mercoledì 18 dicembre 2013

Basta CIE, indaghi il Parlamento


Leggere le storie, i racconti, farsi prendere dalla passione civile che traspare nelle pagine di "Bambini proibiti", libro che racconta la triste storia di alcuni dei 140mila bambini e bambine - per lo più italiani e portoghesi - costretti a vivere nella totale clandestinità in Svizzera, i "versteckte Kinder". Sentire l'emozione prenderti quando leggi di mesi e mesi passati nascosti come topi in una stanza, in silenzio, nel terrore di essere scoperti dalla polizia e rispediti a casa. L'assurdità di una legge, quella degli stagionali, che rende estremamente difficile il ricongiungimento familiare, ancor oggi. 

Ci sono voluti anni ed anni prima che in Svizzera si prendesse consapevolezza del livello di diniego dei diritti più elementari dei "versteckte Kinder" e delle loro famiglie; da quello all'educazione a quello alla socialità, alla salute, al semplice diritto di giocare per strada con altri coetanei. E poi ricordo le parole di Marina Frigerio, l'autrice in occasione del nostro Congresso di SEL Europa. Lei migrante, attivista, che ha lavorato anni ed anni per assistere quei bambini e bambine e le loro famiglie. Ci esorta a fare di più, ad impegnarci ancora di più per i diritti dei migranti e delle loro famiglie. Sono assai orgoglioso di sapere che Marina sarà una delegata di SEL Europa al nostro Congresso, assieme ad altre persone validissime. 

Di fronte alle immagini crude e nauseanti provenienti da Lampedusa, ai racconti di terrore, silenzio e paura dei migranti che ancor lì dentro vivono ammassati in piccole stanze (già ammassati come le famiglie dei "versteckte Kinder" ) credo si debba insistere ancor di più nelle nostre richieste. In Europa, per una revisione radicale del programma Frontex, abbandonando l'approccio securitario verso un sistema di salvataggio in mare e tutela dei diritti e della sicurezza umana di chi migra, insomma una sorta di corridoio umanitario "comunitario". E per un impegno di SEL per coalizzare i partiti europei delle sinistre progressiste ed ambientaliste per chiedere la ratifica della Convenzione ONU sui Diritti dei Lavoratori Migranti e delle loro Famiglie. In Italia per abolire la Bossi-Fini, chiudere immediatamente tutti i CIE ed i CARA in condizioni più critiche. 

C'è poco da sperare da questo governo delle alchimie bipartizan. Allora la parola passi al Parlamento, affinché istituisca una commissione d'inchiesta parlamentare sul sistema dei CIE ed i CARA per identificare ruoli, responsabilità connivenze, omissioni, violazioni dei diritti insiti nel sistema. E non solo. C'è da indagare sulle spese e sull'uso dei fondi pubblici andati nelle mani di gestori senza scrupoli dei CIE e dei CARA. Un sistema per far cassa ed arricchire cooperative e enti cosiddetti "misericordiosi" questa è la altrettanto triste realtà. Da sempre. Chiudiamo una volta per tutte questi luoghi di negazione dei diritti e della dignità umana, creiamo modalità di accoglienza e gestione dei flussi migratori che mettano al centro la dignità delle persone, i loro diritti, una volta per tutte.

martedì 10 dicembre 2013

La conquista dei diritti umani non è un pranzo di gala



Oggi è la giornata mondiale delle Nazioni Unite per i diritti umani. Al di là della ritualità dell'evento
è un richiamo alla responsabilità dei governi e della cosiddetta comunità internazionale affinché si impegnino al rispetto ad alla promozione degli stessi. Un percorso accidentato, tutt'affatto scontato.

Ci sono governi che la storia ci ha insegnato a definire “dittature” ormai se ne contano sulla punta delle dita, che dei diritti umani fanno carta straccia. Un pretesto del sistema occidentale per interferire nei nostri affari, dicono. 

Altri che hanno oggi una parvenza di democrazia, formale piuttosto che sostanziale, che non esitano ad incarcerare dissidenti, Pussy Riot o attivisti di Greenpeace o a chiudere d'autorità un'organizzazione ambientalista colpevole di opporsi ai progetti di estrazione petrolifera nell'Amazzonia ecuadoriana. 

Altri che cingono intere popolazioni civili nella morsa di un muro di cemento negandone quotidianamente la dignità di popolo, il popolo palestinese. 

In altri paesi in nome della tutela dei diritti umani delle popolazioni non si è esitato ad intervenire con modalità che - senza soluzione di continuità - stanno arrecando ulteriori violazioni dei diritti umani delle popolazioni civili, si guardi il caso dell'Irak, dell'Afghanistan o quello della Libia. 

In altri, seppur membri dell'Unione Europea quali l'Ungheria, si assiste ad una pericolosissima deriva autoritaria, alla quale gli strumenti di persuasione (la cosiddetta “moral suasion”) dell'Europa stanno apparentemente ponendo qualche rimedio. Altri che continuano ad uccidere propri cittadini e cittadine in nome della giustizia o di una superiorità religiosa.

Diritti umani e nuda vita, direbbe Giorgio Agamben. Una vita che viene denudata dall'oppressione, dall'arroganza dei potenti, dal privilegio, dall'autoritarismo, dal pregiudizio. 

Una vita che oggi viene spogliata pezzo per pezzo dall'insostenibile peso dell'austerità. Non a caso lo scorso anno il Consiglio ONU sui Diritti Umani trattò il tema del debito e dei diritti umani giungendo alla conclusione che se il pagamento del debito o i programmi di austerità portano alla contrazione o violazione dei diritti umani (sia inteso, non soo quelli politici, ma anche quelli economici, sociali, cultural, ambientali ) allora quel debito andrà rinegoziato. A futura memoria quando tra 21 giorni, tre settimane, entrerà in vigore in Italia la “golden rule” la regola del pareggio di bilancio che una maggioranza bipartizan ha voluto inserire in Costituzione.

Diritti che vengono violati quotidianamente nel nascosto di una famiglia, femminicidio e crociate contro il diritto di esprimere la propria sessualità. Oltreconfine come a casa nostra. 

Diritti che vengono violati al largo del Mediterraneo, ormai blindato a doppia mandata, o in un campo Rom della periferia estrema della capitale. Nell'espulsione di due donne kazake in nome della ragion di stato o forse d'impresa. Nel diniego del diritto alla casa o alla salute, o ad un ambiente sano. 

Ecco cosa ci deve dire questa giornata: ci deve ricordare ancora una volta che i diritti umani devono essere il cardine del nostro impegno politico, ma non solo. Che necessitano non di declamazioni formali o di circostanza ma di determinazione nel ricostruire le nostre categorie di analisi ed interpretazione e gli strumenti e proposte politiche che ne devono derivare. Ed al di là della teoria, la storia ci insegna, da Nelson Mandela a Rosa Parks, che i diritti umani si conquistano, e quella conquista non è certo un pranzo di gala.  

giovedì 5 dicembre 2013

Riforma della cooperazione: molte ombre, pochissima luce nella proposta del governo



E' circolata nei giorni scorsi sulla stampa una bozza, a quanto pare definitiva, dell'atteso disegno di legge di iniziativa governativa per la riforma della cooperazione allo sviluppo. La notizia ha subito suscitato polemiche relative al rischio che la proposta Agenzia diventi l'ennesimo "carrozzone" di tecnocrati. Va invece sottolineato che - come in altri paesi europei - l'Agenzia può essere uno strumento importante di attuazione. Alcune condizioni però dovranno essere rispettate. 

La prima è che l'Agenzia sia veramente autonoma rispetto al Ministero degli Esteri ed abbia un'effettiva presenza territoriale. La seconda è che la stessa indirizzi le proprie attività su criteri di massima trasparenza, partecipazione ed efficacia, in linea con i migliori standard internazionali in materia. La terza è che si preveda una sorta di controllo “democratico” sulle proprie attività e gestione delle risorse. sia attraverso il Parlamento, che con altre modalità di monitoraggio che non comportino ulteriori costi, ma permettano una partecipazione diretta della società civile . 

In realtà, la proposta del governo genera altre serie preoccupazioni. Alcune sono state già ben riassunte nelle prime preoccupate reazioni di esponenti delle organizzazioni nongovernative, quali la "scomparsa" della figura del volontario, l'eccessiva enfasi sul ruolo del settore privato, delle banche e del partenariato pubblico privato, e l'assenza del Fondo Unico. Quest'ultima è certamente una concessione al Ministero dell'Economia e delle Finanze, da sempre restìo a cedere il controllo dei fondi di sviluppo da lei gestiti ed amministrati (Banche multilaterali, Fondi Europei). 

E' però il punto centrale, il vero corno della questione, che non viene risolto: la cooperazione resta infatti saldamente nelle mani della Farnesina e delle “feluche”. Al di là dell'annosa discussione sulla “figura” di governo, ossia se si debba prevedere la figura di un Ministro (cosa che noi di Sinistra Ecologia Libertà chiediamo) o di un viceministro della cooperazione, il punto chiave è che nelle intenzioni del governo la cooperazione dovrà essere non solo parte integrante, ma strumento di politica estera. Se poi questa è principalmente politica di marketing o promozione commerciale, il gioco è fatto. 

Ancora, come ci illustra chiaramente l'andamento del negoziato di Bali sul WTO ed il cibo, che senso ha investire in fondi di aiuto per la lotta alla fame se poi non si prendono posizioni coerenti in ambiti di grande rilevanza per il diritto al cibo ed alla sovranità alimentare quali il WTO? Eppure sul tema cardine della coerenza delle politiche c'è un breve e fugace passaggio di un paio di righe. 

Ultimo punto di criticità riguarda le buone pratiche, le modalità alternative di fare cooperazione, i soggetti. La proposta del governo dà grande risalto ai soggetti di lucro, e privati, e poche righe al ruolo delle piccole associazioni, cooperative, finanza etica, microcredito. A quegli attori della cooperazione che tentano di di creare relazioni tra territori, e che ragionano principalmente in termini di condivisione di saperi e strumenti di lavoro. Né ad esempio si riconoscono come soggetti di cooperazione e solidarietà internazionale esperienze come i corpi civili di pace o coloro che fanno prevenzione nonviolenta dei conflitti. 

