venerdì 26 settembre 2008

Multilateralismo, etnonazionalismo e nuovi assetti della governance globale

Il caso della guerra nel Caucaso


Di Francesco Martone

Setiembre 2008


La guerra di agosto tra Russia e Georgia, scatenata dall’improvvida decisione del presidente georgiano Sakhashvili di attaccare l’enclave di etnìa russa dell’Ossezia del Sud, oltre ad essere il culmine di un confronto ormai in corso da anni nella regione, può fornire l’opportunità per discutere di varie questioni paradigmatiche e delle sfide che oggi la sinistra si deve attrezzare a comprendere e affrontare nella sua dimensione politica internazionale, o meglio cosmopolita.

Una prospettiva che prova a studiare e leggere le questioni di politica estera il più possibile scevre di contaminazioni derivanti dal discorso politico nazionale, e che così facendo non la considera un ulteriore cambio di battaglia ideologico nel quale prendere parte per una o l’altra parte in conflitto.

Con questi presupposti la crisi del Caucaso può offrire la possibilita di commentare su varie questioni centrali relative alla politica estera, dal ruolo e la nuova forma degli stati nazione, al rinnovato insorgere di forme di etnonazionalismo, fino alla trasformazione degli assetti della governance globale. E di nuovo chiama ad una profonda rielaborazione di categorie antiche, e di approcci che rischiano di non cogliere appieno la complessità e la profonda novità degli sviluppi della politica globale.

Il primo indizio di analisi riguarda il carattere paradigmatico della guerra tra Russia e Georgia. Per meglio comprenderlo andranno svolte alcune considerazioni specifiche.

Dal punto di vista della Georgia , il paese aspira ad entrare nella NATO, e nella convinzione di ottenere il sostegno del mondo occidentale, non ha esitato a sferrare un’attacco contro le enclave etniche in Sud Ossezia. Le questioni che ne derivano riguardano le ricadute della disintegrazione dell’ exUnione Sovietica, ma anche
il ruolo nuovo della NATO. A 60 anni dalla sua fondazione, l’alleanza dimostra di voler cambiare le sue attribuzioni e ragioni d’essere da assetto puramente “difensivo” ad agenzia globale di sicurezza, con spiccate caratteristiche “offensive”. Il conflitto in Afghanistan dimostra che la NATO oggi rientra nelle opzioni à la carte perseguite dagli Stati Uniti per sostenere le proprie priorità strategiche, nel tentativo di socializzarne le ricadute negative in termini politici.

La seconda questione riguarda il tema della sicurezza energetica e della dipendenza del nostro modello di sviluppo dalla produzione e consumo di combustibili fossili. La Georgia è crocevia di importante gasdotti tra cui il Baku-Tbilisi-Cheyan, e del Nabucco, ed insiste quindi in un’area cruciale per l’approvvigionamento energetico degli USA e dell’Europa.

Dal punto di vista russo ci si trova invece di fronte ad una potenza che vuole mostrare di essere tale nel panorama globale riaffermando il suo ruolo geopolitico e geostrategico. I prodromi di questa trasformazione si possono ritrovare nel discorso di Vladimir Putin alla 43ª Conferenza di Monaco sulla sicurezza del febbraio 2007 in seguito al quale molti commentatori avevano ipotizzato un ritorno alla guerra fredda.

Il confronto con la guerra fredda sembra però azzardato visto che la Russia non sembra avere intenzione di esportare un modello ideologico o culturale, non dispone in realtà di ciò che viene definito “soft-power” e questo forse è il suo grande limite nel tentativo di affermarsi su scala globale. Più semplicemente la Russia non tollera di perdere controllo nella sua sfera inmediata di influenza e ciò vale per il Caucaso ma anche per l’Ucrainae l’Europa Orientale, oggi in prima linea per quanto concerne l’allargamento della NATO ed il progetto USA di scudo antimissile. Mosca quindi raeagisce con forza contraponiendo la costruzione di nuove alleanze militari quali la Shanghai Cooperation Initiative (SCO) o l’alleanza militare delle repubbliche della ex CSI. E nella sua politica di potenza non esita ad utilizzare le proprie enormi risorse energetiche come arma di pressione.

