venerdì 29 luglio 2016

Neutralità attiva, pace e pacifismo

Per Mosaico di Pace, settembre 2016


Quando noi,  pacifisti e antimilitaristi, pensiamo ad un paese ideale, ad un’utopia concreta,   il pensiero va al Costa Rica, paese senza eserciti e senz’ armi, che ha addirittura inserito la neutralità nella propria Costituzione. Un’utopia concreta in un Centroamerica  attraversato da violenza endemica, conflittualità più o meno latenti, una crescente militarizzazione della sfera pubblica. Un’utopia concreta che   può   essere presa a riferimento per   delineare un’ipotesi di politica estera  fondato su disarmo,  pace e nonviolenza. Un’urgenza  più evidente oggi, nel clima di guerra pervasivo che entra nelle nostre quotidianità,   restringe i nostri diritti,  abbatte i confini dell’orrore.  Che porta con sé pulsioni securitarie, l’illusione che alla guerra si possa rispondere con la guerra, o l’illusione di potersene tenere fuori, come in un limbo.  La chiave di lettura degli eventi e delle crisi oggi oscilla tra  interventismo – di quello che negli ultimi anni ha scardinato equilibri regionali precari, ingerenza umanitaria – che con il pretesto di salvare civili ha aperto un vaso di pandora di conflitti  e rivalità mai sopite, o la non-ingerenza che in virtù di un principio di sacralità della sovranità nazionale o forse di puro opportunismo politico, pretende di lasciare popolazioni civili inermi in balia del destino. Oppure versioni “light” che prevedono la partecipazione più o meno diretta a guerre guerreggiate, quali quella contro il DAESH o quelle non combattute,  ma gestite secondo un rigoroso approccio militare, che riguardano i flussi di rifugiati attraverso le frontiere d’Africa del Medio Oriente del Mediterraneo. Oggi la domanda centrale è quella della sicurezza, come declinato assai bene anche nel dossier dell’ultimo numero di Mosaico di Pace. Su questo veniamo anche noi chiamati alla responsabilità, attraverso uno sforzo di analisi critica ed elaborazione che permetta di proporre un approccio “altro” alle relazioni internazionali. Che faccia cioè tesoro della storia, quella non raccontata negli annali di guerra, o nei libri “mainstream”, assai avvezzi a rappresentare la politica estera e la storia come campi di battaglia armata o meno, tra deliri o strategie di potenza, di impero, di sfruttamento, e assai meno capaci di leggere la storia “altra”. Quella di paesi che invece avevano ed hanno rinunciato alla politica di potenza, alla guerra, alle armi, ma che non rinunciano a cercare di contribuire alla costruzione della pace. Insomma neutrali ma attivi, neutrali dagli schieramenti delle potenze vecchie e nuove, ad esempio la NATO ma attivi e partecipi con gli strumenti della diplomazia o della forza “disarmata” nella gestione,  prevenzione e risoluzione delle controversie internazionali.  Più di recente la proposta di neutralità attiva è stato rilanciata da Un Ponte per nel suo documento “L’opzione per una neutralità attiva in Libia”,[1] nel quale si propongono una serie di passi, quali la de-escalation della logica di guerra e di uso della forza , la neutralità  rispetto alle fazioni che si opponevano al governo di Al Serraj.  Neutralità attiva significa in questo caso creare le condizioni per un ruolo terzo di mediazione che prevede l’abbandono di ogni opzione militare, e mantenere misure volte a prevenire il flusso di armi, tra cui l’embargo all’export di armamenti verso la Libia, assieme al sostegno ad attività di peacebuilding.  Altri paesi in tempi di guerra fredda decisero di essere più o meno neutrali, si pensi ad esempio alla Finlandia, stato “cuscinetto” tra il blocco sovietico e quello atlantico. Non a caso ci si rifà spesso alla Finlandia neutrale quando si immaginano ipotesi possibili per lo status dell’Ucraina, presa tra due spinte contrapposte di assimilazione nell’Unione Europea e nella NATO da una parte e agganciamento al cono di influenza della Russia di Putin dall’altra. La neutralità può quindi essere uno status - come dettato dal diritto internazionale - o anche una scelta di come stare nel mondo, e di come porsi nei rapporti internazionali. Negli anni scorso la guerra globale contro il terrorismo ha fatto però   saltare gli ultimi “paletti” come nei casi di Norvegia o Svezia.  Anche in altri paesi dove la neutralità era stata elemento fondativo quali la Svizzera e l’Austria si è iniziato lentamente a comprimere il concetto, a ridiscutere la pratica della neutralità armata, ad esempio. Il caso della Svizzera che si arma fino ai denti per proteggersi, e produce armi o ospita imprese o banche che esportano e commerciano in armi avvalendosi del segreto bancario, rende l’impegno di neutralità oggi assai opinabile. Purtuttavia la Svizzera non partecipa ad operazioni militari all’estero, mentre per altri paesi, l’entrata nell’Unione Europea ha comportato l’abbandono della loro storica neutralità in virtù dell’adesione agli impegni di sicurezza collettiva della UE o in altri casi della NATO.  L’Irlanda ora sposa l’approccio di neutralità politica “militarmente attiva”. Recuperare in questo contesto le ragioni di una pratica o un’idea di neutralità è cruciale per dimostrare come sia possibile  lavorare per la pace e la costruzione di relazioni pacifiche tra i popoli senza necessariamente provvedervi attraverso l’uso dello strumento militare o aderendo in tutto o in parte alle strategie delle alleanze o dei sistemi internazionali di sicurezza. Interessante a tal fine il dibattito sviluppatosi in Austria dove il tema della neutralità si innestò   in una discussione più ampia sulla cultura della pace, che comporta non l’isolamento ma bensì al contrario una ridefinizione della neutralità “dal basso” come abbandono della politica di potenza per una politica di intervento attiva di altra modalità. Che però presuppone una costruzione del principio e della pratica di neutralità proprio dal basso, dall’iniziativa e dalla prospettiva dei movimenti e della società civile. Nel suo “Critica della Politica Estera” Ekkehard Krippendorff specifica  che nel contesto di una vera neutralità, non “variante della strategia di autoconservazione degli stati” le attività delle organizzazioni non-governative “andrebbero viste non come il completamento di una politica estera non violenta ma come l’essenza della stessa”. [2]Bene è da questa prospettiva di neutralità  generata dal ‘basso” e che si alimenta  delle pratiche e delle iniziative della società civile e presuppone una sorta di “ingerenza” positiva e di taglio pacifico e nonviolento,  che vale la pena di partire. Con l’obiettivo di tentare di elaborare proprio “dal basso” assieme a coloro che nel nostro paese lavorano per la pace, il disarmo, la nonviolenza, un approccio ed una proposta concreta, politica, di paradigma alternativo per la politica estera del nostro paese. Il tema della neutralità ha attraversato le elaborazioni del movimento pacifista in Italia ed all’estero ha permeato anche parte delle relazioni internazionali, si pensi ad esempio al Movimento dei Non Allineati, ha caratterizzato il dibattito all’interno del mondo cattolico e socialista prima della prima guerra mondiale. Questo patrimonio va recuperato come ricerca di memoria storica utile per una prospettiva futura. E’ questo l’obiettivo del convegno organizzato da Transform! Italia con la collaborazione di Un Ponte Per.. che si terrà a Roma il 10 settembre 2016, appuntamento inteso ad offrire una prima occasione di approfondimento teorico e di confronto con tutte le anime e le realtà del movimento pacifista, per poi valutare la possibilità di un secondo appuntamento seminariale di lavoro per meglio comprendere insieme come le varie campagne ed iniziative , da quelle sul commercio di armi disarmo, nucleare e convenzionale, corpi civili di pace e difesa popolare nonviolenta, per citarne alcune,  possano trovare un terreno comune di relazione e rafforzamento proprio attraverso una definizione e proposta concreta di neutralità attiva per il nostro paese. Per maggiori informazioni: https://neutralitaattiva.wordpress.com/









