the model designed by Britain's prime minister Gordon Brown was welcomed across the international political and media spectrum, stock-markets remain febrile, unemployment is rising (with much more to come), the strain of "negative equity" and repossession / foreclosure threaten house-owners, and the accumulated debts of the long consumer boom are still to be paid. These endemic problems are likely to make people more fearful and less hopeful - not a good foundation for a progressive politics.

The second reason is that it is hard for most citizens (who are also consumers, voters, taxpayers, welfare recipients) to see where the convincing leftist options are - apart from the worthy aim of bringing the state and the public realm out of cold storage. This aim is important, but it is a preliminary work of restoration rather than of radical change; moreover, it is shared much more widely, and thus cannot be regarded as unique to the left. The political left, qua left, has very little meaningful or distinctive to say about this crisis.

The third reason for skepticism about a revival of the left is that constant references to the precedent of the 1929 crash and the 1930s depression that followed are a reminder that such crises often create fertile grounds for a surge of the right. The first two elections in the global north since the financial crisis took hold saw victories of the center-right in Canada and Lithuania (admittedly both leading parties are far from the extremes, and neither won an overall majority - though the advance of celebrity-populist parties in Lithuania may be an augur).

More worrying and immediate is what is happening at the far end of the political spectrum in several European countries. Stoke-on-Trent, the English city where one of us lives, is a case in point: here, the hard-right British National Party has already made advances in local-council elections (in the May 2008 elections, it won 24 percent of the vote in the wards it contested, and nine out of sixty seats). It is likely that much of the "white working-class" in the area (and its equivalents elsewhere) will rally behind it rather than any leftist alternative as economic recession collides with local discontents.

The limits of localism

Such caution about anticipating shoots of progressive recovery is often met by arguments that emphasize the energy and vitality of grassroots campaigns. It is true that local movements can often sustain an impressive standard of commitment even during a downturn. But there is also a problem in their political underpinning - in that activity aimed at coping with increasing levels of insecurity is ambivalent in its character and intentions.

The "transition towns" movement in England, which encourages local experiments in environmentally sustainable living and development, is a prominent example. This movement is to all appearances right where it should be: making climate change and "peak oil" the linked starting-point for its analysis of possible political futures. The central focus of the "transition" talk is about resilience in the face of increasing vulnerability, and its implications - including reskilling to cope with insecure supply-chains of goods and provisions as oil becomes scarcer, transport becomes more expensive, and the life made possible by oil recedes into the past.

This approach could in principle be empowering for local communities as they take their futures into their hands and do things that governments are unwilling or unable to do. The transition economy can invent new currencies, experiment with new methods of producing and consuming, and develop new ways of engaging and mobilizing people in a community.

But where will the politics of resilience lead? It should be recalled that the progressive, inclusive politics of the past two centuries has been accompanied by a fossil-fueled energy binge. As society powers down, what will become of the outward-looking social and political advances that have accompanied the age of energy excess? The transition-towns movement - and similar initiatives that are motivated by ideals of self-sufficiency, eco-community, and simplicity - seek to manage the shift from oil dependency to post-oil security. It is less clear that they offer anything to say about the equally difficult and equally necessary challenge of combining localism with cosmopolitanism.

When their security comes under threat and when a familiar order begins to break down, people generally look to their own before they look to others. A number of recent post-apocalypse novels has painted a bleak picture of life after environmental catastrophe has wreaked its havoc (Sarah Hall's The Carhullan Army, Maggie Gee's The Ice People, and Cormac McCarthy's The Road among them). A politics of fear shadows this fiction, the signal (which imaginative artists are so often among the first to perceive) of a wider quality in the collective emotional temperature.

In an overheating world where already hard-pressed citizens are faced with new and prolonged economic difficulties, the avoidance of harm to self and family and "tribe" can come to supersede the preventing of harm to others. The scrabble for scraps can leave little room for cosmopolitan sentiment.

An echo of such warnings is evident in the comment of Will Hutton - one of the most acute analysts of the financial crisis - who speaks of the dangers of "fragmentation," where in times of hardship the temptation to blame (and the encouragement to blame) people or groups regarded as "other" increases. Hutton goes on to argue that "stories about why we should fragment are even more poisonous than the fragmentation itself".

The limitation of a politics of resilience is that it can so easily become defensive, reactive, insular (a characterization that fits much of what remains of the political left as a whole). The whole point of the transition movement is to manage a move beyond - rather than merely respond to circumstances that have got out of control. This managed approach to change could in principle permit a soft, cosmopolitan landing in a world that is (in ways unimaginably different from the 1930s) globalized, connected, and plural. But to do so will require creating structures that can mediate between local initiatives, and a larger politics that can articulate these links. In the absence of such structures and politics, the sound of the wagons circling could drown out cosmopolitan sentiment.