E l’Europa? L’Unione Europea ha dimostrato la sua grande difficoltà nel proporre una linea politica comune, con il ministro degli esteri inglese Miliband che per primo si è recato a Tbilisi per sostenere il governo georgiano, distanziandosi dal resto dei Paesi dell’Unione che hanno preferito una posizione più cauta nel tentativo di porsi come mediatori tra le parti in conflitto. Così ha interpretato il ruolo il Presidente francese Sarkozy. Secondo Mary Kaldor, esperta di questioni globali e di nuove guerre, l’Europa, (e l’OSCE) nel caso della guerra tra Russia e Georgia avrebbe mostrato di perseguire una strategia di sicurezza distante dall’approccio geopolitico e di “potenza” proprio della NATO. Un approccio che sarebbe basato sulla sicurezza umana e sulle dimensioni non-militari della gestione dei conflitti che però non è innervato da una condivisione delle linee di politica estera da parte degli Stati Membri. Basti pensare a quanto accaduto sul riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.

A suo tempo si era sollevata la preoccupazione che il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo avrebbe rappresentato un pericoloso precedente che avrebbe riattivato i cosiddetti conflitti congelati in Sud Ossezia ed Abkhazia, per non dimenticare il Nagorno-Karabakh o la Repubblica Srpska nei Balcani.

Allora le potenze occidentali si erano affrettate con grande ipocrisia ad affermare che il Kosovo sarebbe stato un caso unico e che quindi non avrebbe rappresentato un precedente per altre forme di secessione. I russi hanno invece più volte mostrato irritazione nel parallelo tra Kosovo e conflitti in Caucaso, giacché il Kosovo si è reso indipendente solo dopo l’intervento militare della NATO, e considerando che se da una parte a suo tempo Belgrado aveva tentato sempre la carta del negoziato, il presidente georgiano Sakhashvili ha preferito da subito l’opzione militare.

Certo è che queste vicende chiamano fortemente in causa il fenomeno dell’etnonazionalismo e del suo importante ruolo nel plasmare gli eventi della storia moderna.

L’etnonazionalismo rappresenta oggi uno dei più importanti “driver” - insieme alla trasformazione dei rapporti di forza su scala globale, la crisi ambientale e la dipendenza energetica da combustibili fossili (o meglio il tema della sicurezza sostenibile) ed il principio della politica estera etica - del dibattito sulla politica del 21’ secolo, non solo per la politica estera, ma anche per quella interna.

E’ una spinta che mette alla prova sia le strutture interne degli stati che le proprie frontiere, e risponde al vuoto di significato conseguente ai processi di modernizzazione e globalizzazione, che a sua volta alimenta forme identitarie.

Le ricadute di questo processo si leggono sia nelle politiche migratorie e di cittadinanza (quindi all’interno degli stati) che nel discorso relativo alla prevenzione del genocidio e delle pratiche dell’ingerenza umanitaria, e delle conseguenze che questa comporta nella ridefinizione del concetto di sovranità.

Non a caso la Russia ha invocato il principio della R2P (“Responsibility to Protect”) per intervenire a protezione delle minoranze russe in Sud Ossezia, usando la stessa argomentazione, ovvero l’intervento militare nel territorio di un’altro stato, per proteggere un’etnia minacciata di genocidio che gli USA hanno cercato invano di usare come pretesto per un’operazione militare in Darfur. Si nota quindi un uso simmetrico ed altrettanto strumentale del concetto di politica estera etica, con la quale si ammantano di connotati etici scelte che sottendono per lo più ad interessi geopolitici e/o strategici.

Qualche commentatore ha affermato che la guerra russo-georgiana è stata caratterizzata da elementi di conflitto basati su una politica di potenza e di polarizzazione ideologica al punto da farne la prima guerra del 19º secolo combattuta nel 21º secolo. E’ evidente che viste le premesse, la guerra nel Caucaso ha un potenziale esplosivo a livello internazionale giacché coincide con rivalità geostrategiche tra USA/NATO e Russia, e riguarda anche il posizionamento dell’Unione Europea, quello della Turchia e dell’Iran. Ed ha dimostrato una volta per tutte che l’equilibrio di potere in Eurasia è già cambiato, con la presenza forte della Russia che si pone ormai come una delle grandi potenze nel sistema di governo globale.

