mercoledì 31 marzo 2010

Un clima di guerra globale permanente. Quali ipotesi di lavoro sul nesso tra confitti e risorse naturali?

articolo scritto per Mosaico di Pace
Marzo 2010



Nel 2004 fece scalpore la pubblicazione da parte del Pentagono di un rapporto sui mutamenti climatici. Si pensò che se anche il Pentagono decideva di prender posizione allora la situazione era davvero seria, ma non si cercò di comprendere cosa ci fosse dietro quella novità, né di svolgere un’analisi compiuta del nesso esistente tra modelli di sicurezza e tematiche ambientali e della sostenibilità . Nel 2007, il Regno Unito promosse un inedito dibattito sul clima nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, duramente criticato dai paesi in via di sviluppo che non accettavano l’idea di una discussione di tale importanza in un consesso dove la maggior parte dei paesi “inquinatori” tuttora detengono il potere di veto. Da allora il tema è diventato oggetto di nuove elaborazioni e proposte che hanno contribuito a costruire un approccio che oggi si definisce “environmental” o “sustainable security”, e che marca l’entrata in campo dell’apparato militare e dei centri di studi strategici in questioni relative all’urgenza di un mutamento di paradigma di sviluppo.
Si calcola che almeno 1/5 delle guerre nel pianeta abbiano a che fare con le risorse naturali e con l'ambiente. Secondo il rapporto “Sustainable Security for the XXI Century” dell'Oxford Research Group, i mutamenti climatici sono, assieme alla competizione su risorse naturali e strategiche scarse, una delle cause di futuri confitti, insieme alla corsa agli armamenti nucleari e la marginalità sociale causata dalle politiche neoliberiste. Anche il percorso di elaborazione verso la conferenza sul clima di Copenhagen ha visto delle partecipazioni inedite, con generali in pensione, scienziati ed analisti, riuniti nel Military Advisory Council, che si sono interrogati sul possibile impatto del clima sulle nuove guerre dal punto di vista strategico e di riconfigurazione delle dottrine di sicurezza. Si calcola che i mutamenti climatici potrebbero causate conflitti violenti in almeno 46 paesi , impattando su una popolazione di 2,7 miliardi di persone. A fronte del fallimento della Conferenza di Copenhagen, il quadro relativo quadro alle prospettive ecologiche globali continua ad essere allarmante. Il dramma dei rifugiati ambientali rischia di raggiungere dimensioni catastrofiche, non solo nei paesi insulari (si pensi solo a Tuvalu, Comore, Maldive, ed altri stati minacciati nella loro stessa esistenza, ma anche in zone caratterizzate dalla scarsità di risorse essenziali quali terra, acqua e cibo, esacerando conflitti latenti o causandone di nuovi. A fronte di questo enorme debito ecologico già accumulato risalta la quasi inesistente volontà politica dei paesi del Nord globale di sganciare il loro modello produttivo ed economico dai combustibili fossili, o da soluzioni rischiose quali gli agrocombustibili. In questo quadro risulterà ineludibile affrontare il tema del clima e dell'energia dal punto di vista dell'equità e della sicurezza, elaborando un approccio che possa contrapporsi e disinnescare quello che intende la sicurezza attraverso la lente del controllo militare delle fonti di approvvigionamento scarse o a rischio. Questa è la filosofia di fondo perseguita dalla NATO che riprendendo una delle "mission" approvate in seguito alla revisione del suo concetto strategico fatta a Washington nel 1999, ipotizza addirittura l'uso delle sue forze di intervento rapido per assicurare la continuità dell 'approvvigionamento energetico. Armi e soldati verrebbero inviati a vigilare sulle rotte di petroliere, o per proteggere gasdotti o oleodotti. E non è un caso che l’ex-presidente esecutivo della Shell sia oggi - assieme a Madeleine Albright - a capo del gruppo di lavoro attualmente incaricato dell’ulteriore revisione del concetto strategico della NATO. Come non è un caso che un altro ex - presidente della Shell e poi consulente della CIA era tra gli autori del rapporto del Pentagono del 2004. Le guerre per il petrolio hanno un altro lato oscuro, quello derivante dagli effetti devastanti delle operazioni di estrazione di petrolio o altri combustibili fossili che acuiscono conflitti già latenti in aree socialmente fragili quali il Delta del Niger, o in Darfur. Quest’ultimo, che la vulgata interventista vorrebbe poter definire un genocidio, è stato invece definito dalle Nazioni Unite il primo conflitto causato dai mutamenti climatici e ciò a conferma della complessità del problema e dell’inutilità di ricorrere a definizioni che rischiano di aprire la strada a false soluzioni. La vera causa del conflitto in Darfur è la competizione su risorse scarse, (terra ed acqua) tra popolazioni nomadi e stanziali, messe a dura prova dalla desertificazione causata dai mutamenti climatici. Il paradosso è che quelle popolazioni risentono doppiamente della dipendenza dai combustibili fossili che caratterizza il modello di sviluppo dominante. Da una parte soffrono una guerra causata dalle rivendicazioni delle zone di periferia ad un equo accesso alle royalties derivanti dal petrolio estratto da imprese multinazionali, e dalle ricadute socio-ambientali dell'estrazione del petrolio, e della sua combustione attraverso i mutamenti climatici. Esiste quindi un grande paradosso, che si ripete altrove in