Insomma, la filosofia di fondo e l'assetto istituzionale che si evincono nella proposta del governo risultano essere drammaticamente inadeguati rispetto al livello di dibattito internazionale sul'efficacia e le modalità innovative di cooperazione, che troverà il suo punto massimo nel 2015 alla Conferenza ONU sul “Post-Obiettivi di Sviluppo del Millennio”. 

Viene così ignorato il patrimonio di decenni di lavoro ed impegno di quelle realtà della società civile italiana che hanno sperimentato la cooperazione dal “basso” in America Latina, come in Africa o Asia. Un lavoro improntato anzitutto sulla costruzione di relazioni paritarie e di condivisione, e solo in un secondo tempo alla fase di “progettualità”. Realtà che praticano un approccio che parte dal riconoscimento della centralità dei diritti fondamentali e la tutela dell'ambiente piuttosto che della mera logica assistenzialista e caritatevole. 

Insomma, se il buongiorno si vede dal mattino ci sarà, come già temevamo,  poco da stare allegri.  

lunedì 2 dicembre 2013

Israele rispetti il diritto internazionale ed i diritti umani del popolo palestinese



Si tiene oggi a Roma il vertice bilaterale tra Italia ed Israele nel quale verranno trattati vari argomenti relativi alle relazioni tra i due stati, tra tutti lo stato dell'arte degli accordi di cooperazione nel settore della difesa. Sullo sfondo le difficoltà nelle quali si imbatte ormai da mesi il tentativo di negoziato internazionale promosso dal Segretario di Stato statunitense John Kerry. Sinistra Ecologia Libertà fa proprie le ragioni di chi oggi chiede al governo italiano di prendere una posizione netta e di condanna delle scelte del governo Netanyahu in sostegno a programmi di insediamento di coloni o di reinsediamento forzato che violano il diritto internazionale, quali ad esempio il piano Prawer per il reinsediamento dei beduini palestinesi nel deserto del Negev. Chiediamo al governo italiano di assumere una posizione chiara sul ripristino della legalità internazionale e l'attuazione delle raccomandazioni e decisioni prese dall'Unione Europea, ad esempio riguardo il commercio di prodotti provenienti dalle colonie. L'Italia finora ha assunto una posizione di retroguardia rispetto ad altri paesi europei, quali la Danimarca e l'Inghilterra, per quanto riguarda l'impegno a etichettare, e quindi permettere una scelta del consumatore, i prodotti provenienti dalle colonie E non solo, Secondo quanto denunciano le organizzazioni per i diritti umani, l'Italia ha sempre bloccato a livello di Unione Europea ogni tentativo di fissare impegni certi sul rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale da parte di Israele. Questa rotta va invertita subito. Sia a livello bilaterale, che in occasione della presidenza del semestre europeo della seconda metà del 2014, l'Italia dovrà farsi portatrice di un'iniziativa volta condizionare ogni forma di collaborazione con Israele al rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, partendo dal blocco degli insediamenti e la rimozione del blocco su Gaza. Invitando al contempo l'Autorità Nazionale Palestinese a ratificare quando prima le convenzioni internazionali sui diritti umani. Crediamo sia poi urgente porre al centro dell'agenda la non più rinviabile revisione degli accordi di cooperazione nel settore militare e della difesa, che contemplano non solo la possibilità di produrre congiuntamente sistemi d'arma,  ma anche di effettuare esercitazioni e manovre militari congiunte. Crediamo sia doveroso porre al centro dell'incontro la richiesta di liberazione dei prigionieri politici palestinesi, tra cui Marwan Barghouti, da anni incarcerati contraddicendo le più elementari norme e standard del diritto internazionale. Sinistra Ecologia Libertà ha aderito per questa ragione  alla campagna globale per la liberazione di Marwan Barghouti e dei prigionieri palestinesi. Chiediamo altresì che il governo italiano sostenga le richieste delle organizzazioni per i diritti umani palestinesi ed israeliane affinché venga messa fine al sistema di impunità del quale si avvantaggiano le forze armate e di sicurezza israeliane assicurando alle vittime palestinesi l'accesso alla giustizia. La Palestina deve tornare al centro delle priorità della politica internazionale, giacché solo attraverso  la giustizia ed il rispetto del diritto internazionale sarà possibile ricostruire le premesse per un futuro di pace e sicurezza per i due stati di Israele e Palestina, ed un futuro di pace per tutta la regione. 

Francesco Martone, Elettra Deiana

venerdì 22 novembre 2013

Varsavia, Polonia, Europa: quale Europa?



Una cosa è certa. Seppur al netto delle basse aspettative la 19esima Conferenza delle Parti della Convenzione ONU sui mutamenti climatici che si sta concludendo a Varsavia passerà alla storia come la conferenza degli inquinatori. Il governo polacco, ospite e presidente di turno ha fatto di tutto per sabotare qualsiasi accordo seppur di minima che potesse creare un ambiente favorevole all'avvio del negoziato sulle riduzioni di emissioni. I paesi che hanno affossato il Protocollo di Kyoro hanno dispiegato la loro potenza ricattatoria. Il Presidente polacco Tusk silura nel bel mezzo dei lavori il suo ministro dell'Ambiente colpevole di non sostenere i gas di scisto. Ed organizza una megaconferenza sul carbone. Dentro lo stadio di Varsavia l'atmosfera è di calma piatta. Ormai si guarda alla Cop20 in Perù ed a quella decisiva di Parigi del 2015. Come ci arriverà l'Europa? Se da una parte il Commissario al Clima Connie Herregaard fa sentire la sua voce, dall'altra i Commissari “duri” quelli dell'energia ed affini fanno tesoro del cambiamento di politica suggellato al Consiglio Europeo di Giugno: da mitigazione dei cambiamenti climatici a garanzia di accesso a fonti energetiche a basso costo per le imprese. Insomma un passo non da poco. E l'Europa dimostra ancora una volta la sua debolezza nel non riuscire a parlare con una sola voce. Un'ulteriore elemento da tenere in considerazione in vista della scadenza delle elezioni europee per chi come SEL si fa portatore di una proposta che vuole coniugare conversione ecologica dell'economia, giustizia climatica e giustizia sociale. Primo appuntamento il Consiglio Europeo di Marzo 2013 quando si discuteranno le politiche energetiche e climatiche dell'Unione. A casa nostra il Ministro Orlando propone un patto sociale per il clima. Come se fosse possibile accomunare le lobby del carbone e del fossile con chi soffre gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici o chi resiste quotidianamente all'espansione della frontiera petrolifera, dai no-oil in Abruzzo a quelli in Basilicata. Una galassia di movimenti sociali e di base legata globalmente alle stesse proposte e proteste. Come quelle che ieri hanno portato decine di osservatori nongovernativi ad abbandonare le sale del negoziato, per protestare contro l'assoluta mancanza di progresso nei negoziati. Di questo e di altro, della necessità di contrastare le politiche di austerità e stabilità, l'applicazione fedele del Fiscal Compact, che drenerà risorse per la conversione ecologica dell'economia, dovremo farci carico d'ora in poi. Il tempo passa, non c'è più tempo da perdere.  

giovedì 21 novembre 2013

Non fate i fossili, salvate il pianeta - Cronache da Varsavia



Pessime notizie da Varsavia dove si stanno svolgendo le battute finali del negoziato della 19esima conferenza delle Parti sui Cambiamenti Climatici. Il Primo Ministro polacco Tusk silura nel mezzo del negoziato sul clima il ministro dell'ambiente, mentre il suo  governo polacco - c'era da aspettarselo - sta facendo di tutto per far fallire il negoziato, accusano fonti della delegazione dell'Unione Europea. IL punto chiave è che la Polonia per evitare di dover mettere il veto a livello europeo, cerca in tutti i modi di chiudere la strada a qualsiasi tipo di impegno sulle riduzioni dei gas serra. Anche la rimozione del ministro dell'ambiente sembra mirata a questo obiettivo. Mentre continua la  propaganda a favore del carbone 'pulito' e dei gas di scisto. Torna alla mente il pasticciaccio imbastito a suo tempo dal Governo danese nel corso della COP di Copenhagen, quando i danesi stavano negoziando su due tavoli con due documenti diversi. Ed il Presidente di turno della Conferenza, un ministro danese, rassegno' le dimissioni. 

Movimenti e sindacati sono furiosi per l'assenza di progressi. Nessun impegno finanziario per la mitigazione dei cambiamenti climatici o il risarcimento dei 'danni e perdite'. E su questo il gruppo dei G-77 e Cina sono arrivati alla rottura. Non sono bastate le tragiche notizie provenienti dalle Filippine per convincere i delegati a sostenere misure di risarcimento dei danni causati dai mutamenti climatici. Nè a casa nostra la tragedia della Sardegna, tragedia che va letta con la doppia lente di una politica irresponsabile che non interviene per prevenire il dissesto idrogeologico e sostenere la cura ed il risanamento del territorio, adottando tra l'altro un piano nazionale per l'adattamento ai mutamenti climatici. E l'altrettanto irresponsabile esitazione della cosiddetta comunità internazionale nel prendere misure forti ed efficaci per contrastare, o per lo meno ridurre il danno causato dai cambiamenti climatici, riducendo una volta per tutte le emissioni di gas climalteranti e avviandosi verso un'economia decarbonizzata.  

E' quindi assai probabile che anche a Varsavia si negoziera' fino all'ultimo secondo per poi vendere all'opinione pubblica questa COP come tappa di transizione verso il 2015, vantando come grande successo la conclusione dei negoziato sugli aspetti tecnici e metodologici sulla riduzione di emissioni da deforestazione. Con buona pace delle imprese inquinanti che potranno compensare le loro emissioni proteggendo foreste altrui. Non a caso alcuni paesi 'industrializzati' stanno tentando di resuscitare forme di mercato di carbonio, proprio mentre il prezzo del carbonio è ai minimi storici pregiudicando quindi il funzionamento di strumenti quali il Meccanismo di Sviluppo Pulito (Clean Development Mechanism)  previsto dal Protocollo di Kyoto. E' di qualche giorno fa un appello dei paesi poveri per un rifinanziamento del CDM, ormai a secco di risorse finanziarie. 

