mercoledì 28 maggio 2014

Basta coccodrilli, torniamo a fare politica

Allora ci siamo di nuovo. SEL si spacca, si scinde, si allea, si fonde. Con il PD o la nuova DC, con un nuovo cantiere della sinistra, muore, colpa tua, no colpa degli altri. Opposizione costruttiva o collaborazione critica. Poltrone o territori. Sganciamento della base dalla dirigenza. Della dirigenza dalla rappresentanza. Di Renzi che ne pensi. No dobbiamo fare la Syriza italiana. Non so quante volte in questi 15 anni di politica attiva ho sentito discorsi sulla ricostruzione della sinistra conseguente alle scissioni dell'atomo. Un giorno ho in mente di fare un "archeotour" nei luoghi di Roma dove si è parlato, si dato la parola al nuovo salvatore di turno, che sia un sindacalista o un intellettuale: Nuova Fiera di Roma, Angelicum, Ex-hotel Bologna. Hotel Roma, Sala convegni Capranichetta. Montecitorio, Centro Congressi Cavour. Pare che questa sinistra italiana sia attraversata dalla coazione a ripetere. A cercare scorciatoie organizzative alla necessità di consolidare pratiche e approcci all'altezza dei tempi e delle situazioni. Ci siamo di nuovo. Tra partita e partito continua ad echeggiare la voce del partito, la logica del partito. che sia quello da lasciare o quello da ricostruire, quello da demolire o ignorare, che sia un partito comunista delle masse, o il frutto di una costituente dal basso. Aderire o meno al GUE o al PSE ecco l'altra scorciatoia sulla quale si stanno azzuffando un po' tutti. Ma non è forse il caso di invertire l'ordine dei fattori? Non è forse il caso per una volta di lasciarci dietro le idiosincrasie di partito e davvero concentrarci sulla partita? Quali sono gli assetti, le strumentazioni le strategie e le tattiche più efficaci per vincere la partita? Di quale partita stiamo parlando in questo nuovo assetto che ci consegna l'ultima tornata elettorale? Di ricostruire un partito, di rielaborare una nuova forma di politichese o comprendere appieno la portata della sfida che ci troviamo dinnanzi in Europa ed in Italia? A mio parere è su quello che sarà necessario ragionare ed agire. Se oggi il PD diventa partito di ultra-maggioranza, e forte di quella ultra-maggioranza propone uno scarto significativo dalle politiche di austerità europee, è il nostro nemico? Se sostiene invece la privatizzazione dei servizi pubblici o l'aumento delle spese militari è nostro alleato? Di nuovo si tenta di definire un'ipotesi di progetto politico di sinistra per default attraverso la negazione, la demonizzazione o l'assimilazione del possibile avversario o alleato. Io oggi sono invece interessato a capire come l'onda sollevata dalla proposta di Alexis Tsipras possa contribuire a rigenerare le ragioni di una proposta politica, programmatica e culturale di sinistra, (socialista e antiliberista), ecologista e libertaria nel mio paese ed in Europa. A creare le condizioni per un dialogo costruttivo con chi condivide approcci, critiche e proposte che sia nel PSE, nei Verdi o nel GUE-NGL o nei movimenti. Questo era l'obiettivo iniziale di SEL, e questo resta. Una partita che da soli non si può e non si deve giocare, ma che non permette scorciatoie o ritorni a pratiche e contenuti che rischiano di relegarci alla mera testimonianza. Io non sono innamorato dell'estetica della rivoluzione o dell'opposizione a tutti i costi a prescindere. Né di fare la costola di un partito di centro con componenti di sinistra più o meno marcate. Sono interessato ancora a giocare una partita (nel mio partito ed al suo esterno) che prevede obiettivi chiari, apertura mentale, partecipazione, responsabilità, rispetto delle differenze e valorizzazione delle diversità. E che ha come obiettivo il miglioramento delle condizioni di vita materiali delle persone oggi vittime sacrificali dell'austerità e della finanziarizzazione e privatizzazione dei beni comuni e dei diritti fondamentali. Vogliamo ripartire da questo?