The next horizon

That is why, if the management of change can't simply involve a return to the centralist-corporatist politics of the 1970s, it can't rely on a thoroughgoing localism either. As people seek security in troubled times there is a danger that the state will become overburdened, and citizen-based localism will struggle to fill the gaps. The chasm between expectation and reality could then be filled by a politics of disillusion - which is usually (in effect if not always in intention) a politics of the right which seeks to exploit the prevailing social sentiment for divisive and xenophobic ends.

The problem is that the space where people could organise their collective security in some key liberal-capitalist democracies - namely, the democratic public realm - has since the late 1970s been systematically eroded. This is especially true of the levels of government where social security (in its most general sense) is achieved (or not) on a daily basis: the local and regional levels. This democratic public realm is where the relations between citizen and state can and should be reformed. Every opportunity should be taken to revitalise it, and to fortify the democratic institutions that are the strongest bulwark against the chauvinism of which Will Hutton warns.

2008 is the year of a triple shock: the global food crisis (which made the realities of food-insecurity palpable), the global oil-price rise (which put localized transition on the agenda as never before) and the global financial hurricane (which gave the state as agent a new lease of political life). The long-term consequences can at present be only dimly discerned. At this stage, it can be said that together they do provide opportunities for the political left (in its broadest sense) which were barely imaginable at the start of the year. But it is also true that dislocating financial and energy crises offer promising ground for the political right.

The world is opening up to new possibilities and dangers. The future may belong to ideas that emerge genuinely out of this crisis, rather than to those (as it were) foisted onto it. Low-energy cosmopolitanism? Bring it on - but it will prove a tough nut to crack.

martedì 21 ottobre 2008

Match G8-Nazioni Unite per affrontare la crisi economica e finanziaria globale

In questi giorni si assiste ad un' interessante competizione tra i G8 e l’ONU su quale sarà il luogo nel quale andranno discusse le soluzioni possibili alla crisi finanziaria globale. Già si parla di una seconda Bretton Woods, vale però la pena di ricordare che in termini “istituzionali” Bretton Woods avvenne nell’ambito del processo di fondazione delle Nazioni Unite e quindi a questo doveva necessariamente far riferimento. Anche se poi si decise che Banca Mondiale e Fondo Monetario non sarebbero state considerate Agenzie specializzate ONU, ma piuttosto collegate al sistema ONU attraverso accordi specifici. Questo in particolare per preservare il modello decisionale antidemocratico tuttora vigente in Banca Mondiale e Fondo Monetario del “un dollaro un voto” rispetto a quello dell’ONU de “una testa un voto”. Ora il quadro rischia di essere ben diverso. Esiste insomma l’eventualità che la convocazione del G8 straordinario allargato ai Paesi emergenti (insomma una formula simile al G20) possa porre le basi di un nuovo modello di multilateralismo, nel quale le Nazioni Unite sarebbero solo “uno inter pares” e non il quadro di riferimento normativo e politico entro il quale tale discussione, quella sulla “nuova governance economica globale” dovrà tenersi. Così abbiamo assistito ad un susseguirsi di iniziative, volte a cercare di reindirizzare il processo verso una nuova Bretton Woods nell’alveo dell’ONU. L’UNCTAD chiede a gran voce di essere coinvolta, Ban Ki Mon propone ai G8 di ospitare il vertice straordinario sulla crisi negli edifici delle Nazioni Unite a New Cork, senza successo. Poi l’ultimo colpo di scena: Il presidente di turno dell’Assemblea Generale D’Escoto (ex ministro sandinista degli affari esteri) nomina il premio Nobel dell’economia Joseph Stiglitz a capo della Task force delle Nazioni Unite per la crisi finanziaria. Compito della Task Force sarà quello di ridiscutere mandato, funzionamento, attribuzioni delle istituzioni finanziarie internazionali, e di elaborare una proposta per una nuova governance globale. L’annuncio della nomina di Stiglitz arriva il 21 ottobre, qualche ora prima dell’annuncio di George Bush del luogo e della data del G8 straordinario, che si terrà a Washington il 15 novembre. Intanto la Task Force ONU viene convocata per la sua prima riunione il 30 ottobre. Il prossimo round si svolgerà a Doha, a novembre, in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite per la Finanza per lo Sviluppo, che farà il punto degli impegni internazionali a 5 anni dalla Conferenza di Monterrey (Financing for Development). La bozza di dichiarazione finale già conteneva un impegno a svolgere una Conferenza per la revisione del mandato e del funzionamento delle istituzioni di Bretton Woods. Sembra quasi che il G8 abbia tentato di vanificare preventivamente tale raccomandazione. (per una cronaca del dibattito g8-ONU sulla crisi finanziaria, www.brettonwoods.project.org) In contemporanea si stanno muovendo i movimenti sociali di mezzo mondo. Cogiendo l’occasione che si sta aprendo per rimettere mano al sistema finanziario globale, parte un primo appello lanciato dall’Asia-Europe People Forum riunito a metà ottobre a Pechino, nel quale tra l’altro si ribadisce la centralità dell’ONU come luogo di discussione delle questioni economiche e finanziarie globali e si propone una fitta piattaforma di proposte. (per leggere il testo della dichiarazione di Pechino in italiano clicca qui). Altro appello che sta circolando è veicolato dalla rete europea Eurodad. (clicca qui per accedere al testo dell’appello).
Per ultimo vorrei consigliare un bell’intervento di Walden Bello sulla crisi finanziaria, accessibile sul sito di Focus on the Global South www.focusweb.org