Altro tema cruciale sul quale non c'e' ancora accordo ma che continuera' ad essere al centro della trattativa e' l'agricoltura 'intelligente'. Ossia come assicurare che clima, cibo, ambiente, lotta alla poverta' si tengano assieme in un approccio 'paesaggistico'. Forti sono i rischi di nuove forme di 'ecobusiness' per le imprese del comparto, e di 'land-grabbing'. Insomma, da questa COP sembra che uno dei sottotraccia dominanti, ossia il commercio di carbonio, e scambio di tecnologie a fronte di finanziamenti lasci progressivamente il passo ad un approccio di 'sviluppo' e lotta alla poverta' dove la 'terra' con la 't' minuscola acquisisce grande rilevanza. 

Il tema che resta centrale e' quello di assicurare, al di la' della retorica, che il regime internazionale sui cambiamenti climatici che verrà lanciato nel 2015 alla conferenza di Parigi sia fondato sui diritti umani, sociali, economici ed ambientali, la giustizia climatica, l'equita' intergenerazionale. La lucha sigue. Per ricordarlo oggi decine di delegati delle associazioni ambientaliste, movimenti sociali, sindacati ed ONG hanno abbandonato in segno di protesta i lavori."Mentre voi chiacchierate, noi ce ne andiamo" in sostanza il messaggio di chi non vuole sentirsi complice di questo vertice fin dall'inizio ribattezzato "polluters' summit" vertice degli inquinatori. "Ce ne andiamo, ma torneremo" era scritto sui cartelli. Prossimi appuntamenti il prossimo anno a New York, per il vertice straordinario sul clima promosso dal Segretario Generale dell'ONU Ban Ki Moon, e poi per la sessione preliminare della COP20 di Lima che si terrà in Venezuela, e che si annuncia appuntamento di gran rilievo per i movimenti globali che lottano per la giustizia climatica. 

sabato 16 novembre 2013

Varsavia tra presente e passato



Il museo della cultura degli ebrei polacchi è molto bello. Ancora incompiuto, ma la struttura architettonica, la collocazione, il concetto, il percorso interattivo previsto fanno già immaginarlo. E la mostra temporanea in corso, sulla memoria e gli oggetti, è altrettanto bella. I Libri, il viaggio,l'emigrazione, l'errare, i segni di una presenza assente (come direbbe Bauman "artefatti contrabbandati nel corso del tempo") oggetti di famiglia con la loro narrativa, la madreterra, il nascondersi, l'arte. Stasera sono andato a sentire un concerto di musica yiddish, dal cabaret al tango, al klezmer dalla Varsavia alla Tel Aviv degli anni '30, un tuffo nel passato. Da pochi anni la comunità ebraica polacca sta cercando di recuperare la sua memoria, ricostruendo il suo passato. C'erano 3,3 milioni di ebrei in Polonia, la più grande comunità askenazita d'Europa. Un terzo degli abitanti di Varsavia erano ebrei, discendenti di mercanti spediti dal Visir di Spagna e lì poi insediati. Da allora sono stati vittima di vari pogrom, fino alla Shoah quando Il 90% degli ebrei polacchi è stato sterminato. Financo nel 1968 sono stati vittima di campagne antisemite. Qua a Varsavia non riesco a non pensare alla storia. Quella passata, quella presente. E la musica gaia e struggente di questa sera resta nelle mie orecchie. Mi fa immaginare le danze in uno shletl, le scuole talmudiche, la raffinata intellettualità, e la tenace resistenza della prima rivolta di Varsavia, quella del ghetto. Peccato che nel "museo della rivolta di Varsavia" c'è poca traccia di quel pezzo importante di storia, e dignità ribelle. Molto nazionalismo, culto dell'eroe e delle armi, ragazzotti e ragazzotte in divisa mimetica che girovagavano per le sale, un cacciabombardiere a dimensione naturale incastonato in una vecchia centrale elettrica a vapore. Ma anche immagini terribili, terrificanti della Varsavia di prima e quella dopo la guerra. Quella Varsavia che ho attraversato a piedi sotto una sottile pioggia gelata, troppo ben ricostruita per essere vera. Quella Varsavia che avrei voluto vedere decenni or sono, quando assieme ad altri irriducibili antimilitaristi e pacifisti (era il 1979) ci eravamo cimentati in una marcia attraverso l'Europa contro la NATO ed il Patto di Varsavia e venimmo bloccati a malo modo sulla linea del CheckPoint Charlie a Berlino, tirati da una parte e dall'altra dalla polizia militare statunitense e dai Vopos. E rispediti al mittente. Ecco, rientro nel mio albergo, pensando a tutto fuorché ai cambiamenti climatici, la ragione prima del mio viaggio qua in Polonia. Sento freddo: la guerra, l'odio, il razzismo sono lo sterco dell'umanità. 

mercoledì 6 novembre 2013

Usa, De Blasio nuovo sindaco di New York. La Grande Mela cambia registro



6 Novembre, 2013 - Dopo il sindaco-sceriffo Rudy Giuliani ed il tycoon plurimiliardario Bloomberg, New York ha scelto un nuovo sindaco: è Bill de Blasio, di origini italiane, primo democratico a tornare alla guida della città dopo 20 anni. 

Un passato da attivista per i diritti sociali, una vita spesa nell’impegno politico per gli “esclusi”, De Blasio segna uno storico cambio di passo nella vita politica della Grande Mela. Il ritorno dei democratici al governo della città, che per rilevanza politica, economica, culturale può essere considerata quasi una città-stato. Una città che è stata attraversata dal movimento Occupy, che da Zuccotti Park ha lanciato una sfida al modello gerarchico proprio delle famiglie politiche storiche degli States, mettendo a nudo le contraddizioni proprie del modello economico e finanziario che proprio in Wall Street vede il suo simbolo primo. New York, città cosmopolita, della grande finanza ma anche dei “barrios” marginali, una città nella quale si sperimentano pratiche altre di gestione degli spazi urbani, dove la “New York invisibile” e “sotterranea”, da oggi potrà avere un valido interlocutore. 

De Blasio ha messo al centro del suo programma gli esclusi, non la New York di Broadway o Battery Park, dei quartieri alti di Manhattan e Central Park, ma quella di Queens, Harlem, Brooklyn, dei quartieri “neri” ed ispanici, ormai diventati un buco nero nel quale il modello liberista e di finanziarizzazione dell’economia inghiotte diritti e dignità delle persone. Basta attraversare uno dei ponti che collegano Manhattan alla terraferma, e si apre uno scenario simile a quello espresso con crudezza e grande perizia dal grande giornalista investigativo Chris Hedges e dal grande padre del “graphic journalist” Joe Sacco nel loro “Days of Destruction, days of revolt” che guarda caso termina proprio con una nota di speranza, parlando del movimento Occupy Wall Street. 

A questo De Blasio contrappone un programma di rilancio della spesa sociale, di giustizia fiscale, di rafforzamento degli asili nido e di miglioramento della legge sui salari minimi. De Blasio incarna uno dei miti fondanti degli Stati Uniti, il “melting pot”, visto l’incrocio delle sue origini e la sua stessa compagna di vita, un’attivista afroamericana per i diritti civili. Un mito fondante che però non si è tradotto in individualismo sfrenato, e corsa alla conquista del successo, ma in impegno politico e di solidarietà internazionalista e non. Insomma, un sindaco progressista, liberal – nel senso americano del termine – nel cuore della finanza globale. 

Un sindaco che prima di tutto vorrà affrontare il tema delle diseguaglianze in una città nella quale il 20% più povero della popolazione lo scorso anno guadagnava in media poco meno di 9mila dollari l’anno, ed il 5% più ricco 437mila dollari. Che si impegna a fare passi in avanti nell’edilizia popolare verso la meta di 200mila nuove abitazioni a prezzi accessibili. E che farà da tandem con un altro democrat di origini italiane, il figlio di Mario Cuomo, Andrew, oggi governatore dello stato di New York. Insomma, da domani Gotham City potrebbe essere meno città degli affari e dell’esclusione e più città di tutti i newyorkesi, e non solo, Un laboratorio inedito per declinare in maniere altrettanto inedite un diritto di ognuno, il diritto alla città e ad una vita dignitosa. Auguri Mr. De Blasio.