martedì 27 maggio 2014

Hasta siempre Sup


Non so come ti chiami, qual'è il tuo volto, che ci hai sempre mostrato dietro un passamontagna nero sdrucito. Quello stesso passamontagna che ho incontrato in Chiapas, in un municipio insurgente, e ad Oventic assieme a Ya Basta, - volti immaginari di donne, uomini, giovani zapatisti, soldati di un esercito di straccioni, con armi improbabili, ma lo sguardo fiero, occhi profondi, radici nella loro storia di popoli indigeni, e nel futuro di liberazione. Non so cosa farai ora che tu - Subcomandante Marcos - hai annunciato la poesia della tua sparizione. “El pueblo manda el EZLN obedece” il popolo comanda e tu segui quello che decide il popolo - Ci hai abituato ai paradossi, al “camminare domandando” , da una prospettiva postcoloniale, rivedere il potere, rielaborarlo, decodificarlo. Esercitarlo collettivamente, attraverso forme inedite di partecipazione dal basso. Tu, al servizio di un esercito immaginario e reale, oggi come non mai espressione della rivendicazione di dignità di un popolo, ultimo degli ultimi, in una terra martoriata dall'esclusione, dal paramilitarismo, sfruttamento di risorse naturali, narcotraffico. Il Chiapas del Messico di oggi. Un paese in decomposizione, afflitto da un conflitto interno ormai da anni, con il suo bilancio di morte e dolore. Lì proprio in Chiapas gli ultimi della storia resistono, Alla vostra maniera, tu hai resistito con loro, la tua pipa in bocca, ora con una bizzarra benda da pirata. Un linguaggio ed una comunicazione dell'assurdo, del paradosso. Un misto inedito tra mistica maya e filosofia zen. Sognatori con i piedi per terra, che praticano l'autogestione e la costruzione di comunità degne. Nel Messico della violenza di stato e dei narcos , la vostra storia è storia di resistenza e dignità. Ricordo ancora gli occhi brillanti di Gustavo Esteva, incontrato qualche mese fa a Roma al Valle, che ci raccontava il nuovo corso zapatista, l'ascesa di nuove generazioni di leader diffusi, giovani, alcuni quasi adolescenti. Un nuovo corso, che tu hai voluto suggellare con umiltà e coraggio alla tua maniera nella consapevolezza di aver esaurito il tuo compito, con una forza e senso del servizio e di generosità al quale la politica della modernità non è usa. Nessuna rottamazione. E noi, ti ringraziamo anche per questo, noi forse troppo spesso innamorati delle rivoluzioni altrui, nella fatica di poter costruire le nostre, vi abbiamo seguito, cercato di trarre ispirazione per nuove pratiche, per la messa in discussione del potere non solo esterno, ma anche nelle relazioni tra compagni e compagne di strada. Nell'ostinata resistenza al neoliberismo, il servizio del bene comune e per la costruzione di un'altraeconomia di giustizia. Hasta pronto Subcomandante.  

sabato 24 maggio 2014

Boko Haram, interventismo USA e AltraEuropa

La vicenda delle ragazze nigeriane rapite da Boko Haram è indubbiamente tragica e desta grande preoccupazione. Ci si augura che vengano liberate il prima possibile. Ma le notizie "parallele" che giungono da quelle parti ci dicono di un governo nigeriano non solo imbelle - la moglie del presidente Jonathan Goodluck ha addirittura denigrato le famiglie delle studentesse - e ci parlano di un crescente intervento internazionale. Si sapeva della collaborazione di elementi di intelligence statunitensi, israeliani e di alcuni paesi europei. Ma guardando dietro le quinte si nota un'altro filone. Quello che a Washington era stato già testato con il Darfur, e la Lord's Resistance Army di Joseph Kony. Trova il criminale, costruisci la campagna mediatica, inventa hashtag virali, o video o diffondi immagini ad alto impatto. Poi sotto sotto interviene il Pentagono. Truppe speciali erano state mandate alla ricerca di Joseph Kony, George Clooney fece una campagna per l'invio di elicotteri per fermare il "genocidio" in Darfur. Ora arriva la notizia dell'invio di 80 militari USA in Chad per la ricerca delle malcapitate. Mentre secondo altre notizie Boko Haram (che significa "proibiamo l'educazione occidentale nelle scuole"), si starebbe insediando in Cameroon. E dal fronte del Mali arrivano altre notizie riguardo una recrudescenza del conflitto a Nord, dopo recenti sanguinosi scontri tra truppe maligne e tuareg. Per non parlare del conflitto in Libia ed in Repubblica Centrafricana dove opera un contingente armato del'Unione Europea. Insomma quello che gli strateghi della geopolitica chiamano "arc of instabilità" si sposta verso Nord, arriva fino alle coste mediterranee. Un tema da tenere bene a mente nella ridefinizione della politica estera e mediterranea dell'AltraEuropa