Africa, laddove le mire di controllo strategico di imprese transnazionali si intrecciano con quelle delle élite di governo, con l’iniquità nella redistribuzione dei profitti derivanti dall’estrazione del petrolio, e con l’impatto socio-ambientale della stessa. A ciò si aggiunga che pur essendo grande produttore ed esportatore di petrolio, il Sudan vive una grave penuria energetica che verrebbe in parte soddisfatta dal rilancio dell’energia idroelettrica. Questa eventualità introduce nuovo elemento di criticità rappresentato dai movimenti popolari di resistenza generati dallo scontento causato dalla costruzione di due dighe a Nord, percepite dalle popolazioni locali come una minaccia alle loro culture tradizionali. La geopolitica dell’acqua è altro tema chiave nell’analisi del nesso tra risorse naturali e conflitti. Basti ricordare al caso della Palestina, o l’uso strategico delle grandi dighe fatto dal governo Turco per colonizzare e controllare il Kurdistan, con l’esempio evidente della diga di Ilisu. L’elemento interessante in questo contesto riguarda la possibilità che attraverso accordi di uso collettivo e transfrontaliero delle acque si possano costruire progetti di pace e riconciliazione trai popoli. Già nel 2005 il Worldwatch Institute riportava i dati di una ricerca svolta dall'Università dell'Oregon che sfaterebbero in buona parte il mito delle "guerre per l'acqua". Gli ultimi 50 anni avrebbero infatti visto solo 37 conflitti per l'acqua con ricorso alla forza, 30 dei quali tra Israele ed uno dei paesi confinanti. 507 sono stati i casi di confitti politico-diplomatici tra paesi per il controllo o la gestione delle acque, mentre ben 1228 sono gli eventi che hanno portato alla conclusione di accordi di cooperazione. Pertanto piuttosto che essere fattore di guerra o per lo meno concausa nell’aggravarsi di condizioni che poi sfociano in conflitti, l'acqua può essere strumento per la costruzione della pace. Non è però solo nel serbatoio della nostra automobile che si materializza un anello della catena che lega i nostri modelli di sviluppo alla distruzione dell'ambiente ed alla competizione su risorse naturali scarse,ambientale e di attuali o possibili conflitti armati, Anche dentro i circuiti di un cellulare, ad esempio, si nasconde l'ultimo anello di un'economia di guerra, alimentata dall'estrazione illegale di coltan, minerale strategico presente in Congo venduto per acquistare armi con le quali combattere le guerre che insanguinano l'Africa. Sono guerre alimentate dall'estrazione illegale di risorse (che non necessitano, come nel caso del petrolio, di grandi infrastrutture) e dal circolo vizioso che le lega a al commercio illegale di armi, alle attività di signori della guerra e milizie mercenarie.
Acqua, petrolio, mutamenti climatici, competizione su risorse scarse sono gli elementi chiave che permettono di costruire un approccio che metta al centro di ogni soluzione i diritti ambientali e la giustizia ecologica accanto a quella della diplomazia popolare e dal basso, al fine di trasformare anche la cooperazione internazionale in strumento di costruzione attiva della pace. La necessaria rielaborazione del concetto di sicurezza e di prevenzione politica e non-violenta dei conflitti dovrà però proporre strumenti che permettano ad ognuno ed ognuna di comprendere come attraverso i propri stili di vita si contribuisce in negativo o in positivo alla costruzione della pace. In negativo anzitutto, giacché il nostro zaino ecologico, o meglio la nostra impronta ecologica calpesta diritti di altri popoli, toglie loro un po' di acqua, di terra, di legname, di minerali, e si ripercuote doppiamente sulle loro vite. Prima sottraendo risorse e poi restituendole come scarti materiali, liquidi o gassosi, togliendo loro altro cibo, acqua e terra. Le cifre ci parlano quindi di possibili nuove guerre, quelle dei poveri, non solo quelle della NATO, ma quelle dei milioni di diseredati che perderanno le fonti della loro già difficile sussistenza. Saranno guerre sotterranee e nascoste, quelle che non andranno sui primi titoli dei media o non saranno all'attenzione dei movimenti giacché non entreranno facilmente nel lessico antimperialista o post-coloniale, o della solidarietà internazionale. La questione ambientale diventa così paradigmatica della nuova politica cosmopolita. A condizione però che includa un nuovo elemento, quello dell’equità transnazionale ed intergenerazionale. In altre parole della giustizia ecologica. Come specifica in uno dei suoi rapporti il Wuppertal Institute ("Per un futuro equo, conflitti sulle risorse e giustizia globale" a cura di Wolfgang Sachs) "la prima giustizia ecologica riguarda la biosfera, la seconda, intergenerazionale focalizza l’attenzione sul rapporto tra chi vive adesso e le generazioni future. Estende il principio dell’equità sull’asse temporale. Ciononostante, questi concetti mostrano una lacuna, non prendono in considerazione le istituzioni create dagli uomini e le loro interrelazioni. E’ quindi urgente mettere in discussione il modello di benessere della modernità industriale". Una sfida ulteriore per il movimento pacifista, che attraverso questa chiave di analisi può costruire alleanze forti con i movimenti che si occupano di giustizia climatica ed ambientale per elaborare un modello di prevenzione nonviolenta dei conflitti e di “rappacificazione” con il pianeta e con chi lo abita.