giovedì 31 ottobre 2013

Quello che avremmo diritto a sapere delle missioni di "pace" all'estero



É in corso alla Camera il dibattito sul decreto-missioni, che ritualmente offre l'opportunità per varie considerazioni riguardo l'uso della forza, la presenza militare italiana in teatri di conflitto o post-conflitto, ed ipoteticamente la possibilità del Parlamento di operare un controllo democratico sull'impegno internazionale del nostro paese. Ogni volta invece, altrettanto ritualmente, il dibattito parlamentare, incardinato su un decreto che racchiude varie tipologie di missioni, financo impegni di cooperazione, non riesce ad andare a fondo sulle sfide, le contraddizioni, le alternative che si offrono per la costruzione della pace in aree martoriate da conflitti più o meno latenti o asimmetrici. É il caso dell'Afghanistan, Il decreto rifinanzia la presenza italiana in ISAF per i prossimi tre mesi, e così sarà fino al 2014 quando l'Italia entrerà nella missione NATO Resolute Support. A tal riguardo giova ricordare che la posizione di SEL è che la NATO esca dall'Afghanistan accelerando il ritiro delle truppe di ISAF e che semmai parte eventuali compiti di formazione delle forze di polizia vadano assegnati ad una missione ONU o dell'Unione Europea. Questo in una situazione politica nel paese che nel 2014 diventerà ancor più critica sia per quanto concerne il percorso verso le prossime elezioni del 2014, che l'eventuale negoziato con i Talebani. Troppi punti restano ancora oscuri anche sulla presenza italiana dopo il 2014. nella missione Resolute Support, che sappiamo prevederà la permanenza di istruttori militari nella regione di Herat. Rnull'altro ci è dato sapere rispetto al numero di effettivi, la loro dislocazione a Herat, l'eventuale presenza di truppe speciali a protezione e riguardo ad un accordo di cooperazione con l'Ucraina in virtù del quale l'Italia fornirà supporto tecnico e logistico ad un contingente Ucraino presso la base italiana di Herat. Particolari non di poco conto, che portano alcuni osservatori del settore difesa a concludere che Resolute Support sarà né più e né meno una ISAF 2.0. Altro teatro a rischio il Mali, dove l'Italia partecipa sia alla EUTM, missione di addestramento dell'Unione Europa, che a MINUSMA , la missione ONU di stabilizzazione, affiancata da un contingente di forze di intervento rapido francesi. Questo in un quadro politico assai fluido dopo l'elezione del nuovo presidente Ibrahim Boukabar Keita, Quali le prospettive per una soluzione negoziata alle rivendicazioni di autonomia delle popolazioni del Nord, in particolare i Tuareg dell'Azawad? La frontiera Nord del Mali è una terra di nessuno, dove nessuno riesce ad assicurare il controllo del territorio, AQIM (Al Qaeda in Mali) risulterebbe ormai insediata in tutta quella fascia che va dal Niger, al Sud della Libia, e gli scontri e conflitti a fuoco si stanno moltiplicando. I punti cruciali per costruire un futuro di pace nel paese sono il lancio di negoziati di pace inclusivi, prepararsi per le prossime elezioni politiche previste per fine Novembre, la riforma del settore della sicurezza e il rafforzamento istituzionale. Su questo l'Italia dovrebbe avanzare delle ipotesi di lavoro, in particolare in vista della presidenza di turno UE del 2014 per proporre una strategia regionale per tutto il Sahel e che affronti in maniera innovativa i nodi della sicurezza, della governance, e della lotta alla povertà e rilanciare il piano Sahel proposto da Romano Prodi. Sulla Libia il quadro è chiaro ed assai preoccupante, il decreto finanzia EUBAM, missione europea di pattugliamento delle frontiere e la fase due dell'Operazione Cirene, la Missione Militare Italiana in Libia (MIL) che solleva molte preoccupazioni se vista in collegamento con il piano G8 per la Libia, coordinato dall'Italia che prevede tra l'altro un programma per il disarmo delle milizie paramilitari (si parla di almeno 200mila miliziani armati) , Anche qui tutto il tema del controllo della frontiera sud riemerge per quanto riguarda l'impegno preso dall'Italia a livello di G8 di coordinare ed essere il paese maggiormente impegnato nel Piano G8 per la Libia. Si finanzia giustamente con 4 milioni di euro l'OPAC per la missione di messa in sicurezza ed eliminazione del programma chimico siriano, Secondo gli ultimi dati risulterebbe che il loro lavoro stia procedendo positivamente. Resta il punto politico relativo al rilancio del negoziato Ginevra II, ora in mano finalmente alle Nazioni Unite nella figura del'inviato speciale Lakdar Brahimi, Il rilancio del negoziato sembra in fase di pericolosa impasse, soprattutto perchè Iran, Russia e Siria sarebbero contrarie a impostarlo sui principi di Ginevra I, in particolare per quanto riguarda il ruolo ed il destino di Assad. Ed anche per le spaccature all'interno delle varie fazioni "ribelli". Eppoi c'è il capitolo assistenza umanitaria sulla quale l'Italia si è già impegnata, mentre Sinistra Ecologia Libertà propone un ordine del giorno in sostegno ad un'iniziativa internazionale da parte del Governo Italiano per mettere intorno ad un tavolo le organizzazioni ed associazioni della società civile siriana che rifiutano la logica dello scontro armato e attuano forme di resistenza nonviolenta e mutualismo dal basso. Per ultimo e non da meno, l'area di crisi del Sudan-Sud Sudan. L'Italia partecipa a UNMISS in uno scenario sempre assai teso prima e durante il processo di indipendenza del Sud Sudan in particolare per una controversia su una citta di frontiera, Abyei, sulla quale è stato proposto un referendum , ma soprattutto per il tema del controllo delle ingenti risorse petrolifere del Sud Sudan ed il diritto di passaggio per gli oleodotti che dovrebbero trasportate il petrolio in Sudan.  Il decreto rifinanzia anche la partecipazione italiana a UNFIL II in Libano, ed altre presenze e partecipazioni a missioni ONU, NATO (quali KFOR in Kosovo) e dell'Unione Europea. Una modalità che non permette di andare a fondo nella valutazione politica caso per caso, confinando appunto la discussione sull'aspetto militare” e non sulle sfide per la diplomazia e per eventuali soluzioni politiche ai confitti, Né è permesso al Parlamento ed all'opinione pubblica di avere la possibilità di partecipare attivamente alla discussione ed alla formulazione di raccomandazioni che vadano al di là della scelta tra il “prendere o lasciare” sottintesa in un decreto di tal tipo.   

sabato 19 ottobre 2013

Funerali di stato per le vittime della tragedia di Lampedusa? Propaganda pura


Così ci sarà un funerale di Stato - ora ridefinito  "cerimonia solenne" - per le vittime del naufragio di Lampedusa. Dietro quello che sembra essere un atto storico si cela invece la realtà. La realtà è che nessuno dei parenti delle vittime è stato messo in grado di partecipare, visti i tempi ristretti dell'annuncio. La realtà è che questa finirà per essere solo un'operazione mediatica per nascondere il fatto che piuttosto che impegnarsi per rivedere alla radice tutta la legislazione criminogena e liberticida che regola il tema dell'immigrazione nel paese, il governo stanza fondi e mezzi per blindare ulteriormente la frontiera sud La realtà che ci raccontano le associazioni di esuli, dell'opposizione democratica eritrea nel ostro paese è che con quella cerimonia, alla quale parteciperà l'ambasciatore eritreo in Italia, il regime di Isaias Afeworki potrà mostrare un volto "umano" e riabilitarsi. La realtà è che quelle centinaia di disperati fuggivano da quel regime, che considera l'emigrazione un reato, per il quale possono essere perseguite anche le famiglie che restano in patria. La realtà - e questo e gravissimo - è che quell'ambasciatore ed i suoi sono stati a Lampedusa per registrare, schedare fotografare i sopravvissuti e ricattare le famiglie in Eritrea. La realtà tragica è che qualora le salme venissero rimpatriate e le famiglie volessero accogliere, ciò equivarrebbe ad una autodenuncia con tutte le conseguenze del caso. Ecco, quando ci verranno propinate immagini di circostanza, con ministri ed autorità con il volto addolorato, ricordiamocela la realtà 

martedì 15 ottobre 2013

il Risiko del Mediterraneo

Bene, ora il governo Letta-Alfano decide di giocare pure a Risiko in mare. Mare Nostrum, di chi? Perché quel mare non è anche di chi lo attraversa o di chi vive sulle sponde del cosiddetto Sud da millenni? Per chi? Una nuova cortina militare, con elicotteri, droni, e navi da guerra. Per salvare i migranti dicono, per bloccarli e rispedirli al mittente probabilmente. Qualcuno poi ci spieghi quali garanzie verranno date ai "migranti", già perché chi scappa dalla guerra e dalle persecuzioni dovrebbe essere chiamato in altra maniera , ma tanto fa lo stesso, è clandestino fino a prova contraria - che possano accedere alle regolari procedure di richiesta di asilo o riconoscimento dello status di rifugiato, a bordo delle navi da guerra. Mica per altro, chi monitora? Chi controlla che le norme di diritto internazionale verranno rispettate? Dopo Frontex, le missioni EUBAM, il Piano G8 per la Libia, gli accordi bilaterali sulla difesa tra Italia e Libia, il Mediterraneo del Sud diventa una vera cortina di ferro.

venerdì 11 ottobre 2013

Forum Politiche internazionali SEL - 6 ottobre 2013



Verbale riunione Forum nazionale di SEL sulle politiche internazionali, Europa, pace, Cooperazione

6 ottobre 2013

presenti: Francesco Martone, Elettra Deiana, Pasqualina Napoletano, Alessandro Fioroni, Gregorio Malavolti, Cinzia Terzi, Laura Zeppa, Paolo Tamiazzo, Lalla Cappelli, Gianni Tarquini, Enrico Calamai, Gianfranco Benzi, Anna Maria Ceci, Rafaella Chiodo, Sara Prestianni, Raffaele Fargnoli
collegate su Skype: Chiara Tamburini, Francesca La Forgia


Azioni:

    costituzione gruppo di lavoro cooperazione , referenti iniziali – Anna Maria Ceci, Raffaella Chiodo, Gianni Tarquini – chi volesse aderire può scrivere a internazionale@sxmail.it
    costituzione gruppo di lavoro Palestina . Referente Lalla Cappelli – anche in questo caso potete scrivere a internazionale@sxmail.it
    Politiche europee di sicurezza e difesa - Preparazione di dossier ed altre iniziative - Elettra Deiana deiana.elettra@gmail.com
    creazione pagina Facebook del Forum. Referente Alessando Fioroni alessandro.fioroni@gmail.com

Francesco introduce riassumendo alcuni temi di lavoro. Per quanto riguarda l'Europa in particolare cita il lavoro di preparazione per la prossima riunione del Consiglio Europeo di dicembre sulla politica europea e di difesa, la stesura dei policy papers su democrazia transnazionale, diritti, social compact, ambiente e esteri-difesa. Informa sul percorso congressuale e sulle iniziative sull'Europa, tra cui il seminario sul PSE e le politiche economiche organizzato dal Forum di SEL Lombardia ed il programma di seminari in cantiere a cura di Sel Belgio ed altri circoli europei.

Sulla Palestina, informa della presentazione di un'interrogazione sulla partecipazione della ditta Pizzarotti nella costruzione di un treno ad alta velocità e sull'idea di iniziare a lavorare per preparare un'eventuale visita di SEL in Palestina.

Sulla Cooperazione allo sviluppo il governo si accinge a presentare un proprio ddl di riforma presso la Commissione Esteri al Senato, mentre sulla Siria viene illustrata la posizione presa da SEL riguardo il paventato intervento militare internazionale.

SEL si è opposta ad ogni forma di intervento militare anche con l'avallo eventuale del Consiglio di Sicurezza giacché in queso caso il tema della legittimità non risolveva quello dell'efficacia dell'azione, poiché qualsiasi tipologia di intervento militare nell'area avrebbe allontanato la possibilità di un rilancio del negoziato Ginevra II, ed al contempo innescato una spirale di violenza su scala regionale.

Propone poi di dedicare parte della riunione su Lampedusa, e su un aggiornamento della situazione in Libia e informa sull'imminente dibattito in Parlamento del decreto missioni.