Questo articolo è stato anche pubblicato sul blog www.sbilanciamoci.info

martedì 14 ottobre 2008

Basta debito ecologico, giustizia climatica ora!

Questa settimana decine di organizzazioni e movimenti sociali si mobilitano sul tema del debito ecologico, e delle responsabilità delle istituzioni finanziarie internazionali nell'accelerare i cambiamenti climatici.
per maggiori informazioni www.debtweek.org



NOTICIAS SOBRE LA SEMANA DE ACCION CONTRA LA DEUDA Y LAS IFIs

Comunicados de Prensa 13/10:

“Organizaciones y movimientos en todo el mundo movilizan hoy en contra de la
Deuda Ilegítima, las IFIs y el Cambio Climático”.

Organizaciones y movimientos en todo el mundo movilizan hoy en contra de la
Deuda Ilegítima, las IFIs y el Cambio Climático.

Reclaman "Justicia, no Caridad"

El 13 de octubre, militantes de la lucha contra la deuda en todo el mundo
llevarán a cabo actividades y movilizaciones en contra de la Deuda
Ilegítima, las Instituciones Financieras Internacionales (IFIs) y el Cambio
Climático, como parte de la II Semana de Acción Global contra la Deuda y las
IFIs, que involucra a más de 200 redes, organizaciones y movimientos de
África, Asia y el Pacífico, América Latina y el Caribe, Europa y América del
Norte, entre los días 12 al 19 de octubre. En el transcurso de la Semana
estarán enfocando distintas problemáticas relacionadas al problema
persistente de la dominación ejercida a través de la deuda, pero el día 13
se tratará en especial, el reclamo de Justicia Climática y su vínculo con la
deuda.

Todos los años, cientos de millones de dólares en préstamos son utilizados
para financiar proyectos en las industrias extractivas, incluyendo el
petroleo, el carbón y el gas, megaproyectos de infraestructura y otros para
la producción de agrocombustibles que son destructivos del medio ambiente y
exacerban significativamente el cambio climático. Los créditos son
otorgados, principalmente por el Banco Mundial y otras IFIs, a gobiernos y
se pagan con recursos públicos mientras que son las corporaciones
transnacionales los principales beneficiarios.

Además, ahora el Banco Mundial intenta asumir un rol preponderante en el
financiamiento mundial de la mitigación y la adaptación a los cambios
climáticos, así como también en la promoción de 'tecnología limpia" y
"desarrollo limpio". Reciente lanzó sus Fondos de Inversión Climática
(FICs)

Según Lidy Nacpil, coordinadora en Asia-Pacífico de Jubileo Sur, una red de
campañas sobre la deuda, movimientos sociales y organizaciones en más de 50
países de América Latina y el Caribe, África y Asia, "préstamos que fueron
utilizados para imponer proyectos o políticas dañinas son ilegítimos; han
sido un factor principal en la escalación de la crisis climática y no deben
ser pagados. Las Instituciones Financieras Internacionales como el Banco
Mundial y el FMI cargan con una responsabilidad central para esta crisis.
Con esa historia, es condenable que tengan ahora algo que ver con programas
para el clima. El concepto y diseño de los FIC del Banco Mundial, por
ejemplo, son tan fallidos como el Banco mismo."

Entre las diversas actividades a realizarse ese día, se presentará a
distintos gobiernos y al Banco Mundial un pronunciamiento firmado por más de
100 organizaciones de todo el mundo; se realizarán múltiples foros y
seminarios enfocando la relación entre la deuda, las IFIs y el Cambio
Climático como por ejemplo en Bangladesh, Filipinas y el Reino Unido. En
Jakarta, Indonesia, habrá una manifestación frente a las oficinas locales
del Banco Mundial, y en Colombia, Paraguay y Brasil se desarrollarán
diferentes eventos sobre Deuda Ecológica y Justicia Climática.