[1] http://www.unponteper.it/neutralita-attiva-lopzione-italiana-che-auspichiamo-per-la-libia/

Human Rights Defenders, il caso Egitto


Bollettino ARCS, Culture solidali, luglio 2016

di Francesco Martone, Un Ponte per…

Sono passati sei mesi dal sequestro e l’assassinio di Giulio Regeni, un fatto che ha aperto una finestra sulla situazione dei diritti umani in Egitto. Da mesi e mesi decine di attivisti ed avvocati sono perseguitati, operai che manifestano per i loro diritti sindacali ad Alessandria d’Egitto e vengono processati da tribunali militari, giornalisti e blogger minacciati, associazioni per i diritti umani chiuse d’autorità.

L’Egitto è un partner centrale per l’Italia, per la vicenda libica, per il controllo  delle frontiere ai flussi di rifugiati , per gli investimenti privati nel paese e la lotta al terrorismo del DAESH. Su tutto, l’interesse dell’ENI nello sfruttamento del giacimento offshore di Zohr al largo delle coste egiziane, che dovrebbe formare il fulcro di un nuovo “hub” energetico mediterraneo.

Insomma un intreccio di fattori e situazioni che fanno dell’Egitto e del modo nel quale il nostro paese dà rilevanza al rispetto dei  diritti umani, un caso paradigmatico di grande rilevanza. Ed anche l’opportunità per la società civile italiana di rafforzare la sua capacità di incidenza costruendo reti e sinergie per chiedere giustizia e verità, oltre all’embargo alla fornitura di armi all’Egitto e la revisione degli accordi commerciali ed economici con il paese. Tutti punti contenuti nell’appello Difendiamo chi li Difende, la nuova campagna lanciata dall’AOI a cui hanno già aderito Rete della Pace, ARCI, AITR-Associazione Italiana Turismo Responsabile, Link2007, Un Ponte Per…, Incontro fra i Popoli, Terra Nuova, LTM – Gruppo Laici Terzo Mondo, Legambiente, Nexus, COONGER – Coordinamento Ong Emilia Romagna, Cifa Onlus.