Elettra informa sulla presentazione di un'interpellanza in Commissione Esteri al Senato sul prossimo Consiglio Europeo sulle politiche di sicurezza e difesa di dicembre. Ricorda come il tema sia stato già affrontato dal governo italiano con la prodzione di un documento congiunto tra Esteri e Difesa (“More Europe” ) nonché dall'Assemblea Francese e dalla Commissione Esteri del Senato francese. Queste ultime hanno sviluppato una posizione avanzata rispetto a “More Europe”che va oltre l'approccio di difesa europea per una concezione strategica della difesa europea. In questo quadro la scadenza del Consiglio Europeo di dicembre assume importanza sia per i temi della difesa che per la relazione tra politiche di sicurezza e difesa e politica estera dell'Unione. Per questo si ritiene necessario organizzare, anche nell'ottica dell'elaborazione del programma di SeL per le prossime europee, un seminario-convegno sulle politiche europee di difesa e sicurezza prima del mese di dicembre. In termini di analisi, Elettra sta lavorando ad un documento base, e sottolinea come sia importante avere dati comparati sulle politice di difesa in vari paesi europei, sui processi di integrazione, l'organizzazione dello strumento militare e le strategie di sicurezza, al fine di comprendere come meglio superare quella che gli analisti del settore chiamano “cacofonia” europea. Inoltre andrà esplorato criticamente il rapporto tra difesa europea e NATO, e come quest'ultima abbia di fatto impedito lo sviluppo di una difesa europea. Laura Zeppa illustra le direttrici di lavoro della Rete Disarmo sia per quanto riguarda il Consiglio Europeo che il lavoro sui sistemi d'arma, e sul tema del personale militare e dei diritti dei lavoratori, mentre Chiara Tamburini verificherà la possibilità di accedere ad alcuni centri di ricerca ed analisi a Bruxelles. Elettra e Laura si incontreranno a breve per lavorare sul dossier.

Sul tema dei Balcani e del seminario nazionale discusso nel corso della precedente riunione del Forum, Francesca La Forgia illustra i vari assi tematici sui quali verrà sviluppata la proposta di lavoro tra cui l'analisi attuale della situazione socio-politica-economica nell'area, il ruolo del movimento pacifista, questioni quali la criminalità organizzata. Francesco ha partecipato ad un attivo regionale di SEL Puglia per discutere di questo, e si è deciso di tenere il seminario possibilmente dopo il Congresso nazionale di SEL di Gennaio 2014. Nel frattempo si lavorerà ad un documento condiviso di analisi sulla situazione nei Balcani.

Cinzia Terzi aggiorna sulla questione Sahrawi, sul lavoro dell'intergruppo parlamentare e sulla preparazione dell'incontro europeo di solidarietà con il popolo Sahrawi, EUCOCO che si terrà a Roma il 15-17 novembre prossimi. Arturo Scotto ha intrapreso al riguardo una serie di iniziative alla Camera, e si sta lavorando alla presentazione in Senato di una mozione parlamentare condivisa. L'integruppo parlamentare organizzerà una conferenza il 14 novembre alla quale verranno invitati parlamentari di altri paesi (il Congresso USA ha di recente istituito per la prima volta un integruppo Sahrawi)

Altra proposta di iniziativa emersa nel corso della riunione quella di chiedere l'allargamento del mandato della MINURSO per svolgere attività di monitoraggio dei diritti umani, tema che potrebbe essere sollevato in occasione del dibattito parlamentare sulle missioni all'estero. Chiara informa sul dibatitto sul Sahel in Parlamento Europeo e sulla controversia sorta riguardo alla possibilità di includere il Sahara Occidentale in un rapporto del PE sulla regione, dibattito che si è risolto con la decisione di non includere il Sahara Occidentale nel titolo del rapporto, ma di permettere di inserire il tema attraverso emendamenti al testo.

Raffaele Fargnoli di SEL Belgio informa sui seminari sull'Europa che il circolo di SEL Belgio sta organizzando assieme ad altri circoli SEL in Europa, ed in particolare quello del 1 ottobre sul Fiscal Compact e la democratizzazione della governance europea e quello di novembre sul social compact ed il Welfare europeo.

Si passa poi a discutere della questione di Lampedusa e sulle politiche europee in tema di migrazioni.

Pasqualina Napoletano introduce sottolineando come nel dibattito politico italiano l'Europa è messa in ballo in modo strumentale, mentre importante è l'iniziativa francese per la convocazione di un vertice d'urgenza sulla questione Lampedusa. In realtà le politiche europee in tema di immigrazione sono identiche a quelle italiane, ad eccezione in passato delle proposte contenute nel documento dell'allora commissario Vitorino, lungimiranti in quanto andavano oltre l'approccio “immigrazione-zero” per governare il fenomeno migratorio piuttosto che reprimerlo. Nel riesaminare pertanto la legge Bossi-Fini andrà tenuto conto che le direttive europee in alcuni casi sono peggiori della Bossi-Fini e che nelle politiche intergovernative non esiste differenza tra sinistra e destra. Di fatto la direttiva europea ha incoraggiato la Bossi Fini. Sottolinea poi la necessità di massima cautela nel trattare il tema del soccorso in mare e quello delle pene per supporto all'immigrazione clandestina e su come introdurre le giuste modifiche a livello italiano ed europeo. A tal riguardo suggerisce una collaborazione con forze politiche spagnole, maltesi e greche per sviluppare una proposta ed iniziativa politica della sinistra mediterranea.

Sara Prestianni svolge poi una relazione sulla Libia. La collaborazione tra Italia e Libia viene promossa come opportunità per salvare gi immigrati quando in realtà l'intenzione è di rafforzare Frontex e le politiche di interdizione. Ripercorre le varie tappe della collaborazione tra Italia e Libia a partir dal trattato firmato nel 2008 tra Berlusconi e Gheddafi, l'accordo tra l'allora ministro Cancellieri ed il CNT libico nel 2011, un Memorandum di Intesa nel settore difesa per cooperazione militare ed immigrazione nel 2012. Nel giugno 2013 in occasione del G8 Barack Obama contatta Enrico Letta per chiedere all'Italia di farsi carico della Libia.

La situazione in Libia è estremamente critica, tra la mancanza di legittimità del governo filo-francese di Ali Zeidane e l'aumento di conflitti intertribali al punto che il governo centrale non è in grado di esercitare alcuna forma di controllo sul territorio nazionale. La frontiera sud è caratterizzata da confliti intertribali, e dal traffico di eroina, con la presenza di una cellula di Al Qaeda. La Libia di fatto è una “mina vagante” per il G8, ed in tal senso va letta anche la decisione americana di rafforzare la presenza militare a Sigonella e nelle basi in Niger.

L'impegno italiano per il piano G8 in Libia prevede la formazione di militari e poliziotti libici in basi NATO in Sicilia e Sardegna (il piano totale prevede la formazione di almeno 19500 militari e poliziotti in 4 stati europei), e la loro formazione sull'applicazione del codice civile e penale, il controllo delle frontiere, e la formazione alle nuove tecnologie. C'è poi un piano pilota per la consegna delle armi da parte dei ribelli, che potrebbe rappresentare un grande rischio per l'eventuale partecipazione diretta dell'Italia.

Riguardo al piano Libia esistono altre criticità quali la mancanza di chiarezza sui fondi previsti, e quale personale verrà utilizzato. Va poi ricordato che lo scorso 1 ottobre si è svolto a Tripoli un incontro tra i Capi di Stato Maggiore di Italia e Libia per il rafforzamento della cooperazione militare e lanciata la “missione militare italiana in Libia” (MMIL) http://english.libyanembassy.org/?p=6053

Per quanto concerne il quadro europeo, e la collaborazione tra UE e Libia questa si sviluppa anche attraverso EUBAM http://www.eeas.europa.eu/csdp/missions_operations/eubam-libya/eubam_factsheet_en.pdf. Il Consiglio europeo ha stanziato 30 milioni di euro l'anno per il controllo delle frontiere sud, e deciso l'invio di 165 addetti UE per il controllo delle frontiere.
Nel settembre 2013 si è tenuto un incontro UE-Libia a Madrid sul programma Sea Horse, (monitoraggio terra-mare) http://www.imp-med.eu/En/image.php?id=125 il cui obiettivo è quello di bloccare i migranti in Libia sulla frontiera Niger-Sudan e sulla frontiera marittima.

Sara riferisce poi delle testimonianze da lei raccolte nei campi in Libia e Niger secondo le quali la caccia all'uomo contro i migranti sarebbe ora peggio che nei tempi di Gheddafi

Sulla cooperazione UE-Libia andrà fatta chiarezza sugli aspetti umanitari e sul coinvolgimento dell'Italia nella strategia di controllo delle frontiere, ovviando ad un evidente deficit di controllo democratico sulle politiche in tema di immigrazione e controllo delle frontiere.

Raffaella Chiodo sottolinea come la situazione in Libia si stia avviando verso uno scenario simile a quello della Somalia, e che esiste un precedente che potrebbe presentare spunti per un approccio olistico e per un ruolo dell'Italia nel quadro ONU, ovvero il caso del Mozambico. La situazione libica va inserita in una quadro di revisione delle politiche euromediteranee, ed il quadro che si propone all'indomani della tragedia di Lampedusa impone una riflessione a tutto campo che comprenda anche le politiche di cooperazione internazionale dopo il 2015, i temi della giustizia economica, il debito.

Francesco aggiorna sullo stato dell'arte del dibattito sulla cooperazione, l'imminente presentazione del DLL di iniziativa governativa da parte del viceministro Pistelli, e della necessità di costituire un gruppo di lavoro del Forum che possa fornire supporto all'iniziativa di SEL e dei parlamentari di SEL. Il gruppo di lavoro viene costituito ed è formato inizialmente da Anna Maria Ceci Raffaella Chiodo e Gianni Tarquini presenti alla riunione.

Si passa poi al Medio Oriente e Palestina. Si concorda che sul Medio Oriente e Maghreb si terrà aperto un canale di scambio e discussione costante, e piuttosto che costituire un gruppo di lavoro generale al momento si concenterà l'attenzione sulla questione palestinese. Maghreb e Medio Oriente saranno temi permamenti di discussione ed approfondimento nelle riunioni del Forum e qualora emergesse l'esigenza di costituire gruppi di lavoro dedicati ciò verrà discusso e concordato.