Senza giustizia nessuna pace possibile in Medio Oriente


Due adolescenti palestinesi sono stati uccisi a fucilate da soldati israeliani in occasione di una manifestazione in ricordo della Nakba. La notizia ed il video-denuncia hanno fatto il giro del mondo, suscitato indignazione. La comunità internazionale, dalle Nazioni Unite agli Stati Uniti hanno protestato e chiesto un’indagine indipendente. Fatto sta che in Israele l’impunità della quale godono i militari è un paradigma ricorrente, e quest’ennesima esecuzione extragiudiziale sta lì a dimostrare l’asimmetria dei rapporti di forza tra Israele e Palestina.
Una asimmetria che rende pressoché impossibile ogni forma di riconciliazione o negoziato. Sarà pertanto necessario che il nostro paese faccia la sua parte. Anzitutto applicando – come fatto da altri paesi europei, in particolare Regno Unito e Danimarca – le linee guida su investimenti e etichettatura di prodotti provenienti dai territori occupati, e chiedendo alla UE di rafforzare i meccanismi di controllo e sanzione. Secondo, impegnarsi per mettere al centro delle relazioni con Israele il tema dei diritti umani.
Le organizzazioni palestinesi ed israeliane per i diritti umani denunciano che l’Italia è tra i paesi europei il meno “proattivo” al riguardo, anzi, in passato ha bloccato sistematicamente ogni proposta di impegno sui diritti umani ed il diritto internazionale umanitario verso Israele. Terzo chiedere la fine dell’impunità. Ad oggi le vittime palestinesi non hanno accesso alla giustizia, e le forze di sicurezza dell’ISA e la polizia penitenziaria godono di impunità nonostante siano coinvolti incassi di tortura e trattamento inumano e degradante. In Israele non esiste il reato di tortura né leggi sui crimini di guerra. E’ importante al riguardo sottolineare dall’altra parte l’intenzione a suo tempo annunciata da Abu Mazen di firmare una serie di convenzioni ONU sui diritti umani.
A novembre una delegazione della rete Euromediterranea per i diritti umani si è incontrata con il governo a Roma ed ha consegnato una serie di richieste chiare. Tra queste che l’Italia e la UE condizionino ogni forma di relazione bilaterale con Israele al rispetto del diritto internazionale. Che l’Italia e la UE chiedano la rimozione del blocco di gaza ed il congelamento dell’espansione degli insediamenti. Assicurarsi che gli insediamenti non possano trarre vantaggio alla cooperazione UE-Israele ed Italia-Israele. E che vengano applicare le linee guida UE sul finanziamento degli insediamenti, per prevenire qualsiasi forma di connivenza o cooperazione in violazioni del diritto internazionale.
Ultimo ma non da meno che venga posta fine all’impunità ed alle omissioni per quanto riguarda le richieste su violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale permettendo ai palestinesi di poter accedere alla giustizia. Senza giustizia non ci potrà essere alcuna prospettiva di pace per quei popoli. E’ L’Europa che ce lo chiede.

lunedì 19 maggio 2014

Libia nel caos e prove generali di colpo di stato. Dov'è l'Italia?

