sabato 29 gennaio 2011

Quel messaggio che viene dal Maghreb

Non si placa l’onda di protesta in Egitto, sulla scia delle mobilitazioni che in Tunisia hanno portato alla caduta di Ben Ali, e il virus della democrazia si sta allargando ad altri paesi, quali lo Yemen e la Giordania, per poi riprendere forza in Algeria dove è annunciata una nuova grande mobilitazione popolare contro il regime. Per non parlare poi dell’Albania, e della sempre rovente Grecia. (non dimenticando - oltre lo Stretto di Gibilterra - l’”intifada” sahraui, che chiama in causa un altro paese chiave nel bacino, il Marocco). Per altri motivi anche in Medio Oriente si assiste ad una fase in grande movimento. Da una parte il nuovo governo sostenuto da Hezbollah in Libano. Dall’altra gli interessanti sviluppi sulla Palestina, passati inosservati nei media, in particolare l’aumento dei paesi in America Latina che ne stanno riconoscendo l’indipendenza e di quelli europei che hanno deciso di innalzare a rango di ambasciate le rappresentanze diplomatiche palestinesi. Insomma, buona parte della sponda sud-est del Mediterraneo è in fibrillazione. Un movimento tettonico che ha le parvenze di uno storico passaggio di fase, nella quale si rielabora e si ricostruisce dal basso senso comune e democrazia, in paesi finora dominati dalla cleptocrazia o da regimi liberticidi puntellati da governi occidentali per puro interesse geopolitico. E’ il caso dell’Egitto, i cui eventi di queste ore non nascono dal nulla, ma da un malcontento diffuso e di lunga data, già manifestatosi in passato con forti mobilitazioni di piazza. Gli egiziani hanno deciso di prendere in mano il futuro del paese, sanno bene che il vecchio Mubarak è ormai al capolinea e non sono intenzionati ad accettare come un fatto compiuto la successione del figlio. Il popolo egiziano, come quello tunisino si sta facendo forza costituente, s’inserisce nelle crepe di un sistema corrotto, e lo vuole capovolgere per rifondare le strutture ed i modelli di governo. In ambedue i casi colpisce la posizione delle potenze occidentali alle quali Tunisia ed Egitto erano storicamente legati, La Francia si sgancia dal regime di Ben Ali e Washington si schiera “dalla parte del popolo egiziano” dopo le dure parole di Hillary Clinton alla conferenza di Doha su democrazia e riforma della politica, di metà gennaio. Dall’altra parte in Albania il regime di Sali Berisha scricchiola sotto la spinta dell’opposizione di sinistra, in una contesa che non pare – a differenza di quel che si vede dietro le barricate e le fiamme del Cairo o di Tunisi – volta ad una profonda ricostruzione della sfera pubblica. Certo è che alcuni comuni denominatori possono essere evidenziati. Anzitutto il fallimento della politica europea nei confronti del Mediterraneo, che sulla carta avrebbe dovuto portare prosperità e democrazia ed invece si è dimostrata essere un mix micidiale di liberalizzazione degli scambi commerciali, e di mano pesante contro i flussi migratori. Poi il combinato disposto degli effetti della crisi finanziaria che colpisce come un maglio società come quella tunisina già duramente provate da anni di ricette neoliberiste imposte dal Fondo Monetario Internazionale. Lo ricorda giustamente Michael Choussudovski, un arguto osservatore ed analista della globalizzazione. Oggi le politiche di riduzione della spesa pubblica si accompagnano ad un’ ulteriore contrazione del potere di acquisto delle classi popolari, dovuto in primis all’aumento dei prezzi dei generi alimentari, conseguenza delle speculazioni finanziarie sui prodotti agricoli. A questo si aggiunge la riduzione progressiva dei flussi di rimesse dei migranti, che per molte famiglie rappresentavano una delle principali fonti di sostegno, di fronte alla disoccupazione endemica soprattutto nelle generazioni più giovani. Aggiungiamo a questo il potere tremendo del web. Qualcuno ha chiamato i fatti di Tunisia la rivoluzione di Wikileaks. Più di questo va sottolineata la capacità del web di permettere la comunicazione oltre la censura ed il controllo di polizia, la possibilità di costruire un sentire collettivo, pratiche e culture politiche tra popoli e generazioni accomunati oggi dalla stessa disperazione e voglia di riappropriarsi di persona del proprio futuro. Un futuro che rifugge le suggestioni della teocrazia. Ci sarà senz’altro l’Islam , non potrebbe essere altrimenti, in molti cuori di quelle moltitudini. Echeggia nelle strade il grido “Allah Akbar”, ma è un segno di comunanza, di rivendicazione etica e morale, non il fondamento di un possibile progetto politico o teocratico. Così viene meno anche la motivazione secondo la quale regimi autoritari sono necessari per frenare l’avanzata dell’integralismo e del terrorismo islamico. Forse in questi giorni sta nascendo un Islam progressista, che non rinnega il proprio passato, semmai lo ibridizza con culture politiche liberali e di sinistra. Se così fosse si può dire che quello cui assistiamo a sud delle nostre coste è un fenomeno storico, che deve interrogare la politica europea, deve aprire una riconsiderazione dei fondamenti stessi del cosiddetto partenariato euro mediterraneo. Proclami che oggi stridono con forza con la realtà che si snoda dinnanzi ai nostri occhi, e che apre uno squarcio nella cappa insopportabile che avvolge il nostro paese, trascinandolo fuori dal “reality show” cui l’informazione “mainstream” ci sta assuefacendo. Al di là di ogni retorica facile, oggi dovremo anche noi sentirci tunisini o egiziani, riconoscendo che forse da quelle città in fiamme sta partendo un messaggio, un’invito anche verso l’altra sponda del Mediterraneo. Nel loro Nord, dove i giovani Maghrebini vengono lasciati languire in una banlieu, in un centro di identificazione ed espulsione, ammanettati in un aereo charter, o a sudare dietro un forno a legna. E dove noi, cittadini di un’Europa e di un paese in crisi di identità stiamo vivendo, fin troppo passivamente, gli effetti di una crisi politica, culturale ed economica senza precedenti.