mercoledì 24 marzo 2010

La mia dichiarazione di sostegno a Sinistra, Ecologia e Libertà

http://www.youtube.com/watch?v=jLwNMMQvDHA

da Copenhagen a Cancun, lo stretto cammino della giustizia climatica

Dal 9 all’11 aprile prossimo si riuniranno a Bonn i gruppi di lavoro ufficiali che dovranno riprendere le fila del negoziato sui mutamenti climatici, dopo la debacle di Copenhagen. Un compito complesso, che richiederà una forte presa di coscienza dell’urgenza della situazione. Ciononostante, le premesse non sembrano autorizzare un grande ottimismo. Già di recente nella comunicazione sul tema dei negoziati climatici, la Commissione Europea ha dato ad intendere che non si prevede un risultato definitivo nella riunione della Conferenza delle Parti che si terrà a Novembre a Cancún in Messico e che un accordo vincolante sulla riduzione delle emissioni sarà possibile solo in occasione della COP17 che si terrà nel 2011 in Sudafrica.
Che anche nelle Nazioni Unite l’aria sia pesante lo dimostra un recente scontro a distanza tra il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon e l’inviata speciale dell’ONU sul clima , l’ex primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland che aveva ipotizzato la necessità di procedere per negoziati separati rispetto alle Nazioni Unite. Per meglio comprendere la posta in gioco nei prossimi mesi vale la pena di ripercorrere le tappe che hanno portato al flop di Copenhagen. Che la COP15 non potesse sortire un risultato di rilievo era ben chiaro a tutti coloro che nel corso del 2009 avevano avuto occasione di seguire i negoziati e le trattative. Già a giugno la decisione del segretario della Convenzione Quadro sui Mutamenti Climatici (UNFCCC) Yvo de Boer, ora dimissionario, di aggiungere alla già densa agenda di appuntamenti altre due date lasciava presupporre che le posizioni dei paesi fossero molto distanti e che difficilmente si sarebbe potuto giungere ad un accordo legalmente vincolante sulle riduzioni delle emissioni di gas serra. Insomma la partita già di per sé complessa era avviata a concludersi in maniera deludente. Per meglio comprenderne la portata è opportuno riassumere quali erano e sono tuttora i temi più controversi. Il primo riguarda il protocollo di Kyoto sulle riduzione delle emissioni di gas serra, e del seguito da dare agli impegni presi dai paesi firmatari dal 2012 in poi. Impegni in buona parte disattesi dai paesi industrializzati e sui quali paesi in via di sviluppo chiamavano ad una presa di responsabilità chiara, ricordando il debito storico che il ricco Nord del mondo ha accumulato verso il Sud. Oggetto principale del contendere era e sarà l'impegno a contenere le emissioni future ad un livello tale da limitare l'aumento della temperatura. Le cifre in questo caso sono cruciali: la differenza di mezzo grado (da 2 a 1,5 gradi) potrebbe significare la scomparsa di intere nazioni, quali quelle insulari del Pacifico. Il secondo blocco di negoziato riguarda le iniziative da intraprendere nell'ambito di un nuovo accordo vincolante sul clima. I negoziati si sono sviluppati attorno alla cosiddetta “visione comune” ovvero i valori ed i principi fondanti dell'azione della comunità internazionale per affrontare l'emergenza climatica e sostenere modelli economici e produttivi a basso contenuto di carbonio nonché i programmi di adattamento, mitigazione e trasferimento di tecnologie pulite. Principale oggetto del contendere è l'ammontare delle risorse finanziarie, con i paesi in via di sviluppo che chiedono almeno 100 miliardi di dollari l'anno da destinare a programmi di adattamento e mitigazione dei mutamenti climatici, e l'assicurazione di accesso a tecnologie pulite.. Senza un impegno chiaro di riduzione delle emissioni dei paesi ricchi ed un impegno altrettanto chiaro in termini di risorse finanziarie, ogni accordo sarebbe risultato quindi inaccettabile da parte dei paesi in via di sviluppo. A metà del 2009 era evidente che la ritrosia degli Stati Uniti di accettare impegni vincolanti per ridurre le emissioni di gas serra, l'irrigidimento dei paesi in via di sviluppo nel sostenere la rilevanza e la centralità del protocollo di Kyoto, piuttosto che un suo progressivo indebolimento mirato a soddisfare le richieste di Washington, e l' assoluta assenza dell'Unione Europea avrebbero creato le