Negli ultimi giorni sono giunte dalla Libia notizie drammatiche di scontri armati a Bengasi e Tripoli, culminati con l'assalto, del Parlamento ieri , da parte di forze paramilitari alla presunta ricerca di parlamentari "islamici", accusati di essere conniventi con formazioni "terroristiche". Ultima di una serie ormai infinita di scosse telluriche che mostrano un paese fuori controllo, in mano a formazioni armate, milizie irredentiste, forze lealiste. Tra spinte autonomiste della Cirenaica, al controllo delle risorse petrolifere, alla mancanza di "stato", in un paese dove la rimozione "manu militari" di Gheddafi e del suo regime da parte della NATO ("Unified Protector") ha di fatto trasformato questo paese in uno stato "fallito". Uno scenario simile a quello iracheno dove la mancanza di "corpi intermedi" ha portato - una volta rimosso con le armi, ed in nome della lotta al terrorismo e della democrazia un regime autoritario - ad una progressiva balcanizzazione e spartizione del paese lungo faglie etnico-religiose. Fatti che devono interrogare la comunità internazionale e soprattutto i fautori e promotori della dottrina della "responsabilità di proteggere" o ingerenza umanitaria presa spesso e volentieri a fondamento di interventi armati al limite della legalità internazionale che dietro il pretesto de diritti umani, servono strumentalmente a interessi geopolitici o geostrategici. Il caso Libia oggi dimostra che  in ambo i casi tale dottrina - nelle modalità con le quali è stata applicata finora - non serve né a riportare la democrazia, né a proteggere gli interessi geopolitici o geostrategici dei suoi fautori. Dopo l'Afghanistan un altro duro colpo alla credibilità della NATO come "fornitore di sicurezza" globale. Fuori il primo ministro Al Zeidan, dopo il "fattaccio" della petroliera nordcoreana - intervennero i Navy Seals per bloccare al largo una petroliera che stava trasportando petrolio venduto dai ribelli cirenaici, contravvenendo agli ordini del governo centrale. Ora emerge nella scena politica un militare, chissà forse ispirato dai proclami di fuoco del candidato alla presidenza dell'Egitto, il generale Al Sisi, che promette di sterminare i Fratelli Musulmani. Un paese nel caos. Mentre nulla si sa di quello che dovrebbe fare l'Italia dopo aver ricevuto mandato dall'ultimo G8 di coordinare una task force sulla Libia al fine di ricostruire lo stato di diritto e la "governance" addestrare soldati e poliziotti libici (si badi bene in questo che è stato definito un tentativo di golpe avrebbero partecipato anche forze regolari dell'esercito e della polizia), e suppostamente disarmare le milizie. Cosa ne è della MIL, Missione Italiana in Libia? Quale valutazione dà il governo italiano della situazione a parte un appello del Ministro Mogherini in sostegno alla transizione "democratica" nel paese?  

giovedì 8 maggio 2014

Cronache di un viaggio in Palestina ed Israele



La prima volta che ho provato ad andare in Palestina, anni or sono, sono stato espulso assieme ad una delegazione di pacifisti e parlamentari italiani. Vidi solo il terminal bagagli dell'aeroporto di Tel Aviv, ci misero seduti a terra, strattonando Marco Revelli e Vittorio Agnoletto, e poi rispediti su un volo Olympic ad Atene. La nostra colpa quella di voler andare a portare la nostra solidarietà a Yasser Arafat, allora sotto l'assedio delle forze armate israeliane, nel suo palazzo a Ramallah. Dopo anni finalmente ho avuto occasione di toccare con mano, seppur di striscio, la realtà dell'occupazione e la durezza della situazione sul campo. Assai denso era il programma della visita della missione di Sinistra Ecologia Libertà (composta da Nichi Vendola, Arturo Scotto, Gennaro Migliore ed il sottoscritto). Ciononostante sono bastate poche ore fin dall'atterraggio del nostro volo al Ben Gurion per vedere, constatare, immaginare. Ci guida Mike, nome inglese di un attivista palestinese di sinistra, presentatoci da Luisa Morgantini, altra preziosa guida nella società civile palestinese, che ci accompagna. É notte, ma il susseguirsi di reti, grate, impedimenti alla circolazione, aiuta a delineare i confini virtuali e quelli reali, blindati, nei quali vive la popolazione palestinese di Cisgiordania. Strade che non possono essere percorse, villaggi separati dalle terre da sempre coltivate per la propria sopravvivenza raggiungibili solo tramite tunnel e sempre a discrezione dell'esercito israeliano. Insomma quella strada pare la terra di nessuno nella quale è scomparsa la politica.

Se c'è una prima parola che mi viene in mente è “politicidio”, termine usato dal grande politologo e sociologo israeliano Baruch Kimmerling nel suo lavoro sulla politica di Sharon verso la Palestina. Una strategia minuziosa e sistematica di demolizione di ogni fondamento reale per la costruzione dello stato di Palestina, la costante ricerca di modalità di annichilimento di un'entità statuale e non-statuale, fino alla sua completa negazione. In Palestina dopo decenni di conflitto ed occupazione quella che muore è la politica, nonostante gli ultimi grandi sforzi a parte di Abu Mazen di tenere aperta la porta del negoziato. Muore la politica tra palestinesi ed israeliani – che politica ci può essere in una situazione di asimmetria quale quella che si vive quotidianamente in quelle terre? Quale stato “viabile” ci potrà essere se da una parte i palestinesi dipendono dagli aiuti esterni e non possono commerciale i loro prodotti? O se una parte di loro è ammassata nel'inferno di Gaza e l'altra vive ingabbiata da un muro? O nei campi profughi? O come cittadino o cittadina di serie “b” in Israele?