Para las organizaciones que movilizan durante esta Jornada, el cambio
climático solo puede solucionarse si los gobiernos anulan y dejan de pagar
las deudas ilegítimas; se para el financiamiento de proyectos y políticas
que exacerban el cambio climático; se rechazan los Fondos de Inversión
Climática del Banco Mundial y otros programas para el clima bajo el control
del BM y demás IFIs; se dejan de financiar con préstamos programas para el
clima y pagar restitución y reparaciones para las deudas ecológicas e
históricas que se deben a los pueblos del Sur.

lunedì 13 ottobre 2008

Susan George e Saskia Sassen su crisi finanziaria

Molto si è detto e argomentato sulle radici della crisi finanziaria che sta scuotendo il mondo. Molto si è commentato sulle ricadute possibili dei massicci interventi pubblici a tutela delle banche sull'orlo del crack. Certamente poco si è discusso - per lo meno in ambienti "ufficiali" - sul come cogliere questa occasione per ripensare le politiche economiche, per rielaborare una modalità di intervento pubblico nell'economia che lungi dal tutelare gli interessi di chi ha contribuito alla crisi attuale, possa gettare le basi per un nuovo Deal, fondato sulla sostenibilità ambientale e la giustizia sociale. Certamente la decisione di attribuire a Paul Krugman il premio Nobel per l'Economia può essere un segnale della necessità di riscoprire i fondamenti della teoria keynesiana, rielaborata senz'altro secondo i parametri irrinunciabili della giustizia ecologica.
Vi propongo al riguardo due testi, uno di Susan George, (il suo intervento allo Schumacher College) e l'altro di Saskia Sassen, tratti rispettivamente dal sito del
Transnational Institute e di OpenDemocracy
Buona lettura


ps. ho appena finito di leggere tre libri molto interessanti, uno di Jacques Attali,
"Breve Storia del Futuro", l'altro di Piero Zanini : " Significati del Confine, i limiti naturali, storici, mentali", l'altro ancora già citato in precedenza nel blog "Infinitely Demanding, Ethics of Commitment, Politics of Resistance" di Simon Critchley . Nei prossimi giorni proverò a pubblicare alcuni commenti.

lunedì 6 ottobre 2008

Debito ecologico, decrescita e nuovi modelli economici

Quella che segue è un'intervista a Joan Martinez Alier (accademico esperto in economia ambientale) fatta da Carlotta Mismetti Capua per l'Espresso in occasione delle celebrazioni per l'anniversario della fondazione del Club di Roma, tenutesi nei mesi scorsi a Roma. Buona lettura

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Se Barack Obama vincesse, e firmasse il protocollo di Kyoto, forse l’obiettivo di abbassare le emissioni di carbonio di tutti i paesi industrializzati non sarà quel fallimento generale che è oggi. Ma le emissioni di carbonio salgono del 3 per cento ogni anno, e vanno molto più veloci delle democrazie e dei protocolli. Per questo policy maker e economisti che si occupano di ambiente stanno già lavorando al post-Kyoto. Il post-Kyoto si chiama debito ecologico, e Angela Merkel ha già annunciato che di questo debito, e di come risarcirlo, e di cosa succede se tutti gli indiani tra 20 anni avranno le stesse automobili degli italiani, si parlerà al prossimo G8, che nel 2009 si terrà in Italia, dove per l’appunto sono state invitate anche India e Cina. Il debito ecologico lo ha inventato Joan Martinez Alier, un uomo mite e schietto: «Credo più negli abitanti della Val di Susa che nei vertici internazionali», dice. Alier insegna a Barcellona e ad Harvard ed è pioniere degli studi di economia ambientale, che da 30 anni cercano di coniugare economia e giustizia ambientale. Da dieci è nel comitato scientifico dell’Agenzia Europea dell’ambiente. «Ma gli ambientalisi alla Wwf sbagliano. Non si tratta di salvare i coralli o le tigri. Il problema sono le risorse e la salute, se non la distruzione, degli esseri umani» afferma.

Professore, in che cosa consiste il debito ecologico?

Il debito ecologico cerca di misurare e risarcire i paesi che hanno le risorse naturali, risorse che vengono sfruttatela pesi terzi, senza che la ricchezza resti sul territorio; sostanzialmente sono i paesi del Sud del Mondo, sud America ed Africa, ad avere un credito verso i paesi occidentali. Il debito, così come l’ho concepito vede quattro punti. Primo: calcolare le emissioni di carbonio. Negli States si producono 20 tonnellate di carbonio per persona, ogni anno. In India 2. Secondo punto: la pirateria ecologica di semi, piante, materie prime. È una appropriazione materiale ma soprattutto di conoscenza. Questo va pagato. La convenzione sulla biodiversità di Rio di Janero, del 1992, alla quale hanno partecipato tutti i paesi del mondo, ha detto che le risorse biologiche appartengono al paese dove si trovano. E che i contratti tra multinazionali e paesi con grandi risorse biologici sono obbligatori. Ma questi contratti non si fanno, mai. Perché sono contratti tra soggetti troppo asimmetrici. Anche per i rifiuti, che sono il terzo punto del debito ecologico, il trattato di Basilea ne vieta l’esportazione: non si possono portare dei rifiuti tossici dai paesi ricchi a quelli poveri, è razzismo ambientale dice qualcuno: ma tutti lo fanno».