Il quadro generale della trasformazione della governance globale merita quindi di essere studiato a fondo, e la domanda cruciale da porsi è se ci troviamo o meno di fronte al crollo dell’impero americano.

Senza dubbio la guerra tra Georgia e Russia ha aperto una nuova era, quella dello spostamento dell’asse del potere, come dice un importante studioso di politica estera USA Fareed Zakaria, del “rise of the rest”, l’avanzata del resto del mondo.

Dal duopolio proprio della guerra fredda, attraverso il predominio degli USA dopo il 1991 (altro che fine della storia come ebbe a dire a suo tempo Francis Fukuyama!!) siano ora giunti ad un assetto multipolare. Certamente gli USA manterranno il predominio a livello politico-militare ma nelle altre dimensioni del potere si assiste già fin d’ora ad un profondo spostamento dal loro dominio assoluto.

Nell’America che verrà consegnata nelle mani di Barak Obama o di John McCain la lettura di questa fase si svolge secondo due linee di pensiero.

Una più costruttiva, secondo la quale non ci si troverebbe alla fine dell’impero americano, ed il mondo non starebbe diventando antiamericano, bensì sarebbe entrato in una fase post-americana, come dice Fareed Zakaria.

La seconda più vicina alla destra conservatrice che legge questa fase come
non-polare, nella quale nessuna potenza mantiene una situazione di dominio sulle altre: insomma ci si troverebbe di fronte a numerosi centri con potere considerevole. Il mondo di oggi pur sembrando multipolare in realtà starebbe subendo una profonda trasformazione nelle sue forme tradizionali.

Secondo questa corrente di pensiero il multilateralismo a la carte, secondo i bisogni del caso, sarà il trend dominante, seppur improntato ad includere anche altri soggetti non statuali che oggi sono parte integrante della governance globali, quali organizzazioni e reti, o entità non governative.

La sottotraccia di queste elaborazioni continua a proporre una discussione sulla trasformazione dello stato e dello stato nazione post-Westfaliano, non più soggetto esclusivo della governance e non più detentore del monopolio sulla sovranità.

Da una parte stretto tra le spinte etnonazionaliste che lo trasformano al suo interno e nelle sue frontiere, dall’altro caratterizzato da spinte di cessione di sovranità verso l’alto, nei confronti di organismi quali le istituzioni finanziarie e/o gli organismi multilaterali e dalla sottrazione di sovranità operata da altri soggetti nonstatuali.

Uno stato che oggi vuole recuperare il controllo sulla finanza e l’economia non certo per la promozione del bene comune ma per tutelare gli interessi di elite finanziarie che grazie proprio all’intervento statale continuano a giovarsi delle loro prerogative. E che parallelamente assume una proiezione esterna improntata su forme di politica di potenza muscolare.

E’ il caso in Russia che con Gazprom produce una commistione tra potere economico, politico e strategico e nascita delle nuove oligarchie, come degli Usa con il salvataggio di Fannie Mae, Freddie Mac, e con i pacchetti di bailout del debito di altri enti finanziari

Su questo la sinistra dovrà porsi una domanda forte per cercare di capire cosa rimane dello stato dopo la sbornia liberista, cosa salvare e cosa ricostruire,

Dando per scontato che oggi ogni prospettiva politica concreta dovrà far perno sul rapporto locale-globale, non sarà possibile parlare di politica estera senza avere chiari quali siano i processi di trasformazione dello stato nazione al suo interno ed al suo esterno. In una parola avere chiara la prospettiva di una riconfigurazione della sfera pubblica, del “national policy space”.

Per concludere il confronto a sinistra sui nuovi fondamenti della politica estera dovrà svolgersi lungo una serie di interrogativi.

Il primo: quando si parla di riforma della governance globale, in senso democratico e multipolare, c’è chiarezza sul se questa si dovrà continuare a basare su assunti geopolitici e geostrategici che non escludono anzi presuppongono una politica di potenza che prevede anche l’uso della forza armata? Per dirla ancora più crudamente a sinistra si è tutti d’accordo che la forza mite dell’Europa che vorremmo non deve misurarsi in chiave antiamericana con un esercito europeo ed una conseguente corsa agli armamenti? Ma anzi perseguire il disarmo come strategia di costruzione di relazioni giuste ed eque tra gli stati?