premesse per un esito di basso profilo a Copenhagen. L’ “Accordo di Copenhagen” venne concluso senza il consenso di tutti i governi, e quindi senza essere ratificato come risultato ufficiale della Conferenza. Tra l’altro il documento non contiene impegni vincolanti per la riduzione delle emissioni, ma solo una serie di impegni volontari da verificare in corso d’opera, né proposte chiare sul come reperire le risorse finanziarie necessarie per le politiche climatiche senza ricorrere ai mercati finanziari o “riciclare” i già scarsi fondi per la lotta alla povertà. Per provare a trovare una soluzione al problema delle risorse finanziarie, nel marzo di quest’anno Ban Ki Moon ha istituito un gruppo di lavoro ad hoc con a capo il primo ministro inglese Gordon Brown ed il presidente etiope Meles Zenawi. A prescindere dal contenuti già deludenti del negoziato alla COP15 , il rischio attuale è che la sede delle Nazioni Unite venga gradualmente abbandonata per negoziati paralleli, un rischio reso ancor più evidente dalla polemica tra Ban Ki Moon e la Brundtland. Non a caso subito dopo Copenhagen si sono susseguite le polemiche sull'eccessiva complessità delle regole delle Nazioni Unite che striderebbero con l'urgenza di prendere misure immediate per salvare il Pianeta. Alla luce della scarsa volontà politica della grande maggioranza dei paesi sviluppati di restituire il proprio debito ecologico accumulato nei confronti del resto dell'umanità tali argomentazioni appaiono del tutto pretestuose. Ciononostante gli Stati Uniti hanno ribadito la loro intenzione di considerare l'Accordo di Copenhagen come l'unica base sulla quale continuare il negoziato, suscitando la ferma protesta dei paesi in via di sviluppo. La strada verso la conferenza che si terrà a Cancun, Messico a fine novembre è quindi tutta in salita. Tra le varie ipotesi in campo quella di procedere per parti separate e giungere ad un accordo su temi meno critici per poi concentrarsi su quelli più complessi quali appunto quello relativo alle riduzioni delle emissioni di gas serra. Per questo parallelamente al negoziato ufficiale si stanno svolgendo altri incontri informali, da quello tenutosi in Messico a metà marzo a quello programmato a Maggio dalla Cancelliera Angela Merkel. Per suo conto il governo boliviano ha convocato una conferenza dei popoli sui diritti della madre terra e la giustizia climatica che si terrà a Cochabamba dal 19 al 2 aprile prossimi al fine di contribuire a rilanciare l’iniziativa globale dei movimenti sociali sui temi della giustizia climatica. Nelle intenzioni dei partecipanti la Conferenza dovrebbe produrre un piano di lavoro ed una piattaforma comune su debito ecologico, diritti della Madre Terra, dei popoli indigeni e dei rifugiati climatici proponendo tra l’altro la costituzione di un tribunale internazionale sui crimini climatici. Altri incontri si stanno tenendo su temi specifici quali la tutela delle foreste, il cosiddetto “Reduced Emissions from Deforestation and Degradation” (REDD), Una prima riunione su REDD si è tenuta a Parigi a marzo, a porte chiuse e senza la partecipazione dei rappresentanti indigeni, per avviare un partenariato per le foreste che verrebbe siglato ad Oslo poco prima della riunione della Conferenza sui Mutamenti Climatici prevista per fine maggio a Bonn. Nel dopo Copenhagen, l'unico programma che sembra procedere è proprio quello relativo alla protezione delle foreste tropicali per il quale a Copenhagen sono stati annunciati impegni per 3,5 miliardi di dollari che potrebbero arrivare a 8 miliardi. L’idea è quella di dare soldi ai paesi tropicali per proteggere le foreste, bloccare la deforestazione, e assicurare che le stesse possano assorbire gas serra. L'uovo di colombo per quei paesi che vogliono continuare a bruciare petrolio e carbone, una minaccia possibile per i milioni di indigeni che vivono nelle foreste tropicali e che chiedono come condizione il rispetto dei propri diritti fondamentali. Un tema, quello dei diritti umani e del clima, che ha lambito il negoziato ufficiale ma che finora non è riuscito ad imprimere una svolta “culturale” e politica in un negoziato ancora troppo centrato sui numeri e sulla scienza e poco sulla giustizia e sull'equità.
pubblicato sui siti di Sinistra, Ecologia e Libertà, marzo 2010
e European Alternatives