“Distopia” è l'altra parola che ricorre spesso nella mia mente in quei giorni. Definisce una asimmetria marcata dalla mano e dalla presenza militare. Il verde che permea la politica, il verde degli ulivi dei villaggi palestinesi, ora resi inaccessibili dalla barriera di cemento del muro ed il verde di Gerusalemme Ovest, la Gerusalemme israeliana, colore evidente di una guerra sotterranea, quella per il controllo delle risorse idriche così preziose per la sopravvivenza, si mescola con il verde marcio delle uniformi dei soldati di Tsahal. Li vedi ogni tanto punteggiare i luoghi sacri di Gerusalemme, presidiare fermate dei bus nei pressi degli insediamenti, i checkpoint e i metal detector che devi attraversare per andare al Muro del Pianto, o nel suk di Hebron. Con i loro mitra di ultima generazione. Già, perché non c'è da dimenticare che l'occupazione è anche un grande business, un'industria plurimiliardaria. Un laboratorio di tecniche di controllo, sorveglianza, securitizzazione che oggi rappresentano un'importante voce nei bilanci del paese e nell'export. Il verde militare, il verde dei dollari versati dalle facoltose famiglie ebraiche statunitensi, il verde del mito fondativo del sionismo, la conversione del deserto in un nuovo Eden.

Muore la politica in Israele ed all'interno della Palestina. In ambedue i casi, le élite e l'establishment politico sembrano congelate in una logica di confronto-scontro propria del millennio scorso e non capaci di cogliere o metabolizzare e disinnescare le pulsioni che provengono dal basso. Di un'opinione pubblica da una parte preda di un sentimento diffuso di ostilità verso i palestinesi, dall'altra stanca e sfiduciata verso i propri leader. Ed assistiamo dal vivo alla morte della politica internazionale, del tentativo estremo del Segretario di Stato americano John Kerry di tenere aperta la via della trattativa. Alle mosse inedite di Abu Mazen, ultima tra queste una dichiarazione senza precedenti che riconosce l'Olocausto come orrendo crimine contro l'umanità, si contrappone la dura posizione di Tel Aviv. Se Abu Mazen - anche lui abbiamo incontrato - comunica l'intenzione di firmare convenzioni ONU sui diritti umani, o se intende addirittura aprire la strada ad una presenza militare internazionale per assicurare la sicurezza dei confini e dello stato d'Israele, nulla conta. La risposta è sempre quella, o sei inaffidabile, perché non vuoi riconoscere Israele come stato ebraico (Eretz Israel, il nucleo del progetto di Theodor Herzl) o sei complice dei terroristi perché fai l'accordo di riconciliazione con Hamas a Gaza. O non hai la legittimità politica in tutta la Palestina anche se fai un accordo storico di riconciliazione. Insomma un gioco al massacro, nel quale risulta evidente la assoluta assenza di volontà politica da parte del governo israeliano e della maggior parte delle forse politiche (ad eccezione di Meretz ed altre formazioni di sinistra) di voler dar credito ad Abu Mazen.

Così il nostro viaggio si è snodato su più livelli: quello della ridda di dichiarazioni e controdichiarazioni del mondo “politico” istituzionale da una parte e quello della realtà sul terreno, della constatazione quotidiana dei cosiddetti “facts on the ground”. Fatti che dicono di un esperimento di disarticolazione del territorio, dell'utilizzo dell'architettura e dell'urbanistica come strumenti di politica di potenza, della manipolazione dei fatti storici e l'uso dell'archeologia per affermare la propria storica potestà su una terra che proprio per sua vocazione dovrebe essere terra aperta, di tutti. La terra dove sono nate le tre più importanti religioni monoteiste della storia, e che invece da decenni soffre la spinta disumanizzante e sanguinosa della sua eredità. Ancora cancelli, blocchi di cemento, inferriate, “razor-wire”, barriere blu della polizia, scudi di plexiglass accatastati all'entrata della spianata delle Moschee, telecamere, torri di controllo. Quelle annerite dal fumo dei copertoni bruciati per chiudere la visuale ai soldati israeliani lungo il muro o quelle che sembrano di latta a presidiare, tra un tripudio di bandiere israeliane, quell'ultimo pianerottolo strappato ai palestinesi.