La seconda: quando si parla di pace e costruzione di relazioni eque tra popoli, si ha ben chiaro quali siano oggi le vere sfide? E che la necessità di uscire dalla trappola dei combustibili fossili , riconoscendo il debito ecologico nei confronti del mondo di maggioranza serve non solo a ridurre le emissioni di gas serra ma anche a prevenire conflitti possibili su risorse scarse o per lo meno evitare che tale scarsità diventi stumento di politica di potenza? Per dirla crudamente: a sinistra sono tutti convinti dell’urgenza di superare il mito dello sviluppo, e della liberazione della classe operaia attraverso la crescita dei consumi e del potere d’acquisto delle merci?

La terza: quando si parla di diritti umani, e di promozione e rispetto degli stessi, e della protezione degli esseri umani, si riesce a fare un passo in avanti, uscendo dalla trappola ideologica che vede questa come estensione di una politica “imperiale” e piuttosto provi a studiare a fondo i limiti ed i rischi di forme di ingerenza umanitaria?
Ovvero, si retiene urgente iniziare a produrre una chiave di lettura e delle risposte alternative alla deriva securitaria su scala globale, e pratiche di promozione dei diritti che siano fondate sulla diplomazia popolare, la nonviolenza, e la solidarietà e giustizia ecologica ed economica?

La quarta: quando si parla di società cosmopolita, di superamento dell’etnonazionalismo, di integrazione multirazziale, di rispetto delle diversità, si ha ben chiaro che come dice Saskia Sassen, oggi il limite delle politiche degli stati è quello di pensare che la società multiculturale vada costruita e che invece l’unica cosa possibile è di governarla? E che magari applicando un approccio autenticamente cosmopolita, anche una soluzione ormai accettata da tutti al conflitto israelo-palestinese, ovvero quella di due stati e due popoli, andrebbe messa da parte per perseguire con forza l’opzione di uno stato per due popoli?

giovedì 11 settembre 2008

Giustizia climatica, equità, debito ecologico: proposte per un approccio al tema dei mutamenti climatici fondato sui diritti fondamentali

Di Francesco Martone

Settembre 2008




Secondo l’Organizzazione Mondiale Della Sanità delle Nazioni Unite ogni anno 150mila persone muoiono per malattie collegate al cambio climatico, per la maggior parte in Africa Subsahariana. Milioni rischiano di essere gli sfollati ambientali che andranno a gravare su risorse già scarse, quali acqua e terra, e produrranno tensioni e conflitti che rischiano di destabilizzare intere regioni. I dati forniti dall’IPCC sono raggelanti: i rifugiati ambientali potrebbero essere 150 milioni entro il 2050. Allo stesso tempo gli effetti dei mutamenti climatici sulla produzione di cibo e sulle economie rurali operano come concausa della più grave crisi alimentare degli ultimi decenni, ulteriormente aggravata da processi di speculazione e dalla crescita esponenziale dalla produzione di biocarburanti.

L’inazione della comunità internazionale nell’affrontare in maniera decisa la questione del cambio climatico si ripercuote quindi a vari livelli su una serie di diritti fondamentali dell’umanità, quali il diritto al cibo, all’acqua, all’aria, allo sviluppo, alla pace.

E’ stato calcolato che l’impatto dell’effetto serra in Africa Subsahariana sarà tale da vanificare i seppur limitati contributi finanziari della cooperazione internazionale per permettere il perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio.

Mai come ora, quindi, il tema dei mutamenti climatici e della necessaria svolta verso un modello energetico fondato sulle energie rinnovabili e sulla sovranità energetica assume i connotati di una sfida non solo ambientale, economica e scientifica, ma anche di un’emergenza per la sicurezza globale.

Chi oggi tratta il tema della prevenzione dei conflitti , dei nuovi conflitti, come ad esempio l’Oxford Research Group, con il suo programma “Sustainable Security”, si trova a riconoscere che i mutamenti climatici rappresentano oggi una constante nell’elaborazione delle dottrine di sicurezza e prevenzione. In una certa misura anche il Pentagono se ne accorse a suo tempo, quando pubblicò alcuni anni or sono un dossier sugli effetti del cambio climatico.