Il quarto punto del debito economico sono i prezzi delle materie prime. Se i paesi del Sud alzassero i prezzi di queste materie l’equità economica verrebbe parzialmente stabilita.

«Io lo chiamo scambio ecologicamente dis-euguale: significa che le esportazioni delle materie prime nel mondo sono troppo poco costose, e il loro prezzo non considera la distruzione che provocano. Questo vale per il petrolio ma anche per l’oro e perfino per i gamberetti che lei trova al supermercato, che hanno viaggiato per chilometri in dei frigoriferi. L’unico modo è alzare i prezzi, ed è una via che Rafael Correa, presidente dell'Ecuador, percorre insieme all’Opec».


L’ambiente produce ricchezza per il triplo del Pil mondiale, ogni anno. Ogni volta che questa ricchezza si produce, la Natura si riduce. Ogni volta che si estrae un chilo di oro si distrugge una tonnellata di natura. Ogni volta che si costruisce una strada o si draga un fiume si distrugge territorio naturale, foreste che servono per respirare.

Ma come si calcola un risarcimento da parte chi sfrutta queste risorse verso le nazioni che queste risorse le possiedono?

Il debito ecologico dei paesi del Sud, India e Africa e Latino America, se lo contassimo, è molto più grande del debito economico che questi paesi hanno con i governi occidentali. Questa diseguaglianza economica va sanata. Ho seguito un progetto per il governo dell’Equador, molto concreto. La Itt Iasuni è una grande riserva di bio-diversità, una foresta nel cui sottosuole c’è uno dei più grandi giacimenti di petrolio del Sud America. L’idea è tenere l’olio sotto terra. L’Equador fa un sacrificio economico, forse di trecento milioni di dollari per anno, per 20 anni. In cambio di questo sacrificio tutti i paesi occidentali contribuiscono, per la metà della perdita. Il diplomatico Francisco Carrion che se ne sta occupando ha proposto ai governi occidentali di dare questi soldi sotto forma di condono del debito economico.

Questi danni li calcoliamo con un risarcimento economico: Soldi per la sovraporduzione di carbonio, soldi per la bio-pirateria o i rifiuti di amianto?

«Il debito ecologico ha aspetti pecuniari e aspetti morali. Il tema del risarcimento è stato discusso già negli Stati Uniti per la schiavitù e in Sud Africa, per l’Apartheid. Anche per l’ambiente deve essere la stessa cosa, e lo sarà prima o poi. Ma da economista credo che la cosa che inciderà non saranno i soldi, ma le catastrofi naturali e le lotte dei ragazzi della Val di Susa».

Pensa che ci sia ancora spazio per l’atteggiamento “ Nymby”: not in my back yard; non in Val di Susa non a Chiaiano?

«Queste lotte ambientali sono molto antiche e sono sempre partite dal basso: la protesta della Val di Susa si replica identica anche in India, dove vogliono creare un canale per le navi tra Sri Lanka e India e i pescatori protestano. Ma se ci sono 3 Nimby in Italia, e 100 in Europa, e 2000 nel mondo, allora non è più un “backyard”, un giardinetto dietro casa. È un movimento globale. Infatti ora in America si dice Niamby: «Not in anyone backyard, vale a dire in nessun giardinetto». Ed è molto interessante che sia una rete diffusa, senza leader, senza grandi mezzi e senza staff politici. Questo movimento-rete cresce, e questa è gente che, sorprendendo tutti, sta votando Barack».

Come immagina il post Kyoto, cosa accadrà?

«Poco, forse nulla. Qualcuno, come la Merkel ora, e forse Barack Obama se vincesse, stanno lavorando per introdurre dei temi di equità. L’unico modo per consentire lo sviluppo di India e Cina è che noi, paesi occidentali, decresciamo.

per saperne di più:

New Economics Foundation

Earth Economics
Alianza de los Pueblos Acreedores de la Deuda Ecologica

venerdì 26 settembre 2008

Multilateralismo, etnonazionalismo e nuovi assetti della governance globale

Il caso della guerra nel Caucaso


Di Francesco Martone

Setiembre 2008


La guerra di agosto tra Russia e Georgia, scatenata dall’improvvida decisione del presidente georgiano Sakhashvili di attaccare l’enclave di etnìa russa dell’Ossezia del Sud, oltre ad essere il culmine di un confronto ormai in corso da anni nella regione, può fornire l’opportunità per discutere di varie questioni paradigmatiche e delle sfide che oggi la sinistra si deve attrezzare a comprendere e affrontare nella sua dimensione politica internazionale, o meglio cosmopolita.