I “settlement” sono questo: dai villaggi modello alla lotta quotidiana all'interno di uno stesso condominio che percepisci dietro ogni angolo della Gerusalemme vecchia. Una rete fittissima, ormai forse inestricabile, che avanza giorno per giorno. Non a caso le ultime mosse del governo Nethanyahu, la goccia che ha fatto traboccare il vaso - per stessa ammissione di alti funzionari del dipartimento di Stato – sono state quelle di varare 400 nuovi insediamenti. (Diceva uno storico israeliano: Bibi pare come quel pizzettaro che ti taglia la pizza ma si mangia tutte le fette). Quel Nethanyahu che nel suo discorso in occasione della toccante cerimonia di commemorazione della Shoah nello Yad Vashem ha usato le parole del guerriero, della spada pronta a colpire il prossimo nemico, l'Iran, che null'altro desidererebbe se non la distruzione dello stato di Israele.

C'è poi un' altra sottotraccia che ha attraversato il nostro breve viaggio. L'incontro con chi sta cercando di resistere, di ricostruire un senso comune, tenere aperti ponti, lanciarne di nuovi. Chi chiede ora solo di poter vivere degnamente, di vedersi riconosciuti il proprio diritto a vivere in pace (“el derecho de vivir en paz” cantava il grande Victor Jara) Il figlio di Marwan Barghouthi o il direttore del centro culturale di Umm el Fahm. Uno parla le parole del futuro, nell'altro si snodano le immagini del passato, del necessario recupero della memoria per difendere la propria identità e la propria dignità. Un futuro incerto, duro, forse fatto di rassegnazione ma anche di piccoli atti di resistenza, forse disperata. Alcune immagini mi sono rimaste impresse come tracce di resistenza: lo sguardo forte di Vera Baboun, sindaco di Betlemme, una città la cui realtà, nascosta alle frotte di pellegrini e turisti, è di disoccupazione, povertà, emigrazione. Parole di pace e riconciliazione.

O l'incontro con i comitati per la resistenza nonviolenta del campo di Al Aida, che ci spiegano perché hanno deciso di non ricorrere alla lotta armata. “Se prendi un fucile sei solo in questa decisione, non crei comunità, non costruisci le premesse per un futuro di giustizia. La scelta della nonviolenza è anche scelta di costruzione della nostra comunità, per riuscire a resistere dobbiamo essere uniti”. Così ci dicevano sotto l'ombra del muro, e le fineste blindate di una scuola sostenuta dall'ONU, ed in passato bersaglio dei cecchini israeliani.

A Betlemme parlo a lungo con il direttore del conservatorio Edward Said, un italiano che da anni vive lì cercando di far dialogare ragazzi israeliani e palestinesi con la musica. Proprio come fa il grande Daniel Baremboim, cittadino del mondo, con il suo progetto, fondato proprio con Said, della East-West Divan Orchestra. Sono gli stessi ragazzini che al microfono dell'intervistatore quando gli venne chiesto se per loro fosse un problema che Baremboim, cittadino israeliano andasse a dirigere la sua orchestra a Gaza risposero con sincerità disarmante ” Qual'è il problema? scusa ma quando mai abbiamo potuto ascoltare Beethoven dal vivo?” E che magari poi come un flash, spuntano improvvisamente ai bordi della strada e lanciano qualche sasso contro un bus di coloni israeliani.