Ciononostante, i rischi della “securitizzazione” della discussione sono stati affrontati finora in maniera superficiale nel nostro paese con il rischio di privilegiare un’approccio geostrategico e geopolitico ad un’emergenza che riguarda essenzialmente questioni di equità e giustizia ecologica.

A ciò va aggiunto che la discussione sui conflitti sulle risorse e sulla prevenzione degli stessi non ha in ancora assunto un livello di consapevolezza del legame intrinseco tra pace e giustizia ecologica.

Un caso tra tutti è quello del conflitto in Darfur, il primo - secondo l’ONU - causato dai mutamenti climatici. La discussione “politica” e di buona parte della società civile infatti si è incentrata sul tema del genocidio, senza andare a fondo e provare a comprendere come il caso Darfur rappresenti un modello paradigmatico del circolo vizioso alimentato dalla dipendenza da combustibili fossili: in una parola del debito ecologico.

Il tema della sicurezza energetica, delle ricadute degli effetti dei mutamenti climatici in aree già colpite da confitti, e degli effetti destabilizzanti provocati dall’estrazione del petrolio e del carbone non può pertanto essere relegato a tema esclusivamente pertinente alla sicurezza.

Le reazioni dei Paesi in via di sviluppo alla decisione del governo inglese di mettere il tema dei mutamenti climatici al centro di una discussione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dimostrano come - senza un approccio basato sull’equità e la giustizia - anche le trattative del post-Kyoto rischiano di rimanere lettera morta.

I G77 in buona sostanza rimproveravano ai Paesi più ricchi che detengono il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza di voler porre in quell’ambito la discussione su un’emergenza alla quale gli stessi hanno contribuito e contribuiscono in maniera sostanziale.

Oltre a permettere la rielaborazione del concetto e delle pratiche della sicurezza, (o meglio della costruzione della pace), la questione dei mutamenti climatici potrebbe rappresentare l’occasione per aprire la strada a modelli di governance , ovvero di rapporti tra stati, fondati sulla reciprocità e l’equità.

Lungi dall’essere tema esclusivamente ambientale la questione del cambiamenti climatici riguarda infatti relazioni di potere, ed in ultima istanza comporta la decisione di praticare una netta inversione di rotta nel modello economico e productivo dominante.

Wolfgang Sachs definisce giustamente la questione dei mutamenti climatici come relativa ai diritti umani fondamentali di tutta l’umanità. Una questione di giustizia intergenerazionale ed intragenerazionale, e quindi di equità, da declinare in due aspetti: il primo relativo al principio dell’equa distribuzione degli oneri e dei benefici dell’uso di combustibili fossili tra le nazioni, il secondo relativo invece alla protezione universale della dignità umana.

E’ proprio sulla base di queste proposte ed elaborazioni che sarebbe opportuno iniziare a discutere di come andare oltre il Protocollo di Kyoto, sulla base di un approccio di giustizia globale, e della consapevolezza che i mutamenti climatici anzitutto danneggiano irreparabilmente la maggioranza “povera” del Pianeta, il cosiddetto Sud Globale.

Il tema è di grande rilevanza politica, visto che nei prossimi mesi, attraverso il vertice del G8 della Maddalena, la comunità internazionale dovrà produrre un piano concreto e plausibile per gestire i propri impegni da approvare alla Conferenza delle Parti che si terrà poi a Copenhagen in vista della scadenza del protocollo di Kyoto.

Dando quindi per assunto il punto di partenza secondo il quale la crisi climatica è anzitutto effetto della negazione di diritti fondamentali, la prima domanda da porsi sarà quella di “Chi deve a chi”.

Come sottolinea l’ONG inglese Christian Aid, i Paesi poveri maggiormente indebitati, a causa del loro basso utilizzo di combustibil fossili o di un uso efficiente degli stessi sarebbero infatti in credito in termini climatici, di oltre tre volte la loro esposizione debitoria “ufficiale” verso i Paesi più ricchi: 612 miliardi di dollari contro 200 di debito finanziario.