Obiettivo chiave della campagna è quello di proteggere gli attivisti ed i difensori dei diritti umani in Egitto con la prospettiva di spingere il governo ad adottare misure per la tutela e la protezione dei difensori dei diritti umani in ogni parte del mondo, come già fatto da vari paesi membri dell’Unione Europea. E coordinarsi con le altre iniziative già attive sull’Egitto, tra cui: quella di Amnesty International sul caso Regeni e le sparizioni forzate; quella di Rete Disarmo sull’embargo alla vendita di armi (tema trattato in occasione di un seminario sul commercio delle armi organizzato a Roma insieme a Fondazione Culturale Responsabilità Etica e Sbilanciamoci); quelle dell’ARCI  sui diritti umani ed il sostegno alla società civile egiziana; quella di AITR sul turismo responsabile; quelle sulla libertà di stampa ed espressione.

All'import-export del "modello" israeliano

Il Manifesto, 29 luglio 2016

Sicurezza, parola diventata mantra compulsivo in ogni teoria e attuazione pratica per politica, relazioni internazionali, diritto, economia. Una parola che è come un elastico, la tiri a seconda del bisogno, e quando lo molli, i danni collaterali sono drammatici. Per questo ogni volta che si tratta di sicurezza, in un contesto di guerra asimmetrica che entra fin dentro casa nostra, lo si deve fare con grande cautela, definendone la subordinazione ai diritti umani ed al diritto internazionale. Fa quindi pensare che tra le carte e le agende di lavoro della Commissione Esteri del Senato compare un disegno di legge che dovrebbe richiamare la preoccupazione dei parlamentari e dell’opinione pubblica. E che invece per ora giace lì, acquattato tra i «file», non ancora discusso dopo essere stato presentato dal governo a febbraio scorso.

Spesso queste attese non sono casuali, ma scelte politiche. Come è il silenzio cui il governo Renzi ci ha fin troppo abituato, il far finta di nulla o tacere sulle continue violazioni dei diritti del popolo palestinese, la crescente radicalizzazione della destra israeliana, le reticenze di Nethanyahu ad accettare ogni mediazione internazionale per metter fine all’occupazione militare della Palestina.
Il silenzio è complice per questo è importante aprire quel «file» e renderne noto il contenuto. Giacché questo disegno di legge, il numero S2186 per l’esattezza, riguarda la cooperazione tra Italia ed Israele nel settore della pubblica sicurezza «fatto a Roma il 2 dicembre 2013». E cosa si intende per sicurezza? Dalla collaborazione contro il crimine organizzato, il traffico di sostanze stupefacenti, le immigrazioni illegali, fino alla lotta al terrorismo, e la formazione delle forze di polizia israeliane, lo scambio di expertise per la gestione dell’ordine pubblico, dati sensibili e servizi di intelligence.
È quel riferimento alla lotta al terrorismo che merita una particolare attenzione: oggi in Israele su quei temi si gioca il futuro del paese, quello del popolo palestinese e la capacità o meno di resistere ed opporsi alle politiche di Tel Aviv. Per i palestinesi e per gli israeliani. E perché qui a casa nostra qualcuno vorrebbe l’import-export di quel modello. Due eventi sono lì a dimostrarlo. Il primo è l’approvazione a metà giugno da parte della Knesset di una legge sul terrorismo sostenuta con forza dal ministro della giustizia Ayelet Shaked e che permetterà al governo di mettere fuorilegge qualsiasi ong che «indirettamente» contribuirebbe ad organizzazioni «terroristiche», ampliando notevolmente le prerogative dello stato e le definizioni di terrorismo ed organizzazioni terroristiche.

Mentre lo Shin Bet potrà sorvegliare eventuali sospetti utilizzando mezzi informatici (magari quelli al centro della Campagna «Boycott, Disinvestment, Sanctions»). Questo in un contesto di continue violazioni dei diritti umani da parte delle forze di polizia ed esercito occupanti, maltrattamenti – anche ed in numero crescente di bambini palestinesi – esecuzioni extragiudiziali, persecuzione di difensori dei diritti umani. Se ciò non fosse sufficiente, la Knesset ha approvato a metà luglio a larga maggioranza un’altra legge sui finanziamenti delle Ong che di fatto rende la vita impossibile a quelle organizzazioni che ricevono finanziamenti dall’Unione Europea e si dedicano al monitoraggio dei diritti umani in Israele e Palestina. Un compito improbo, al punto che di recente l’associazione israeliana B’tselem ha deciso di smettere di presentare ricorsi alle autorità per violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza vista l’impossibilità di ottenere giustizia. Sicurezza appunto. Nessun allarme su diritti umani e diritto internazionale.