C'è un cumulo di pietre lungo la strada che collega H1 ad H2, le due sezioni di Hebron separate ancora una volta da un checkpoint blindato. C'è rassegnazione forse ma anche impeto irrefrenabile di rivendicare la propria esistenza e diversità. Il proprio diritto ad esistere, magari tracciando con un pennarello un disegno incerto di un mitragliatore, oppure urlando “Allah Akbar” ogni volta che qualche gruppo di israeliani – con la loro kippah – entra nella spianata delle Moschee per rivendicarne la propria potestà. “Se Israele riuscisse nel suo intento di spianare la Moschea di Omar per costruirci il proprio tempio, sarà la terza guerra mondiale” ci dicono. Il colore nero delle donne in velo fa il pari con il colore nero degli ortodossi ebrei che costellano di notte il muro del pianto. Separati gli uomini con le loro palandrane lunghe, i cernecchi, i cappelli a falda larga o singolari colbacchi di pelliccia, separate le donne, vestite all'antica, “come al ghetto di Varsavia”. In un flashback mi torna alla mente Varsavia, le piastrelle che ricordano il muro del Ghetto, il bel museo della cultura ebraica. Il museo dello Yad Vashem ci ricorda quella storia, la ripercorre, lì a spiegare la Shoah, lo sterminio.

Se c'è un muro che divide, ce n'è uno che volenti o nolenti unisce. Il muro del pianto da una parte è luogo di preghiera per i chassid, dall'altra muro di contenimento della spianata delle Moschee. Allora quale tremendo cortocircuito storico fa sì che in quella terra non possa essere pace? Forse andranno invertito l'ordine dei fattori? Lo chiedo alla moglie di Marwan Bargouthi: “tu dici che senza pace non potranno esserci diritti. Ma non può essere vero anche il contrario? Che senza diritti non ci potrà essere pace?” Se per pace si intende solo l'assenza di guerra, oggi in Palestina ed Israele la guerra non c'è. Il consigliere aggiunto per la sicurezza nazionale del governo a Tel Aviv ci indica il muro, visibile ad occhio nudo da una collina di Gerusalemme Ovest. Il muro ha portato alla fine degli attacchi suicidi ci dice. Se la pace è pace “armata” diventa un concetto “ameba” plasmabile a seconda degli interessi politici o della propria visione del mondo.

Il figlio di Barghouthi ci parla di diritti, come ce ne parla i giornalista israeliano Meron Rappaport o il direttore del blog progressista + 972 Noam Sheifaz. I due stanno lavorando ad una piattaforma ampia di intellettuali giornalisti e società civile israeliana e palestinese che tenti di coniugare la formula dei due stati per due popoli superando l'approccio meramente territoriale e prevedendo invece un assetto confederativo fondato sull'affermazione dei diritti di tutti e tutte coloro che vivono in quei due stati. Un progetto ambizioso, di lungo periodo, ma che cerca di costruire un processo di pace “dal basso” fondato appunto sui diritti. Un'ipotesi che seppur mantenendo la formula due popoli – due stati deve fare i conti con la questione del ritorno dei profughi palestinesi ad esempio. Mi dicono: “guarda ma nell'area Schengen voi potete muovervi, circolare liberamente decidere di andare a vivere in un altro paese, e come cittadini europei avete eguali diritti. Perché non tentare anche qua?”.

Mentre siamo in Israele e Palestina, in Italia si sta svolgendo la campagna elettorale per le europee, i cui temi di fondo mai o quasi mai prendono in considerazione l'importanza del Medio Oriente e del Mediterraneo. Eppure qua l'Europa viene vista come modello da imitare, come possibile alleato per la pace, visto che le sue decisioni - ad esempio quele sull'etichettatura dei prodotti provenienti dalle colonie stanno avendo un certo effetto sul dibattito politico in Israele. Quando questo riuscirà a smuovere le acque è tutto da vedere. Intanto sarà il caso che anche l'Italia faccia la sua parte.



Certo è che quei due popoli continuano a percorrere “strade che divergono”, come sintetizza un bel saggio di Judith Butler sull'ebraismo ed il sionismo. Finché, dice la Butler, non ci si renderà conto che la convivenza è un dato di fatto piuttosto che una scelta, e che si esiste per il solo fatto di essere in una terra comune. Lei ricorda Annah Arendt, quando dice che non si può scegliere con chi coabitare nel mondo. Il diritto ad esserci, a stare assieme su quella terra. Una sfida forse impossibile, ma da tentare . Mentre mi perdo in queste considerazioni ad Hebron, fa per avvicinarsi un ragazzino palestinese, forse vuole venderci qualche braccialetto (grave reato quello di portarsi a casa souvenir acquistati nei territori occupati). Non riesce a dire due parole che un altro ragazzo israeliano, di qualche anno più grande, in divisa verde e con il solito mitragliatore a tracolla lo blocca, lo aggredisce verbalmente e lo allontana con forza da noi.