Un approccio responsabile ed equo ai mutamenti climatici prevede pertanto il riconoscimento e la restituzione del debito ecologico verso la grande maggioranza della popolazione del Pianeta. Allo stesso tempo riconosce che i meccanismi di mercato, ovvero di flessibilità e di joint implementation quali quelli previsti dal Protocollo di Kyoto rischiano di perpetuare una situazione di grande ingiustizia globale.

Aprire una discussione su questi argomenti non è cosa facile, e non solo per la assoluta mancanza di interesse da parte di ampi settori dell’industria e lobby politico-scientifiche connesse.

Ogni qual volta si tenta di criticare in termini di equità strumenti quali il Clean Development Mechanism o il meccanismo della Joint Implementation o del Carbon Trading si rischia di aprire una discussione sulla necessità di tenere in piedi Kyoto, o meglio il suo approccio fondante, in quanto unica modalità di approccio multilaterale.

Del resto i rischi derivanti dall’attacco al protocollo di Kyoto da parte di gran parte dell’industria, di parte della scienza, e del governo degli Stati Uniti chiudono gli spazi ad un’elaborazione alternativa. E ciò vale almeno nel nostro paese. La situazione certamente non viene agevolata dal governo di centrodestra, che si è già affrettato a risolvere la questione attraverso il rilancio dell’energia nucleare. O dai ripetuti tentativi dell’Amministazione statunitense di legittimare processi negoziali solo in parte ispirati al multilateralismo, da modulare secondo i propri interessi.

Il problema aperto è quindi quello di innestarsi nel dibattito sul post-Kyoto, da una parte per evitare un allontanamento dall’approccio multilaterale, e dall’altro il ritorno a fonti energetiche dette rinnovabili, come il nucleare, producendo proposte ed analisi fondate sulla giustizia e l’equità.

Già nel 2004 movimenti sociali ed associazioni ambientaliste di tutto il mondo, riuniti a Durban lanciarono l’appello “Giustizia Climatica Ora!” nel quale si dichiara che il commercio di carbonio non contribuirà a proteggere il clima globale.

Come si legge nell’appello: “E’ una soluzione falsa che riafferma e rafforza le diseguaglianze sociali in varia forma. Da una parte si scaricano i costi delle riduzioni future di emissioni da combustibili fossili sul settore pubblico, le comunità ed i popoli indigeni. Dall’altra i progetti di commercio di carbonio del settore privato, e quelli previsiti dal Clean Development Mechanism (CDM), incentivano in sostanza i paesi industrializzati e le loro imprese a sostenere o finanziare pozzi di carbonio a basso costo, quail le piantagioni monocolturali di alberi a crescita rapida e su larga scala”.

Inoltre, il CDM e programmi simili permettono che si continui a esplorare, sfruttare e bruciare le riserve fossili del pianeta da parte delle grandi transnazionali. Altro effetto perverso è la privatizzazione di acqua e terra, fonti di sostentamento delle comunità locali e contadine, attraverso le piantagioni industriali di alberi a crescita rapida per produrre pozzi di carbonio.

A ciò va aggiunto un ulteriore elemento relativo al ruolo della Banca mondiale nel contribuire a delineare il percorso del post-Kyoto.

Già nel vertice del G8 d Gleneagles del 2006 la Banca mondiale è stata investita della leadership nel "creare un nuovo quadro di riferimento per le energie pulite e lo sviluppo, incluse le questioni di investimenti e finanziamenti" .

Forte del sostegno dei suoi maggiori azionisti, i G8 per l’appunto, la Banca ha tentato di operare come mediatore globale sui mutamenti climatici, provando a smussare le divergenze tra paesi sviluppati ed emergenti, inclusi Cina ed India.

La Banca si sta quindi affermando come il principale attore nel dopo-Kyoto sulla base di un approccio che vede le risorse naturali come infinite, le politiche ambientali sottoposte agli imperativi di mercato, riconoscendo la centralità degli interessi delle imprese su quelli dei cittadini. Non è un caso che la maggior parte dei prestiti della Banca nel settore energetico vadano a imprese come Halliburton ed affini, comunque ad imprese transnazionali dei paesi del G7.