Su questo il testo del disegno di legge in Senato è laconico: quando si tratta di valutare eventuali «indicazioni delle linee prevalenti della giurisprudenza ovvero della pendenza di giudizi innanzi la Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul medesimo o analogo soggetto» la mano solerte del funzionario scrive «nulla da rilevare». Eppure proprio sulla legge anti-Ong alla voce di protesta del segretario Onu Ban Ki moon si è aggiunta anche quella dell’Ue. Elastici, silenzi e schizofrenie.

venerdì 15 luglio 2016

Nice killings: l'orrore delle parole dell'orrore



Prima di commentare (eppoi c'è sempre bisogno di commentare  o  la nostra mania di mettere sempre le braghe al mondo nasconde il "coloniale" orientalista che non riusciamo a scrollarci di dosso?) la tragedia di Nizza vorrei capire meglio. Anzitutto perché ormai sono/siamo a corto di parole, eppoi perché sono un po' stanco della litania solita riguardo chi dovrei essere io Charlie o Dacca, o Baghdad o Nizza o il solito concorso di colpe dell'Occidente, le morti di serie a e serie b. Certo le guerre scatenate con le armi o le parole possono anche essere parte del problema,  ma ad oggi batterci il petto non è che abbia aiutato molto a delineare una visione 'altra' o soluzioni 'altre' . Lo dimostrano i fatti nudi e crudi. Semmai e' servito solo per rassicurarci sulle nostre visioni del mondo che forse anch'esse sono obsolete. E perché anche noi armati di tanta buona volontà (Dio ci scampi e liberi di chi e' armato di troppa buona volontà!) subito riconduciamo l'inesplicabile e l'orrore legittimo nelle nostre categorie di analisi e spiegazione dei fatti. Il folle che ha massacrato decine di civili inermi magari e' un folle che ha cosi' posto fine alla sua follia, con un gesto che incute terrore, terroristico. Ma se alla fine si dimostrasse solo un folle, di origine tunisina, basta per automaticamente ricondurre tutto al DAESH? Che ogni persona folle o meno che sia di origine araba debba subito essere incasellata nello schema che lo riconduce al DAESH? Che sia chiaro quello è un cancro da estirpare ma semmai con la medicina omeopatica non quella allopatica che sennò come vediamo va in metastasi continua. Non è che si rischia di fare di tutta l'erba un fascio, cosa che non aiuta affatto a scongiurare il peggio? Certo si dice che DAESH abbia rivendicato, facile fare sciacallaggio via internet. Quindi per ora l'unica parola che ho è "pietas" per quelle povere vittime innocenti per i loro cari e familiari che rischiano di essere trascinati non solo nel tritacarne mediatico ma anche nel nostro continuo cercare chiavi che corroborino le nostre teorie per quanto giuste o strampalate esse siano. In realtà è da tempo che rifletto sull'obsolescenza delle parole, ed oggi leggendo le notizie in inglese sono inorridito a immaginare la traduzione letterale in italiano di Nice killings o Nice attack. Leggetela in inglese e poi vedrete come le parole a seconda di come le leggi o le usi ormai perdono di senso.

Politica estera e commercio di armi, ossimoro, circolo virtuoso o intreccio mortale?





Francesco Martone (*)

Relazione per il convegno “Le armi italiane nel mondo, relazioni pericolose o rispetto della legge?” a cura di Rete Disarmo, Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Sbilanciamoci, Roma, 13 luglio 2016 [1]