Sulla Palestina Pasqualina ricorda la costituzione del gruppo Italia-Palestina il cui presidente è Vincenzo Vita e come la Palestina sia diventata un tema residuale nel dibattito politico, mentre alla Camera nn esiste neanche un intergruppo Palestina. Propone che i parlamentari di SEL aderiscano al gruppo Italia-Palestina. Gianfranco Benzi richiama l'attenzione sulla necessità di rifocalizzare la nostra attenzione sulla questione israelo-palestinese , riposizionandone la lettura con intelligenza, contestualizzandola diversamente e con nuove parole d'ordine. Sarà anche opportuno lavorare alla preparazione di una missione di SEL in Palestina, possibilmente preceduta da una partecipazione di parlamentari di SEL ad uno dei viaggi di approfondimento-studio organizzati da Luisa Morgantini.
Paolo Tamiazzo ricorda due elementi, il promo quello di riprendere rapporti al di fuori del Parlamento sulla questione palestinese e poi compnrender meglio quali siano le realtà palestinesi in Italia. Viene costituito infine un gruppo di lavoro Palestina facilitato da Lalla Cappelli.

Sulla comunicazione Alessandro Fioroni aggionra sulla discussione tenutasi in rete e si concorda sulla possibilità intanto di aprire una pagina FaceBook e verificare la possibilitò di aprire una sezione esteri-internazionale nel sito ufficiale di SEL.

giovedì 10 ottobre 2013

Il pantano libico e le missioni militari dell'Italia


Il rapimento del primo ministro libico Zeidan avvenuto oggi a Tripoli è solo la punta dell'iceberg di una conflitto e di un processo di completa destabilizzazione in corso in Libia. Dall'intervento militare internazionale ad oggi il paese è caduto in mano di diversi gruppi armati, milizie paramilitari, cellule integraliste e Qaediste. Il governo centrale nei fatti controlla solo - e neanche più a questo punto le due città di Tripoli e Bengasi. Leggendo in filigrana gli ultimi eventi, l'arrivo di 200 marines a Sigonella, la recente operazione dei Navy Seals conclusasi con la cattura di un sospetto terrorista qaedista, ora agli arresti a bordo di una nave militare USA (insomma un ritorno al passato, una rendition a tutti gli effetti), il rapimento di Zeidan, e le notizie che giungono di conflitti intertribali c'è da essere molto preoccupati. L'unica fonte di entrate per il governo filofrancese di Zeidane è il petrolio, e la produzione del petrolio ora è stata ridotta proprio per l'instabilità sui territori. Nel frattempo la frontiera sud resta terra di nessuno. Bande armate, cellule qaediste, trafficanti di esseri umani e di eroina. Chi ci è stato ci dice che la caccia all'uomo contro i migranti oggi è giunta a livelli tragici e che di fatto i campi di detenzione sono gestiti da esponenti di tribù in armi. In questo contesto, la Libia si avvia a diventare quello che gli esperti del settore chiamano "failed state". stato fallito, prima ancora di essere "ricostruito". La comunità internazionale, il G8, l'Unione Europea continuano a guardare alla Libia come frontiera esterna da "blindare", non a caso sia il piano del G8 che le nuove operazioni della UE, EUBAM e Sea Horse principalmente sono indirizzate al controllo e "securitizzazione" delle frontiere. E l'Italia? Se con il governo Berlusconi il leitmotiv era quello del business in cambio di "compensazioni" per supposti danni di guerra, oggi il leitmotiv è quello della sicurezza o supposta tale. Così il 3 ottobre scorso è stato firmato a Tripoli un memorandum d'intesa per una missione militare italiana in Libia, mentre l'Italia oltre che a partecipare ad EUBAM (che verrà finanziata nell'attuale decreto missioni ora al vaglio del Parlamento) è capofila del piano Libia del G8,  incarico preso su richiesta esplicita di Barack Obama all'ultimo G8. Obiettivi del piano, quelli di addestrare quasi 20mila soldati e poliziotti libici, attivare piani pilota per il disarmo delle milizie (come e chi lo farà non è dato sapere, ma è un dettaglio chiave: il rischio di cacciarsi in un nuovo Vietnam alle porte di casa è evidente), contribuire alla ricostruzione della "governance" nel paese (sic!), attivare piani per il controllo della frontiera sud. Insomma il rischio evidente di andarsi a cacciare in un pantano senza prospettive. Noi di Sinistra Ecologia e Libertà seguiremo gli sviluppi della situazione in Libia, concentrando la nostra attenzione dapprima sul tema della securitizzazione delle frontiere, e della gestione dei flussi migratori, per chiedere il rispetto dei diritti umani, della dignità delle persone, e l'apertura di canali umanitari. Anche per questo stiamo incontrando ed incontreremo esponenti della società civile e delle associazioni di eritrei per la democrazia in Italia. E poi chiederemo conto di tutti gli accordi firmati dal nostro paese sulla Libia, per avere un quadro di insieme sia per quanto riguarda l'aspetto bilaterale, che quello della UE e del G8. Esiste un evidente deficit di democrazia, e l'urgenza di un dibattito parlamentare su tutta la vicenda libica. Ed anche un sottotraccia altrettanto preoccupante che vede il ministero della Difesa operare in maniera pressocché autonoma nelle direttrici di politica estera. Oltre all'accordo per la missione militare italiana in Libia c'è da ricordare l'accordo di cooperazione nel settore della difesa firmato ad agosto con l'Ucraina, che prevede il supporto logistico e non solo di un contingente di truppe ucraine che andranno ad affiancare il contingente italiano ad Herat in Afghanistan, con buona pace di chi continua a dirci che dopo il 2014 l'Italia ridurrà la sua presenza militare  nel paese. 

giovedì 3 ottobre 2013

Un canale umanitario nel Mediterraneo

Il Presidente della Repubblica non si smentisce. Di fronte all'ennesima tragedia del mare si appella all'Europa affinché si investa di più nel programma Frontex, e nel pattugliamento delle coste. Ossia nella blindatura delle frontiere piuttosto che nella radicale revisione delle politiche di contrasto all'immigrazione verso un' approccio che metta al centro la dignità della persona, ed i suoi diritti. Non motovedette, ma canali umanitari, e tutela della sicurezza umana di chi attraversa il mare in cerca di un futuro migliore e non delle frontiere per un Mediterraneo mare aperto di vita e non di morte. Ma a questo paese, il fatto che quelle centinaia di disperati venissero dall'Eritrea e dalla Somalia proprio non dice nulla?

mercoledì 21 agosto 2013

Gli "errori" del Ministro Mauro ed il silenzio del PD



da: Il Manifesto, 22 agosto, 2013
di Francesco Martone - responsabile esteri  SEL 

Le dichiarazioni del ministro Mauro sulle missioni di “pace” e quanto “valga la pena di essere in Afghanistan” al Meeting  di Rimini chiamano ad un commento possibilmente non rituale sul tema. L'ostinatezza con la quale si continua a rivendicare la giustezza della presenza militare italiana in Afghanistan denota la grave indisponibilità a  ridiscutere la “mission” dell'Italia nel mondo, su come intervenire in conflitti ormai compositi, asimmetrici, nei quali la componente militare risulta essere inadeguata allo scopo. E dove semmai l'Italia dovrebbe privilegiare gli aspetti civili della sicurezza e della prevenzione. 

 Esiste una sorta di rimozione  al riguardo, non solo circa l'assenza di una volontà politica “bipartizan” a considerare il ritiro immediato delle truppe e modalità differenti (per esempio la cooperazione civile) con le quali evitare di abbandonare il popolo afghano al suo destino.   La rimozione riguarda il pregresso, assunto acriticamente come fonte di legittimazione per il futuro. 

Questo governo ha confermato l'impegno del governo Monti di sostenere la nuova missione NATO in Afghanistan “Resolute Support” dal 2015. Una scelta che verrà presentata tra qualche settimana al Parlamento come un “fatto compiuto”, dove l'Italia è unico paese Europeo assieme alla Germania a decidere di restare sul campo dopo il 2014. E mentre a chi sollecitava il ritiro delle truppe prima del 2014 si rispondeva che ciò a nulla sarebbe valso giacché il cronogramma era stato già fissato alla fine dell'anno, dietro le quinte già si stava prendendo - senza alcun tipo di dibattito pubblico o parlamentare circa modalità e giustificazioni - la decisione di restare in Afghanistan anche dopo. Per questo chiedere che l'Italia annunci ora l'intenzione di anticipare il ritiro dal contingente ISAF e di rivedere la propria partecipazione a “Resolute Support” sarebbe un segnale di discontinuità necessario per discutere sull'Afghanistan senza eredità di sorta. E' chiaro infatti che in quello scenario non dovrà esserci la NATO seppur nelle sembianze di una missione di “training” di quadri militari, in un contesto strategico conflittuale e poco chiaro, nel quale la Casa Bianca continua a non escludere il ritiro definitivo delle truppe. 

Nulla di simile sembra essere mai stato contemplato a livello istituzionale in Italia. Nessuna discussione critica, nessuna valutazione chiara e trasparente dell'efficacia della presenza militare, dei progetti di ricostruzione, nessuna cifra riguardo le vittime civili, o i danni “collaterali” conseguenti alle missioni italiane. 

Solo parole di circostanza per legittimare una missione  che non può  essere considerata di interposizione, quale UNIFIL II. Oltre alle verità assiomatiche, infatti,  il ministro fa – nelle sue dichiarazioni - di tutta l'erba un fascio. 