Una prospettiva che prova a studiare e leggere le questioni di politica estera il più possibile scevre di contaminazioni derivanti dal discorso politico nazionale, e che così facendo non la considera un ulteriore cambio di battaglia ideologico nel quale prendere parte per una o l’altra parte in conflitto.

Con questi presupposti la crisi del Caucaso può offrire la possibilita di commentare su varie questioni centrali relative alla politica estera, dal ruolo e la nuova forma degli stati nazione, al rinnovato insorgere di forme di etnonazionalismo, fino alla trasformazione degli assetti della governance globale. E di nuovo chiama ad una profonda rielaborazione di categorie antiche, e di approcci che rischiano di non cogliere appieno la complessità e la profonda novità degli sviluppi della politica globale.

Il primo indizio di analisi riguarda il carattere paradigmatico della guerra tra Russia e Georgia. Per meglio comprenderlo andranno svolte alcune considerazioni specifiche.

Dal punto di vista della Georgia , il paese aspira ad entrare nella NATO, e nella convinzione di ottenere il sostegno del mondo occidentale, non ha esitato a sferrare un’attacco contro le enclave etniche in Sud Ossezia. Le questioni che ne derivano riguardano le ricadute della disintegrazione dell’ exUnione Sovietica, ma anche
il ruolo nuovo della NATO. A 60 anni dalla sua fondazione, l’alleanza dimostra di voler cambiare le sue attribuzioni e ragioni d’essere da assetto puramente “difensivo” ad agenzia globale di sicurezza, con spiccate caratteristiche “offensive”. Il conflitto in Afghanistan dimostra che la NATO oggi rientra nelle opzioni à la carte perseguite dagli Stati Uniti per sostenere le proprie priorità strategiche, nel tentativo di socializzarne le ricadute negative in termini politici.

La seconda questione riguarda il tema della sicurezza energetica e della dipendenza del nostro modello di sviluppo dalla produzione e consumo di combustibili fossili. La Georgia è crocevia di importante gasdotti tra cui il Baku-Tbilisi-Cheyan, e del Nabucco, ed insiste quindi in un’area cruciale per l’approvvigionamento energetico degli USA e dell’Europa.

Dal punto di vista russo ci si trova invece di fronte ad una potenza che vuole mostrare di essere tale nel panorama globale riaffermando il suo ruolo geopolitico e geostrategico. I prodromi di questa trasformazione si possono ritrovare nel discorso di Vladimir Putin alla 43ª Conferenza di Monaco sulla sicurezza del febbraio 2007 in seguito al quale molti commentatori avevano ipotizzato un ritorno alla guerra fredda.

Il confronto con la guerra fredda sembra però azzardato visto che la Russia non sembra avere intenzione di esportare un modello ideologico o culturale, non dispone in realtà di ciò che viene definito “soft-power” e questo forse è il suo grande limite nel tentativo di affermarsi su scala globale. Più semplicemente la Russia non tollera di perdere controllo nella sua sfera inmediata di influenza e ciò vale per il Caucaso ma anche per l’Ucrainae l’Europa Orientale, oggi in prima linea per quanto concerne l’allargamento della NATO ed il progetto USA di scudo antimissile. Mosca quindi raeagisce con forza contraponiendo la costruzione di nuove alleanze militari quali la Shanghai Cooperation Initiative (SCO) o l’alleanza militare delle repubbliche della ex CSI. E nella sua politica di potenza non esita ad utilizzare le proprie enormi risorse energetiche come arma di pressione.

E l’Europa? L’Unione Europea ha dimostrato la sua grande difficoltà nel proporre una linea politica comune, con il ministro degli esteri inglese Miliband che per primo si è recato a Tbilisi per sostenere il governo georgiano, distanziandosi dal resto dei Paesi dell’Unione che hanno preferito una posizione più cauta nel tentativo di porsi come mediatori tra le parti in conflitto. Così ha interpretato il ruolo il Presidente francese Sarkozy. Secondo Mary Kaldor, esperta di questioni globali e di nuove guerre, l’Europa, (e l’OSCE) nel caso della guerra tra Russia e Georgia avrebbe mostrato di perseguire una strategia di sicurezza distante dall’approccio geopolitico e di “potenza” proprio della NATO. Un approccio che sarebbe basato sulla sicurezza umana e sulle dimensioni non-militari della gestione dei conflitti che però non è innervato da una condivisione delle linee di politica estera da parte degli Stati Membri. Basti pensare a quanto accaduto sul riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.