Si può parlare di “impatto” del commercio di armi sulla politica estera o piuttosto esiste una relazione diretta, un intreccio tra commercio di armi e politica estera? E se si, come si alimenta, quali ne sono le caratteristiche e quali le possibili vie d’uscita?
La risposta a queste domande è necessaria per   tentare un’analisi politica della questione, che vada a corroborare il lavoro certosino di documentazione, analisi, ricerca che da anni i movimenti pacifisti svolgono in Italia. Ed allo stesso tempo tenti di rifuggire  scivolamenti verso posizioni etico-moraliste di demonizzazione del sistema difesa o del concetto stesso di sicurezza, che invece va ripreso, decostruito e rielaborato   da un punto di vista pacifista e nonviolento. [2]
In questo contesto, il commercio e la produzione di armi è indubbiamente uno dei corni della questione. Allora, se il commercio di armi è tema “politico” va affrontato dal punto di vista politico. E per far ciò si deve tentare un’analisi “politica” della questione a partire appunto dalla relazione tra armi epolitica estera. Una relazione, come si vedrà, non univoca. Non si può infatti parlare di un “impatto” del commercio di armi sulla politica estera, piuttosto si dovrà concludere che il commercio di armi fa parte, è parte della politica estera.
Per meglio argomentare il punto si dovrà anzitutto partire da un dato di fatto. La politica estera come concetto oggi ha un carattere multidimensionale, riguarda non solo relazioni tra paesi, tramite alleanze, o la cessione di sovranità ad ambiti multilaterali , ma anche ed in misura crescente le relazioni commerciali, industriali, la commistione tra interessi di impresa,  economici, strategici- geopolitici.  
Questo è il primo elemento da tenere a mente se si vuole cercare di abbozzare un’analisi delle relazioni tra commercio di armi e politica estera. In realtà non esiste più un concetto a sé stante di politica estera “virtuosa” visto che i livelli si intrecciano sempre più al punto da renderli perfettamente allineati o intercambiabili.
A ciò va aggiunto che nella genesi della politica estera, da quella tradizionalmente improntata sulla realpolitik, a quella di potenza, a quella “etica” dell’ingerenza umanitaria (ormai fallita dopo il caso Libia e l’inazione della comunità internazionale verso la Siria almeno nella prima fase della rivoluzione e del conflitto) e dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani, si è andata ormai affermando una visione di politica estera  che “securitizza” ogni suo aspetto, dalla cooperazione allo sviluppo, alle relazioni diplomatiche, a quelle commerciali.
Questo punto appare ormai imprescindibile in ogni analisi relativa alla politica estera visto che ne è l’elemento centrale, e non solo per una scelta politica di abdicazione alle ragioni dei diritti e della diplomazia. C’è poi un elemento che richiama quella che Seymour Melman – a suo tempo definiva la  permanent war economy [3], o più semplicemente l’esistenza  di un apparato industrial-militare che determina le relazioni e i nessi causa effetto tra interessi del settore difesa e la definizione ed implementazione della politica estera di un paese.  Vale pertanto la pena di osservare più da vicino come si esplicitano le relazioni tra “sistema armi” e politica estera in Italia ed Europa.
Nel nostro paese questo intreccio si evidenzia anzitutto nella pratica mai abbandonata o effettivamente regolamentata delle “revolving doors”, o “Porte girevoli”, quelle che permettono le relazioni tra apparato della difesa, imprese e politica. Una questione apparsa in tutta la sua evidenza nel caso dell’Ambasciatore Castellaneta ai tempi del governo Berlusconi, quando lo stesso  già consigliere diplomatico di Berlusconi a Palazzo Chigi e membro del “Board” di Finmeccanica (oggi ribattezzata “Leonardo”) poi mandato a Washington per chiudere il mega affare – mai concluso – per gli elicotteri Agusta-Westland per i Marines. Una questione rimasta irrisolta se pensiamo al caso più recente relativo alla vicenda di Lapo che dall’oggi al domani lascia il suo incarico di viceministro degli esteri con delega alla cooperazione ed al Medio Oriente per  passare alla poltrona di vicepresidente dell’ENI.
Va inoltre sottolineato il ruolo sempre crescente del Ministero della Difesa e dell’Industria nella definizione delle linee strategiche del paese e della proiezione del paese vero l’esterno ed allo stesso tempo depositario ed attore di primo piano nella “diplomazia” industrial-militare. A ciò va aggiunta la proliferazione  di accordi bilaterali di cooperazione tecnico-industriale nel settore militare, che hanno come “volet” anche la cooperazione nel settore degli armamenti e dell’industria.  Questi accordi bilaterali spesso operano come “cavallo di Troia” per l’esportazione e la cooperazione nel settore della difesa e degli armamenti, per non tralasciare quella prassi ormai consolidata di cessione di armamenti o componenti di sistemi d’arma definita e formalizzata nei  decreti missioni.
Sullo sfondo Il progressivo indebolimento delle normative ex legge 185/90 in termini di trasparenza, “accountability”, e monitoraggio destinazione finale dei sistemi d’arma. Che è, assieme al decreto missioni, l’unico strumento esistente di monitoraggio parlamentare sull’invio di armi all’estero. Va sottolineato al riguardo che il processo di indebolimento è partito con il pretesto dell’adattamento della 185/90 all’accordo di Farnborough per la creazione di industria europea della difesa. In questo caso è evidente che le scelte di politica estera incidono “negativamente” in termini di regolamentazione del commercio di armi.
Per quanto riguarda il  livello europeo, è altrettanto evidente che la strategia di sicurezza europea ed il portato del trattato di Lisbona sulla politica europea di sicurezza e difesa siano state determinate dalla forte pressione delle lobby delle industrie degli armamenti. [4]Già il rapporto “Lobbying warfare: the arms industry role in building a military Europe” del Corporate Europe Observatory del settembre 2011 [5]  dimostra come le lobby dell’industria della difesa europea non solo determinano le linee di politica industriale ma anche le strategie di politica estera e di difesa.  Per non parlare del recentissimo rapporto del TNI “Border Wars” che documenta  come l’industria europea della difesa si sta riadattando alla domanda di sistemi di sorveglianza e monitoraggio delle frontiere. [6]
Da tutto ciò consegue che per  meglio comprendere le relazioni che intercorrono tra politica estera e industria degli armamenti sarà necessario fare un’operazione di trasparenza e chiarezza per evidenziare i nessi causali, certo conosciuti ma non ancora messi a sistema. Nessi causali che riguardano sia il modo con il quale la politica estera favorisce o agevola gli interessi dell’industria della difesa. Sia come questa prima sia definita dalla seconda.
E per fare ciò si deve sempre partire dalla traccia del denaro:  dove vanno le sponsorizzazioni? In quali Board siedono i rappresentanti dell’industria degli armamenti? Quale il ruolo del settore della difesa nel coltivare relazioni internazionali tra i paesi?  Le risposte a tali domande dimostreranno che di fatto esiste un sistema parallelo di politica estera praticato dalla difesa, un sistema intrecciato tra  politica-diplomazia-impresa-forze armate-ricerca-think tank-media. Insomma la feluca e la spada si sposano con la moneta e la penna.  
Poi ci si dovrà interrogare su come l’invio/spedizione di armi o la sua negazione attraverso gli embargo sia di per sé strumento di politica estera. Ossia su come il commercio o trasferimento  di armi o la sua interdizione siano scelte consapevoli di politica estera.  Ci sono alcuni casi interessanti anche recenti di studio che possono servire a meglio comprendere come   spesso l’intreccio tra commercio di armi o meglio invio di armi, non necessariamente a scopi commerciali, incida sulla politica estera e sulla credibilità del paese. È questo il caso  dello stock di armi sequestrate anni fa ad un  trafficante di armi russo nel 1994 e poi stoccate a la Maddalena, un arsenale contenuto in 200 container, dal quale venivano prelevate armi e munizioni come fosse un bancomat. Prima per sostenere alcune  milizie filooccidentali libiche, con il risultato che poi queste armi sono finite in mano alle   milizie filo-gheddafiane. E più di recente a sostegno dei Peshmerga kurdi in Iraq una decisione presa di fretta e furia dal governo, informando le Camere convocate a fine agosto di due anni fa, mentre nelle stesse ore Matteo Renzi era a Baghdad per ottenere l’avallo  necessario da parte del governo irakeno.  [7] Una tale   scelta opportunistica se da una parte  può aver pregiudicato un ruolo centrale dell’Italia in quanto mediatore di conflitto in Irak (compito ancor più urgente quando all’indomani della sconfitta militare di DAESH ci sarà da ricostruire un processo di riconciliazione interreligiosa ed interetnica nel paese)    dall’altra avrebbe finito per per servire agli interessi di politica estera e commerciale italiana in particolare per quanto riguarda l’accesso alle risorse petrolifere del Kurdistan Irakeno.