Vale la pena di sottolineare come dal 1992, anno nel quale venne firmata la Convenzione Quadro ONU sui Mutamenti Climatici (UNFCC) la Banca mondiale ha fornito oltre 25 miliardi di dollari in finanziamenti per energia fossile . L'80 percento di tutti i progettti petroliferi finanziati dalla BM erano per la produzione di petrolio per i paesi industrializzati. Per contro, il sostegno della Banca Mondiale alle rinnovabili rappresenta solo il 6 percento del totale dei prestiti nel settore energetico.

Per dare un’idea delle proporzioni, il petrolio prodotto e trasportato dalla sola pipeline Chad-Cameroon finanziata dalla Banca con un totale di 551 milioni di dollari nel 2000, causerebbe. nel corso di vita del progetto, l’emissione di 446 milioni di tonnellate di CO2 - pari a tre volte il totale delle riduzioni di emissioni di tutti I progetti del PCF.

Negli ultimi anni la risposta della Banca mondiale ai mutamenti climatici è stata del tutto inadeguata. Le Strategie di Assistenza per Paese non hanno affrontato la questione dei mutamenti climatici ed oltre l'80% dei prestiti nel settore energetico per il periodo 2000-2004 non hanno considerato i mutamenti climatici nelle procedure di valutazione preventiva dei progetti.

La determinazione con la quale la Banca intende continuare a sostenere l’estrazione di combustibili fossili è emersa chiaramente nella decisione di recepire solo in parte le raccomandazioni di un gruppo di valutazione indipendente da essa stessa convocato per studiare i progetti estrattivi da essa sostenuti.

Le raccomandazioni finali dell Extractive Industries Review rese nel 2003 avrebbero impegnato la Banca ad un graduale ma rapida uscita dal carbone, ad un sostegno alle comunità impattate attraverso fondi di transizione, ad una graduale ma decisa fuoriuscita dal settore petrolifero, e ad un’inversione del rapporto tra prestiti per combustibili fossili ed energie rinnovabili, efficienza energetica e risparmio energetico. Proposte queste puntualmente accantonate dalla Banca mondiale. Ciononostante, la UNCCC (Convenzione ONU sui Mutamenti Climatici) ed il protocollo di Kyoto prevedono un ruolo importante per la Banca mondiale nel finanziamento dei trasferimenti di tecnologie per mitigare le emissioni di gas-serra.

La Banca Mondiale svolge inoltre un ruolo di primo piano nel Clean Development Mechanism (CDM) coordinando la partecipazione di altre banche multilaterali di sviluppo nel CDM, struttura che assiste i paesi industrializzati nel compimento degli impegni previsti dal Protocollo di Kyoto ed i paesi in via di sviluppo per perseguire lo sviluppo sostenibile. Alla stessa maniera svolge un ruolo di primo piano nel Prototype Carbon Fund.

Un rapporto di SEEN (Sustainable Energy and Environment Network) rivela che la Banca vorrebbe operare come broker di sé stessa, guadagnando dall'8 al 10% per ogni transazione tra le parti per scambi di quote di emissione previsti dal Prototype Carbon Fund ed il Clean Development Mechanism. Applicare l’approccio di mercato è un buon affare per la Banca e non solo. Permette alle stesse imprese multinazionali che producono gas serra e utilizzando petrolio e altri combustibili fossili di commerciare in permessi di emissione. Non a caso, le imprese che investono nel Prototype Carbon Fund (tra cui Mitsui, BP, Mitsubishi, Gaz de France) hanno ricevuto nella decade 1992-2002 oltre 3,8 miliardi di dollari in finanziamenti per progetti dii sfruttamento ed uso di combustibili fossili mentre hanno versato nel PCF un totale di 46 milioni di dollari per lo s tesso periodo.

Questi dati forniscono un’ulteriore conferma del fatto che i meccansimi di flessibilità non sono che una soluzione tampone, che rinvia la decisione di praticare una netta inversione di tendenza ed un mutamento del paradigma di sviluppo verso una fuoriuscita dal ciclo dei combustibili fossili.

La dichiarazione di Durban conclude affermando che è probabile che “le contraddizioni e le debolezze intrinseche dei programmi di commercio di carbonio piuttosto che mitigare l’effeto sera finirebbero per peggiorarlo. E’ infatti difficile verificare che i progetti CDM neutralizzino una certa quantità di combustibili fossili estratta e bruciata.