A suo tempo si era sollevata la preoccupazione che il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo avrebbe rappresentato un pericoloso precedente che avrebbe riattivato i cosiddetti conflitti congelati in Sud Ossezia ed Abkhazia, per non dimenticare il Nagorno-Karabakh o la Repubblica Srpska nei Balcani.

Allora le potenze occidentali si erano affrettate con grande ipocrisia ad affermare che il Kosovo sarebbe stato un caso unico e che quindi non avrebbe rappresentato un precedente per altre forme di secessione. I russi hanno invece più volte mostrato irritazione nel parallelo tra Kosovo e conflitti in Caucaso, giacché il Kosovo si è reso indipendente solo dopo l’intervento militare della NATO, e considerando che se da una parte a suo tempo Belgrado aveva tentato sempre la carta del negoziato, il presidente georgiano Sakhashvili ha preferito da subito l’opzione militare.

Certo è che queste vicende chiamano fortemente in causa il fenomeno dell’etnonazionalismo e del suo importante ruolo nel plasmare gli eventi della storia moderna.

L’etnonazionalismo rappresenta oggi uno dei più importanti “driver” - insieme alla trasformazione dei rapporti di forza su scala globale, la crisi ambientale e la dipendenza energetica da combustibili fossili (o meglio il tema della sicurezza sostenibile) ed il principio della politica estera etica - del dibattito sulla politica del 21’ secolo, non solo per la politica estera, ma anche per quella interna.

E’ una spinta che mette alla prova sia le strutture interne degli stati che le proprie frontiere, e risponde al vuoto di significato conseguente ai processi di modernizzazione e globalizzazione, che a sua volta alimenta forme identitarie.

Le ricadute di questo processo si leggono sia nelle politiche migratorie e di cittadinanza (quindi all’interno degli stati) che nel discorso relativo alla prevenzione del genocidio e delle pratiche dell’ingerenza umanitaria, e delle conseguenze che questa comporta nella ridefinizione del concetto di sovranità.

Non a caso la Russia ha invocato il principio della R2P (“Responsibility to Protect”) per intervenire a protezione delle minoranze russe in Sud Ossezia, usando la stessa argomentazione, ovvero l’intervento militare nel territorio di un’altro stato, per proteggere un’etnia minacciata di genocidio che gli USA hanno cercato invano di usare come pretesto per un’operazione militare in Darfur. Si nota quindi un uso simmetrico ed altrettanto strumentale del concetto di politica estera etica, con la quale si ammantano di connotati etici scelte che sottendono per lo più ad interessi geopolitici e/o strategici.

Qualche commentatore ha affermato che la guerra russo-georgiana è stata caratterizzata da elementi di conflitto basati su una politica di potenza e di polarizzazione ideologica al punto da farne la prima guerra del 19º secolo combattuta nel 21º secolo. E’ evidente che viste le premesse, la guerra nel Caucaso ha un potenziale esplosivo a livello internazionale giacché coincide con rivalità geostrategiche tra USA/NATO e Russia, e riguarda anche il posizionamento dell’Unione Europea, quello della Turchia e dell’Iran. Ed ha dimostrato una volta per tutte che l’equilibrio di potere in Eurasia è già cambiato, con la presenza forte della Russia che si pone ormai come una delle grandi potenze nel sistema di governo globale.

Il quadro generale della trasformazione della governance globale merita quindi di essere studiato a fondo, e la domanda cruciale da porsi è se ci troviamo o meno di fronte al crollo dell’impero americano.

Senza dubbio la guerra tra Georgia e Russia ha aperto una nuova era, quella dello spostamento dell’asse del potere, come dice un importante studioso di politica estera USA Fareed Zakaria, del “rise of the rest”, l’avanzata del resto del mondo.

Dal duopolio proprio della guerra fredda, attraverso il predominio degli USA dopo il 1991 (altro che fine della storia come ebbe a dire a suo tempo Francis Fukuyama!!) siano ora giunti ad un assetto multipolare. Certamente gli USA manterranno il predominio a livello politico-militare ma nelle altre dimensioni del potere si assiste già fin d’ora ad un profondo spostamento dal loro dominio assoluto.

Nell’America che verrà consegnata nelle mani di Barak Obama o di John McCain la lettura di questa fase si svolge secondo due linee di pensiero.

Una più costruttiva, secondo la quale non ci si troverebbe alla fine dell’impero americano, ed il mondo non starebbe diventando antiamericano, bensì sarebbe entrato in una fase post-americana, come dice Fareed Zakaria.

La seconda più vicina alla destra conservatrice che legge questa fase come
non-polare, nella quale nessuna potenza mantiene una situazione di dominio sulle altre: insomma ci si troverebbe di fronte a numerosi centri con potere considerevole. Il mondo di oggi pur sembrando multipolare in realtà starebbe subendo una profonda trasformazione nelle sue forme tradizionali.