Lo stesso dicasi per l’Egitto. L’Italia continua a vendere armi all’Egitto, e ad inviare bombe all’Arabia Saudita impegnata in una guerra sanguinosa e brutale contro le milizie DAESH in Yemen con enormi costi in termini di vittime civili.  Il punto in questo caso è che inviare armi alla coalizione anti-DAESH   è compatibile con la politica estera italiana, ma ne  evidenzia le gravissime contraddizioni e la scala invertita di priorità.  L’Italia si fa paladina dei diritti umani presso le Nazioni Unite e poi cede di fronte ad altre priorità strategiche: sostiene Egitto [8] ed serie di partner regionali complici o responsabili di crimini di guerra come l’Arabia Saudita o di violazioni dei diritti umani come Egitto o Bahrein, con il pretesto del sostegno alla lotta al terrorismo.  A suo tempo il Consiglio Europeo dei Ministri aveva dato indicazioni ai paesi membri di sospendere le licenze di esportazione di armamenti verso l’Egitto in seguito alle gravi violazioni dei diritti  umani,  ma di recente la UE ha approvato l’invio di sistemi d’arma ed altro in sostegno all’Egitto nella sua lotta contro il “terrorismo”.
Risulta così evidente come la politica estera del paese sia determinata da interessi geopolitici e strategici chiari, è frutto di scelte chiare di “securitizzazione”, che comunque risultano assai contraddittorie.
Portando il discorso alle estreme conseguenze si potrebbe affermare che l’invio di armi in paesi in conflitto equivale a partecipare (seppur indirettamente) a quella guerra. Lo spiega chiaramente un’eccellente pezzo di inchiesta uscito ieri l’altro sul New Inquirer “Recoil operation” sul commercio legale ed illegale di armi leggere negli States. “Domestic distaste for “boots on the ground” dovetails with domestic commitments to arms-related manufacturing jobs making it even more attractive to arm foreign allies instead of doing the fighting ourselves”. [9]
Né più e né meno quello che accade anche nel nostro paese: ad un aumento delle esportazioni di armi in zone di conflitto da una parte (quindi una sorta di guerra per procura, all’interno della coalizione contro il DAESH ad esempio, senza però l’invio di “scarponi sul terreno” visti gli alti rischi ed i possibili costi “politici” di un’eventuale operazione) corrisponde  l’aumento delle collaborazioni industriali con paesi che offrono maggiori opportunità di affari, dall’Asia, agli Emirati, all’Africa, all’America Latina.
A questo punto, forse si deve iniziare a dire chiaramente che inviare armi in zone di conflitto è una scelta politica di guerra, seppur per procura. E implica il sostegno alla guerra come modalità per risolvere controversie internazionali, e per esteso violerebbe l’articolo 11 della Costituzione.
C’è poi un’altra questione politica riguardo all’embargo di invio di armi: in linea di massima un paese non dovrebbe inviare armi in aree di conflitto, cercando quindi di mantenere una certa “terzietà” o neutralità che gli permetterebbe poi di svolgere un ruolo di mediatore e arbitro per una soluzione diplomatica e politica. Spesso  la presa di posizione attraverso l’invio di armi ad una delle parti in conflitto è spiegata come necessità di equilibrare le forze in campo o di alterare l’equilibrio per creare le condizioni per una soluzione negoziata.  [10]  È però tutto da dimostrare che l’ uso della leva dell’invio di armi o l’embargo selettivo abbiano contribuito alla pacificazione di lungo periodo nelle aree di conflitto,  o invece in molti casi abbiano contribuito a “minare” le fondamenta di una pace duratura.
Rebus sic stantibus, quali possono essere le possibili soluzioni?
Ne esiste senz’altro una immediata, ovvero chiedere trasparenza e controllo parlamentare, richieste legittime che riguardano anche la ratifica ed applicazione in Italia dell’ATT , la cui seconda conferenza delle parti si riunirà a Ginevra ad agosto 2016. Si potrebbe stabilire ad esempio una  correlazione tra attuazione dell’ATT e 185/90 o regimi di rendicontazione e trasparenza. Anche se l’ATT ha anche delle clausole che prevederebbero la proibizione dell’invio di armi in taluni paesi. Condizionalità che invece è andata persa o fortemente indebolita nelle successive revisioni della 185/90.
Si potrebbe quindi  iniziare verificando la compatibilità della 185/90 con gli obblighi di trasparenza e reporting derivanti dalla ratifica dell’ATT, quali la “national control list”, l’annual report al Segretariato del trattato. [11] Il sistema di rendicontazione dell’ATT   può essere usato per rinforzare il sistema di rendicontazione della 185/90 nelle sue versioni riviste e corrette? Eppoi le condizionalità della 185/90 riguardanti le “gravi” violazioni dei diritti umani possono contribuire a rinforzare quelle dell’ATT almeno per quanto concerne l’equivalenza dei regimi di controllo e trasparenza? Ciò però potrà essere possibile solo se  accanto all’attuazione delle misure necessarie in seguito alla ratifica dell’ATT si operi per  il ripristino delle normative originali della 185/90 – in particolare la trasparenza delle transazioni bancarie e  vincoli relativi all’esportazione in paesi dove vengono violati i diritti umani e si estenda l’obbligo di rendicontazione e trasparenza anche ai trasferimenti di armi o cooperazione nel settore della produzione di armi nel quadro degli accordi bilaterali nel settore della difesa, ad esempio chiedendo una relazione annuale al Parlamento.
Tale approccio improntato sulla trasparenza e l’”accountability” , seppur necessario ed urgente però non scalfisce il nocciolo “politico” del problema, cerca di costruire o ricostruire l’”hardware” ma non cambia il “software”: ossia ciò che viene prodotto dall’intreccio tra politica estera, di difesa e industriale.   Sarebbe quindi opportuno iniziare a ragionare su altre ipotesi di lavoro che ad esempio documentino ed affrontino il tema delle fondazioni, delle think tank e della sponsorizzazione delle imprese degli armamenti e quello delle “revolving doors”. E che semmai oltre a lavorare sulla “domanda” di armi , si riprenda a lavorare anche sull’”offerta”,   alla conversione dell’industria militare. Più in generale, essendo il tema del commercio di armi, come si è cercato di argomentare, un tema “politico” che risponde a visioni di politica estera “securitaria” o di realpolitik, sarà necessario uno sforzo più ampio a livello di elaborazione e ricerca culturale e politica. Ossia, come noi , movimenti pacifisti e pacifisti intendiamo la politica estera? Basta dire che vogliamo la pace e non la guerra? E che siamo contro il commercio di armi? O siamo per la sua trasparenza? Il tema centrale   riguarda il paradigma e lo sforzo di cercare di elaborare un proprio paradigma di politica internazionale, magari fondato sul principio e la pratica della neutralità attiva.   Un Ponte Per a suo tempo ha proposto ad un documento sulla Libia proprio improntato sul tema della neutralità attiva come possibile soluzione alla crisi libica. Un ruolo terzo e equidistante per l’Italia che avrebbe avuto cos’ la possibilità di mediare, di essere arbitro tra le parti, laddove uno dei punti è quello dell’embargo all’invio di armi a tutte le parti in conflitto.  Sul tema e la pratica della neutralità attiva ci sarebbe molto da ricercare e elaborare insieme. Per questa ragione assieme a Transform! Italia, Un Ponte Per propone un primo appuntamento di approfondimento a Roma a settembre, dove anche la questione del commercio di armi verrà affrontata nel quadro più ampio. [12]