Assimilare missioni differenti per mandato, regole d'ingaggio e cornice legale ed istituzionale, quali ISAF (NATO) e UNIFIL II (missione di caschi blu ONU) non è solo un errore di interpretazione, ma di nuovo sintomo di scarsa chiarezza sulla “mission” dell'Italia. A differenza di ISAF, infatti, UNIFIL è servita infatti a disinnescare il rischio di un nuovo conflitto anche perché non dotata di vocazione “combat” o offensiva,ma di interposizione e riconosciuta come super partes tra le parti in conflitto. Forse al ministro questo dettaglio è sfuggito. 

venerdì 16 agosto 2013

Tenere il petrolio sottoterra, proteggere Yasuni

La decisione annunciata ieri dal Presidente dell'Ecuador Rafael Correa di chiudere l'iniziativa ITT Yasuni e riaprire la frontiera dell'estrazione petrolifera in quell'area incontaminata è grave. Grave perchè ITT Yasuni era ed è simbolo di una via possibile di uscita dalla dipendenza da petrolio, sia per quanto riguarda il modello e la matrice di sviluppo di un paese produttore che per quanto riguarda il modello di sviluppo dei paesi importatori. Proprio in queste settimane arrivano notizie importanti: la Banca mondiale decide di non sostenere più progetti per lo sfruttamento del carbone, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo sviluppo sta considerando di fare altrettanto. Insomma la decisione di Correa sembra andare in controtendenza. Tenere il petrolio sottoterra e proporre uno schema sul quale far convergere l'impegno della comunità internazionale è una via innovativa che andrà ancora perseguita. Molto si è parlato della ITT Yasuni, ad un certo punto sembrava esistessero ben due iniziative, una, quella del governo e l'altra quella dei movimenti e della società civile. Ora il Presidente Correa annuncia la fine di questo esperimento innovativo, mai decollato in realtà per mancanza di fondi. Resta il dubbio che in realtà nelle menti e nelle intenzioni vere del governo ecuadoriano e del Presidente questo progetto non avrebbe mai dovuto essere messo in pratica giacché rappresenta una sfida al modello estrattivista sul quale si fonda l'economia del paese. Ed allora da oggi la ITT Yasuni torna alle sue origini, nelle mani dei movimenti e della società civile globale alla quale faremo avere il nostro sostegno.

mercoledì 14 agosto 2013

Solo il dialogo può allontanare l'Egitto dal baratro della guerra civile


Osserviamo con il passare delle ore lo svolgimento di una tragedia annunciata in Egitto, un bagno di sangue nel quale rischia di affondare ogni aspettativa di liberazione ed emancipazione per il popolo egiziano e non solo. All'indomani della deposizione di Mohammed Morsi gli osservatori ed esperti si sono interrogati sul come definire gli eventi, se un colpo di stato o una seconda fase della rivoluzione di piazza Tahrir, una Tahrir 2.0. Oggi, di fronte alle vittime della repressione militare, alle rappresaglie, la cosa che appare più evidente è il rischio di una guerra civile e religiosa nel paese. Un rischio al quale la comunità internazionale, l'Italia e l'Europa devono rispondere con determinazione chiedendo l'immediata sospensione della repressione, la riapertura del dialogo tra le parti, ed un'indagine indipendente sulle responsabilità nell'uccisione di centinaia di civili. I fatti del Cairo pongono una serie di questioni estremamente delicate, ma determinanti nella capacità di leggere ed interpretare gli eventi passati e immaginare gli scenari futuri in quell'area. Anzitutto il ruolo chiave dell'esercito, che prima della caduta di Hosni Mubarak, durante la rivolta di Piaza Tahrir, e dopo con l'avvento al potere dei Fratelli Musulmani e la deposizione di Morsi ha sempre mantenuto un ruolo di “playmaker” ora a fianco del popolo, ora attore di una brutale repressione. E ci dimostrano anche il fallimento dell'esperienza politica dei Fratelli Musulmani che dopo aver conquistato il potere, seppur attraverso elezioni politiche, non hanno fatto seguire politiche di rilancio dell'economia e di lotta alla marginalità sociali ed alla disoccupazione. Più in generale ci interrogano sul significato e sul concetto stesso di democrazia della democrazia formale e di quella reale. Di una polarizzazione, quella tra esercito e Fratelli Musulmani nella quale scompaiono i soggetti del possibile cambiamento, quei giovani , donne ed uomini che sono scesi in piazza per rivendicare il diritto ad un Egitto migliore, quella Terza Piazza che non era e non è né con l'esercito, il cui capo supremo Fattah Al Sisi non nasconde le sue ambizioni presidenziali, né con Morsi e le sue pretese di islamizzazione della vita pubblica del paese. Oggi l'Egitto è sull'orlo del baratro, e l'unica maniera per provare a scongiurare il peggio è di tenere aperto il canale del dialogo, e della riconciliazione nazionale, in un processo verso nuove elezioni e la ricostruzione dell'assetto istituzionale del paese che includa i Fratelli Musulmani insieme alle forze laiche e progressiste e le opposizioni popolari che si sono mobilitate nel Tamarod.

giovedì 25 luglio 2013

Solidarietà con il Fronte Popolare tunisino

Sinistra Ecologia e Libertà è accanto  alla famiglia di  Mohamed Brahmi, dirigente del Fronte Popolare e componente della Assemblea Costituente tunisina, ucciso oggi a Tunisi. Abbiamo incontrato nei giorni scorsi Basma Khalfaoui, vedova di Chokri Belaid, invitata ad un dibattito ala Festa Nazionale di SEL, per esprimere il sostegno di Sinistra Ecologia e Libertà a lei, all'impegno suo e del Fronte Popolare per la democrazia, la verità e la giustizia in Tunisia. Questo è il primo passo verso la costruzione di un rapporto di solidarietà e collaborazione con il Fronte Popolare tunisino che oggi piange un suo importante dirigente. Chiediamo al governo italiano di fare tutto ciò che è nelle sue capacità per manifestare la propria condanna per questo ennesimo omicidio politico, in sostegno alla democrazia ed alla libertà di espressione in Tunisia. 

venerdì 12 luglio 2013

per una rivoluzione dei diritti umani


Violazione dell'obbligo di non-refoulement, violazione dei diritti delle popolazioni Rom, respingimento in mare di migranti, mancata adozione di una legge contro la tortura, mancata istituzione di un'autorità indipendente sui diritti umani, mancato recepimento delle fattispecie di crimini contro l'umanità previsti dal Trattato di Roma che istituisce il Tribunale Penale Internazionale, mancata ratifica della Convenzione ONU sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, mancata firma e ratifica della convenzione OIL 169 sui diritti dei popoli indigeni e tribali, voto contrario alla risoluzione del Consiglio ONU sui diritti umani riguardo la possibilità degli stati di andare in default sul pagamento del debito se questo comporti violazioni dei diritti dei cittadini. L'affaire Kazako - che certamente ha a che fare con interessi economico-commerciali - è solo la punta di un iceberg. I diritti umani sono visti come un aspetto secondario nella politica del nostro paese. Quelle che vengono vendute come irregolarità burocratiche, invece sono violazioni di obblighi internazionali contratto dal nostro paese. Quando un essere umano ad esempio viene sfrattato a forza dalla sua casa, il problema non è la burocrazia, il punto è che viene violato il suo diritto alla casa, quando un pazientenon viene sottoposto a cure decenti, il problema non è la carenza di strutture, ma che viene violato il suo diritto alla salute, Quando viene chiusa una scuola, il problema non è la carenza di strutture ma la violazione del diritto all'educazione ed alla cultura. Abbiamo assoluto bisogno di una rivoluzione dei diritti umani in Italia, una volta per tutte, senza slogan o campagne di pubblicità progresso.

Datagate, l’Europa smetta di chiedere spiegazione e ponga il problema di un nuovo rapporto con gli Usa


Anche sul caso Datagate , ed a differenza di quanto hanno fatto Angela Merkel e Francois Hollande, il governo Letta parla linguaggi ambigui, non cogliendo a fondo l’essenza del problema. E’ la natura e la concezione stessa del rapporto che gli Stati Uniti hanno con l’Europa che viene negativamente messa in evidenza. Con il pretesto della lotta al terrorismo si è messo in campo un sistema di spionaggio politico ed economico volto ad assicurare ogni oltre misura una posizione di forza degli Stati Uniti verso l’economia e la politica europea. Ciò di fatto perpetua un rapporto strettamente funzionale di Bruxelles agli interessi economici, militari, geopolitici e strategici di Washington, che si è ripetuto più volte anche dopo la fine della Guerra Fredda, ed al quale ad oggi l’Europa non ha avuto capacità o volontà politica di volersi misurare con una propria idea dei rapporti transatlantici ed una visione autonoma sulla politica estera, l’intelligence, la difesa. Sotto l’ombrello della NATO, alleanza ormai obsoleta rispetto agli assetti politici e strategici globali, l’Unione Europea ha rinunciato quindi al proprio protagonismo. Per questo oggi l’Europa non può limitarsi a chiedere le sia pur doverose spiegazioni, bensì dovrà porre il problema della ridiscussione dei rapporti translantici, siano essi commerciali, politici, militari. Un’urgenza mai come in questo momento evidente a pochi giorni dal previsto inizio del negoziato per l’Accordo transatlantico su commercio ed investimenti di cui sarebbe opportumo che l’Unione Europea chiedesse un congelamento in attesa di un convincente chiarimento sulla vicenda.

Francesco Martone
Elettra Deiana

mercoledì 12 giugno 2013

Giustizia climatica, una sfida per l'Europa che vogliamo


Battute finali dei negoziati preparatori  ONU sul Clima a Bonn. Un appuntamento senza grandi aspettative giacche’  da tempo ormai si sapeva che il 2013, nelle parole del Segretario della Conferenza Christina Figueres sarebbe stato l'anno "della spugna" ovvero l'anno nel quale i governi avrebbero solo esposto le loro ipotesi, idee e posizioni e che nessun negoziato sostanziale si sarebbe avviato. Se non su questioni meramente metodologiche, tutt'altro rispetto alle cifre, in termini di riduzioni delle emissioni e risorse finanziarie. Su questo e su un abbozzo dei  contorni di un accordo vincolante sul clima si dovra' aspettare il 2014. Pero' alcuni elementi emergono fin d'ora. Anzitutto il lavoro costante della Russia che e' riuscita a far saltare ogni trattativa sulle regole decisionali da adottare per arrivare ad un consenso sui temi piu' controversi. Vale la pena di ricordare che Russia e Polonia sono stati i paesi che fino all'ultimo hanno tentato di far deragliare il negoziato alla Conferenza delle Parti di Doha lo scorso anno. Volevano infatti continuare ad essere in grado di vendere le proprie quote di emissione sui mercati ed evitare di "sganciarsi" dallo sfruttamento ed uso di combustibili fossili. Che la Polonia, che avra' la presidenza della prossima conferenza delle parti di novembre non sia un paese "climate friendly" si sapeva, e  nessuno si aspetta molto. Le aspettative vere sono riposte sulla Francia che ospitera' la Conferenza delle Parti nel 2014, anno cruciale per "confezionare" i dettagli dell’accordo da chiudere nel 2015 quando la palla passera' in mano al Peru'.  Insomma si prospetta un asse dell'Est Europa, tra Russia, Polonia e Lituania, che avra' la presidenza UE per l'ultimo semestre del 2013. Un asse che potrebbe mettere a serio rischio il negoziato.  Sullo sfondo il cambio di passo dell'Unione Europa piu' preoccupata di assicurare accesso a fonti energetiche a basso costo alle imprese piuttosto che ad impegnarsi per la mitigazione dei cambiamenti climatici. La pressione delle lobby dell'industria finora ha vinto come  traspariva con nettezza anche nella presentazione fatta dalla UE ieri sulla loro strategia climatica ed energetica. Questo significa una cosa: che il tema della conversione ecologica dell'economia, e della giustizia climatica dovranno essere uno dei pilastri della proposta politica di Sinistra Ecologia e Liberta' per l'Europa che vogliamo. Una proposta forte, concreta, che possa contibuire ad alimentare il dibattito tra le forze progressiste europee, e l'interlocuzione con quelle ecologiste.

venerdì 7 giugno 2013

Per una nuova cooperazione allo sviluppo

Messaggio inviato a Fabio Laurenzi , presidente del COSPE (Cooperazione allo Sviluppo dei Paesi Emergenti) in occasione delle celebrazioni del trentennale della fondazione.