Secondo questa corrente di pensiero il multilateralismo a la carte, secondo i bisogni del caso, sarà il trend dominante, seppur improntato ad includere anche altri soggetti non statuali che oggi sono parte integrante della governance globali, quali organizzazioni e reti, o entità non governative.

La sottotraccia di queste elaborazioni continua a proporre una discussione sulla trasformazione dello stato e dello stato nazione post-Westfaliano, non più soggetto esclusivo della governance e non più detentore del monopolio sulla sovranità.

Da una parte stretto tra le spinte etnonazionaliste che lo trasformano al suo interno e nelle sue frontiere, dall’altro caratterizzato da spinte di cessione di sovranità verso l’alto, nei confronti di organismi quali le istituzioni finanziarie e/o gli organismi multilaterali e dalla sottrazione di sovranità operata da altri soggetti nonstatuali.

Uno stato che oggi vuole recuperare il controllo sulla finanza e l’economia non certo per la promozione del bene comune ma per tutelare gli interessi di elite finanziarie che grazie proprio all’intervento statale continuano a giovarsi delle loro prerogative. E che parallelamente assume una proiezione esterna improntata su forme di politica di potenza muscolare.

E’ il caso in Russia che con Gazprom produce una commistione tra potere economico, politico e strategico e nascita delle nuove oligarchie, come degli Usa con il salvataggio di Fannie Mae, Freddie Mac, e con i pacchetti di bailout del debito di altri enti finanziari

Su questo la sinistra dovrà porsi una domanda forte per cercare di capire cosa rimane dello stato dopo la sbornia liberista, cosa salvare e cosa ricostruire,

Dando per scontato che oggi ogni prospettiva politica concreta dovrà far perno sul rapporto locale-globale, non sarà possibile parlare di politica estera senza avere chiari quali siano i processi di trasformazione dello stato nazione al suo interno ed al suo esterno. In una parola avere chiara la prospettiva di una riconfigurazione della sfera pubblica, del “national policy space”.

Per concludere il confronto a sinistra sui nuovi fondamenti della politica estera dovrà svolgersi lungo una serie di interrogativi.

Il primo: quando si parla di riforma della governance globale, in senso democratico e multipolare, c’è chiarezza sul se questa si dovrà continuare a basare su assunti geopolitici e geostrategici che non escludono anzi presuppongono una politica di potenza che prevede anche l’uso della forza armata? Per dirla ancora più crudamente a sinistra si è tutti d’accordo che la forza mite dell’Europa che vorremmo non deve misurarsi in chiave antiamericana con un esercito europeo ed una conseguente corsa agli armamenti? Ma anzi perseguire il disarmo come strategia di costruzione di relazioni giuste ed eque tra gli stati?

La seconda: quando si parla di pace e costruzione di relazioni eque tra popoli, si ha ben chiaro quali siano oggi le vere sfide? E che la necessità di uscire dalla trappola dei combustibili fossili , riconoscendo il debito ecologico nei confronti del mondo di maggioranza serve non solo a ridurre le emissioni di gas serra ma anche a prevenire conflitti possibili su risorse scarse o per lo meno evitare che tale scarsità diventi stumento di politica di potenza? Per dirla crudamente: a sinistra sono tutti convinti dell’urgenza di superare il mito dello sviluppo, e della liberazione della classe operaia attraverso la crescita dei consumi e del potere d’acquisto delle merci?

La terza: quando si parla di diritti umani, e di promozione e rispetto degli stessi, e della protezione degli esseri umani, si riesce a fare un passo in avanti, uscendo dalla trappola ideologica che vede questa come estensione di una politica “imperiale” e piuttosto provi a studiare a fondo i limiti ed i rischi di forme di ingerenza umanitaria?
Ovvero, si retiene urgente iniziare a produrre una chiave di lettura e delle risposte alternative alla deriva securitaria su scala globale, e pratiche di promozione dei diritti che siano fondate sulla diplomazia popolare, la nonviolenza, e la solidarietà e giustizia ecologica ed economica?

La quarta: quando si parla di società cosmopolita, di superamento dell’etnonazionalismo, di integrazione multirazziale, di rispetto delle diversità, si ha ben chiaro che come dice Saskia Sassen, oggi il limite delle politiche degli stati è quello di pensare che la società multiculturale vada costruita e che invece l’unica cosa possibile è di governarla? E che magari applicando un approccio autenticamente cosmopolita, anche una soluzione ormai accettata da tutti al conflitto israelo-palestinese, ovvero quella di due stati e due popoli, andrebbe messa da parte per perseguire con forza l’opzione di uno stato per due popoli?