(*) membro del Comitato Nazionale di Un Ponte Per…
francesco.martone@unponteper.it




[1] http://www.disarmo.org/rete/a/43297.html
[2] importante al riguardo il recente dossier “Sicurezza” di Mosaico di Pace http://www.mosaicodipace.it/mosaico/i/3722.html
[4] Per tornare a casa nostra,  si veda ad esempio anche in Italia la relazione stretta tra Finmeccanica e think tank quali lo IAI o l’ISPI  , o Aspen  nei cui  Board siedono rappresentanti di Finmeccanica,  o viceversa exviceministri degli esteri e autorevoli teste pensanti di Aspen Institute che vengono mandati nel board di Leonardo-Finmeccanica.
[8] triangolazione per la creazione di un hub per il gas naturale con Israele e Libia, interessi di controllo dei flussi migratori, e ruolo nel dopo- conflitto in Libia – in questo caso schierandosi con l’alleato chiave di Heftar, che secondo informazioni recentissime starebbe lavorando ad un accordo con le milizie filo-gheddafiane per un patto anti-ISIS etc. 
[9] http://thenewinquiry.com/essays/recoil-operation/
[11] Va però sottolineato che l’ATT no prevede proibizione di invio di armi sulla base del rispetto o meno dei diritti umani, ma solo per embargo, genocidio o crimini contro l’umanità.