In generale, l’applicazione di un approccio di mercato al tema dei mutamenti climatici rischia di produrre un nuovo processo di privatizzazione di un bene comune quale l’atmosfera. Insomma quello che Larry Lohmann, esperto del centro di ricerca inglese The Cornerhouse definisce un “nuovo movimento delle enclosure” al quale andrà contrapposto un principio forte ed irrinunciabile quello dell riconoscimento dell’atmosfera come bene comune o “global atmospheric commons”. Un bene comune minacciato proprio dall’approccio di mercato, che trasforma la capacità della Terra di riciclare carbonio in oggetto di scambio sul mercato dei permessi di emissione.

Nel suo “Ecological Debt, the health of the Planet and the Wealth of Nations” (2005), Andrew Simms della New Economic Foundation, afferma che molti sono i modelli proposti per un approccio equo e multilaterale al tema dei mutamenti climatici, che possono andare oltre il protocollo di Kyoto. Solo l’approccio “contraction and convergence” però unisce in sé l’integrità ambientale, essendo fissato entro soglie di emissione precise - e la fattibilità politica, giacché offrirebbe alla maggioranza dei paesi del Pianeta opportunità fondate sul principio dell’equità.

Anzitutto, e come accennato in precedenza, si dovrà riconoscere che i paesi industrializzati hanno già sovrautilizzato le loro quote di emissione, generando un debito di carbonio superiore al debito economico dei paesi poveri maggiormente indebitati, e che quindi l’enfasi andrà posta sulla giustizia ed i diritti ecologici a livello globale.

Il secondo principio riguarda l’equo diritto di ognuno ad utilizzare l’atmosfera. Molti sono i modelli proposti negli ultimi anni. Uno tra tutti si fonda sul principio del “contraction and convergence”.

L’idea è quella di seguire un processo a due fasi. Nella prima la comunità internazionale negozierebbe un tetto per le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera.

Si fisserà un bilancio globale di emissioni (“global emission budget”) per definire i livelli di “contrazione”. Il secondo passaggio sarà quello di decidere come redistribuire i diritti all’uso equo dell’atmosfera tra i paesi. Ciò verrà fatto secondo un calcolo delle quote pro-capite entro un dato periodo di tempo ed in proporzione alla popolazione di ogni paese.

I due punti sui quali si dovrebbe trovare l’accordo saranno pertanto il “target” di concentrazioni di CO2 nell’atmosfera, e la data entro la quale i diritti d’uso convergeranno su un valore equo procapite.

Da quando venne messo a punto il modello di “contraction and convergente” sono seguite nuove ulteriori elaborazioni e messe a punto, che comunque si basano sull’obiettivo di restituire equità in un dibattito caraterizzato dalla forte polarizzazione tra vari governi.

Le proposte quindi non mancano. Pertanto l’ effettiva volontà politica di riformulare i termini del dibattito sul cambiamento climatici verso principi di giustizia ambientale ed equità globale potrà essere verificata solo dalla determinazione ad abbandonare le suggestioni relative all’introduzione di innovazioni tecnologiche come unica via d’uscita per rendere il nostro modello di sviluppo compatibile con gli imperativi ecologici.

La modernizzazione ecologica non basta per invertire effettivamente la rotta: sarà piuttosto opportuno praticare un approccio che metta al centro la giustizia, e riconosca che l’aria, come l’acqua, la terra, i saperi, va considerate come bene comune.

Come ebbe a dire Ivan Ilich nel suo “Energia e Eguaglianza” scritto nel 1974: “Una politica a basso consumo di energia permette un’ampia scelta di culture e stili di vita . Se invece una società sceglie un alto consumo di energia le sue relazioni sociali saranno dettate dalla tecnocrazia e saranno egualmente sgradevoli, sia essa etichettata come capitalista o socialista. “


per saperne di più:

Diritti umani e mutamenti climatici: Wolfgang Sachs
, Wuppertal Institute
Giustizia Climatica ed equità: Larry Lohmann, The CornerHouse
Clima e sicurezza globale, Oxford Research Group
altri siti rilevanti
Ecosocialismo e clima: Patrick Bond