Roma, 7 giugno 2013



Caro Fabio,

anzitutto ringrazio il COSPE per l'invito a partecipare alle iniziative per i 30 anni di vita dell'associazione. Purtroppo non riesco ad essere presente di persona a causa di altri impegni presi in precedenza, però volevo in qualche maniera essere presente oggi con voi.

Conosco il COSPE da anni, una delle ONG che fin da subito aderì alla Campagna per la Riforma della Banca Mondiale che ho avuto il piacere di promuovere assieme ad altre ONG e di coordinare per 5 anni prima di entrare in Parlamento. Ho seguito le iniziative del COSPE sui migranti ed altre importanti iniziative sulle culture migranti quali il premio Mostafà Suir. La mia amicizia e prossimità a voi quindi è di lunga data, ed è fondata sulla condivisione di approcci, filosofia di fondo e pratiche di solidarietà internazionale.

Oggi mi trovo a svolgere un incarico politico con Sinistra Ecologia e Libertà, in qualità di responsabile esteri, Europa e Cooperazione del partito. Spero di poter avere la possibilità di continuare con voi questo scambio fecondo di idee, riflessioni e proposte per nuove pratiche di cooperazione tra i popoli. Un percorso che indubbiamente avrà nei prossimi mesi un versante istituzionale con il rilancio del processo di riforma della cooperazione, u a lungo attesa e sulla quale ci adopereremo con convinzione. Non a caso la cooperazione internazionale è una delle priorità programmatiche di SEL assieme all'Europa, alla pace ed al disarmo.

Crediamo sia però necessario non confinare la nostra proposta ad una mera, seppur non più rinviabile riforma istituzionale. Togliere la cooperazione dal controllo dei diplomatici, individuare una figura di governo forte e di alto livello (la nostra proposta di legge presentata da Giulio Marcon prevede la figura del ministro della cooperazione), un Fondo Unico, un'Agenzia presente nei paesi destinatari degli aiuti, sganciamento della cooperazione dalle missioni militari, slegamento dell'aiuto, coerenza delle politiche sono alcuni dei temi chiave sui quali ci confronteremo.

Ma non basta. C'è necessità di ripensare a fondo il concetto stesso di cooperazione, per dare maggior enfasi ai partenariati territoriali, alla capacità di creare relazioni, mettere in rete pratiche e competenze, insomma passare da un approccio di “pianificazione” e “progetto” ad pratiche relazionali tra comunità. Centrare questi partenariati sul soddisfacimento dei bisogni primari e la promozione e tutela dei diritti umani, ambientali, sociali, ed economici, e costruire attraverso queste pratiche le premesse affinche è destinatari di queste politiche possano diventare essi stessi attori, e protagonisti dei loro processi di liberazione dalla fame, povertà, esclusione sociale, debito ecologico, economico e culturale.

Insomma credo che avremo molte idee e riflessioni da condividere nei prossimi mesi, sia nel percorso di riforma della cooperazione che in quello in corso di preparazione per la Conferenza delle Nazioni Unite sul post-2015. Noi siamo a vostra disposizione.

Buon lavoro a tutti e tutte

Francesco Martone
responsabile esteri, Europa e Cooperazione
Sinistra Ecologia e Libertà  

martedì 4 giugno 2013

Accanto al popolo turco




Quella che era iniziata come una protesta pacifica contro la distruzione di un parco al centro di Istanbul si è trasformata nel corso dei giorni in un movimento popolare di protesta contro il governo Erdogan, le sue politiche di islamizzazione della vita pubblica e privata, l'intreccio nefasto tra interessi economico-immobiliari e elite politiche. Un movimento di popolo  oggetto di una repressione dura e continua,  culminata con l'assassinio di alcuni manifestanti. Un movimento che potrebbe subire un'ulteriore crescita da oggi con lo sciopero di solidarietà indetto dai lavoratori del settore pubblico, mentre nei prossimi giorni potrebbe svolgersi quello dei lavoratori del settore metallurgico. Tutto questo in un Paese indicato come grande potenza economica emergente, come possibile playmaker in tutta la regione. Si ricordano il viaggio di Erdogan in Egitto per sostenere il presidente neoeletto Morsi, l'appello rivolto precedentemente a Hosni Mubarak affinché ascoltasse le ragioni del suo popolo, il sostegno ad Hamas, la linea interventista seguita nel conflitto siriano. Il premier ha tentato di proporsi come il leader di una sorta di neo-ottomanesimo, ambizione poi naufragata miseramente. Una Turchia che ora non guarda più all'Europa ma altrove, all'Asia, al Medio Oriente e che però mostra in questi giorni tutte le sue contraddizioni. Quelle di un paradigma economico neoliberista e di privatizzazioni spinte, che sotto Erdogan ha subito una brusca accelerazione, e di un modello politico autoritario. Oggi il miracolo economico turco perde smalto, i “mercati” si allontanano, la borsa crolla, gli investitori internazionali hanno paura. Oggi Istanbul e tutta la Turchia sono attraversate da un sommovimento di persone che rivendicano dignità, il diritto a manifestare liberamente, a proteggere uno spazio pubblico. Chiedono di essere protagoniste in prima persona delle decisioni che riguardano la loro vita, e non ammettono ingerenze nelle loro scelte personali. Per contro Erdogan ed il suo governo dapprima presi a modello di una coabitazione tra elite militari e forze islamiche, hanno scelto la strada della repressione militare e dell'islamizzazione. É lì che perde la politica, quella politica che i Turchi vogliono rivendicare e difendere a mani nude contro il gas ed i getti d'acqua. Dobbiamo essere accanto a queste donne ed uomini, oggi. Per questo Sinistra Ecologia e Libertà esprime solidarietà con i manifestanti e le manifestanti, condanna la violenta condotta delle forze di polizia turche, chiede al governo itaiano di attivarsi immediatamente presso l'Unione Europea e direttamente con il governo turco affinché cessi la repressione, e si accertino le violazioni dei diritti umani commesse in questi giorni. 

sabato 1 giugno 2013

Istanbul: cessi immediatamente la repressione

Occupy Istanbul. Anche in Turchia arriva l'onda lunga delle rivolte arabe e la repressione della polizia turca continua. All'inizio era un campo di protesta per evitare che i bulldozer distruggessero l'ultimo parco del centro di Istanbul per costruire uno shopping mall. Poi è arrivata la violenza della polizia. Ora il movimento cresce, si articola in una protesta generalizzata contro il governo Erdogan. Da qualche giorno si moltiplicano le manifestazioni di protesta, i cortei, repressi dall'uso smodato di gas lacrimogeni. Sinistra Ecologia e Libertà chiede al governo italiano ed all'Unione Europea di esprimere immediatamente condanna e preoccupazione per questi fatti, ed al governo turco di rispettare i diritti umani, ed il diritto a manifestare.

lunedì 27 maggio 2013

No alla rimozione dell'embargo delle armi UE alla Siria



Oggi i Ministri degli Esteri dell'Unione Europa discuteranno la proposta di un'allentamento dell'embargo di armi alla Siria per "aiutare" i ribelli al regime di Assad. Tra le righe si legge che l'Italia sarebbe disponibile ad un allentamento dell'embargo a condizione che si sappia dove vanno a finire le armi. Qualcuno ci spieghi come sia possibile farlo ora in Siria. La rimozione dell'embargo alle armi nell'illusione di riequilibrare le asimmetrie di potenza militare in Siria è un suicidio politico. Vanifica del tutto il possibile ruolo di mediazione dell'Unione Europea nel conflitto in corso, rischia di pregiudicare una già fragile ipotesi negoziale per una soluzione politica di quella tragedia. E dal punto di vista puramente militare non esiste alcuna garanzia che una tale mossa possa aumentare il vantaggio dei ribelli. Forze estremamente disomogenee, in uno scenario in continua evoluzione, nel quale l'invio di armi rischia in realtà di aumentare anche le chance di un dopo-Assad violento e di sangue. Per questo non si può separare l'aspetto della "militarizzazione" ulteriore del conflitto dalla possibile soluzione politica dello stesso. E opporsi all'invio di armi non significa sostenere il regime di Assad. Il punto è reso in maniera assai chiara in un articolo dell'analista Samer Nassif Abboud, uscito di recente sul sito dell'ISN di Zurigo: http://isnblog.ethz.ch/international-relations/should-western-nations-arm-syrian-rebels. :

"arguing against militarization should not be equated with supporting the regime. One can be opposed to both militarization and the regime. The more intellectually honest question is not either/or but under what conditions can a political solution be arrived at that paves the way for the removal of Asad and a demobilization of violent actors. This is a profoundly complicated question that has no immediate or obvious answer. One thing, however, seems certain: further militarization of the Syrian conflict will not decidedly tip the balance in favor of the rebels and will contribute to further fragmentation in the country. In turn, such fragmentation can only serve as an obstacle to a political solution to the conflict, which is the stated goal of Western and regional powers. The challenge now is agreeing on the contours of such a solution and bringing to bear the political pressures to realize it"