[12] https://neutralitaattiva.wordpress.com/

lunedì 4 luglio 2016

L'obsolescenza programmata delle parole

Come spesso mi accade a prima mattina, è con il risveglio che tra sogni mezzi fatti e mezzi ancora da fare, sinapsi che si rincorrono e giocano al nascondino, memorie del giorno precedente e goffi tentativi di pianificare quello che viene, un sorso lungo di caffé nero bollente (rigorosamente pestato nella Bodum d'ordinanza), lettura di notizie online, insomma è in quella fase liminale tra sonno e risveglio che nella testa mi si ricompongono eventi, parole, informazioni, dati, che letti da sé appaiono sconnessi e poi come per incanto si ricompongono a formare un'intuizione, un pensiero.

Ieri ho ascoltato con attenzione le parole di alcuni relatori intervenuti all'importante convegno sui 40 anni della Carta di Algeri (oggi la seconda parte) si parlava di popoli, diritti dei popoli, di migranti, rifugiati, Si parlava e non solo, le parole erano la traduzione verbale di storie profonde di impegno, dalla ricerca e l'analisi giudirico-legale, al sostegno concreto "sul campo". Parole dense di corpo, di storia e di storie. Non quelle parole che ormai accompagnano retoricamente l'ennesimo naufragio, crimine contro l'umanità. Ripensavo a quelle parole, all'amara constatazione che i diritti dei migranti e dei rifugiati non trovano cittadinanza nelle agende della politica istituzionale, ripercorro le immagini di Via Cupa, a Roma, delle centinaia di esseri umani accatastati in una stradina a ridosso del Verano e della Stazione Tiburtina. Alla richiesta pressante ed urgente di viveri e medicinali dei volontari dl Baobab Experience. Concretezza che annega nel mare delle parole, quelle di circostanza o quelle rituali, quando si parla di migranti, di mobilità umana. Al fiume di parole spese sull'opera di Christo, la passerella che dovrebbe simboleggiare la capacità di camminare sulle acque, la mobilità umana.

Le parole, disse credo Walter Benjamin, ad un certo punto perdono di significato, mancano vengono meno. Ecco, forse oggi questo è il punto: le parole non solo non bastano, ma sono cadute in obsolescenza. Quelle parole che sanno di "paternalismo", di spocchiosa supponenza, di miserevole compassione, e quelle che a fiumi cercano di decodificare il fenomeno, tradurlo in "issue" più o meno utile alla circostanza o al rating del consenso. O tema di dibattito, ricerca, analisi, produzione culturale o visuale. Insomma un argomento di elaborazione e conversazione, nulla più, e per di più ormai in "overkill" , stato di utilizzo eccessivo al punto da renderlo inutile, a produrre assuefazione.
 Sul tema dei desaparecidos in mare, delle tragedie di chi si incammina su un percorso migratorio, per desiderio o necessità, forse troppo si è parlato, forse quelle parole utilizzate o per mettere a bada i nostri sensi di colpa o per prefigurare interventi salvifici, non bastavano allora. Ed oggi sono obsolete.

Non "Basta la parola" per parafrasare un refrain di un vecchio spot di Carosello - si perché a prima mattina riaffiorano chissà da dove anche memorie antiche, si sa con l'avanzare degli anni la memoria di lungo periodo prende il sopravvento. E la memoria di lungo periodo mi ricorda quando adolescente mi trovai , mediaticamente, di fronte alla tragedia dei "boat people" in Asia. Gente che scappava dalla guerra. Ad un certo punto a casa si pensò pure di adottarne uno, Non se ne fece nulla, però quel giorno, decisi di distruggere tutti i miei soldatini di plastica, e le mie armi giocattolo, le riviste di aerei - a quell'età ti viene la passione per gli aeroplani e per le armi, ma dopo le immagini del Vietnam, Da Nang, Saigon, le corrispondenze via satellite in bianco e nero. della guerra del Kippur iniziai a dare a quei giocattoli un altro significato. "Non posso giocare alla guerra assieme al bimbo vietnamita, quello scappa dalla guerra. Per lui mica è un gioco". Dell'adozione non se ne fece nulla, ma allora iniziò la mia conversione al pacifismo ed all'antimilitarismo. Non bastano più le parole