I pilastri della nuova politica

Provare a tracciare un cammino che attraversi i vari processi che si prefiggono nel nostro paese l’obiettivo di trasformare la politica è cosa ardua, ma non impossibile. Indubbiamente l’onda lunga dei movimenti , tanto teorizzata e poi praticata, sta attaversando un periodo che a suo tempo definivamo carsico, senza essere in grado allora di coglierne le caratteristiche. Lo stato di fatica che attraversa il processo dei Forum Sociali , è forse risultato di diverse aspettative che in quei processi si sono riposte. Indubbiamente in Italia, come nel resto d’Europa, tali movimenti sociali riescono in parte a riemergere su questioni specifiche e puntuali, quali il contrasto ai processi di privatizzazione dell’acqua, o i mutamenti climatici. Per delineare le potenzialità di un periodo di crisi forte della politica - non solo istituzionale - di sinistra, e che può sembrare anche propria della sinistra diffusa e sociale, si dovrà partire però con un atto di autocritica. Interrogarsi – ad esempio - sulle ragioni della contemporaneità tra crisi della politica di sinistra e della sua scomparsa dalla scena istituzionale, e l’ innegabile difficoltà della “società civile” nel proporre e praticare processi e progetti nuovi, capaci di incidere profondamente e riattivare l’impegno diffuso per un altro mondo possibile. Sarà cioé necessario chiedersi se l’incapacità della “politica” istituzionale di fornire le giuste risposte, non sia anche riconducibile al fatto che tali domande venivano poste con modalità che non hanno sortito effetti, non solo sull’obiettivo prefisso, ma anche sulla costruzione di nuove pratiche. Il rapporto tra cosidetta società civile e politica istituzionale è stato in molte istanze impostato come rapporto verticale e non orizzontale . Questo vale non solo per la “politica istituzionale” che troppo spesso ha preso ad “icona” le istanze più importanti dei movimenti e della società civile, ma anche per questi ultimi soggetti che spesso hanno preferito rapportarsi a quel livello della politica solo come luogo di ricaduta dei propri interessi o rivendicazioni. La crisi contemporanea - ed evidente - della sinistra “politica” e quella - forse apparente - delle politiche di sinistra diffusa ci interroga quindi sul principio e la portata della rivendicazione di autonomia del sociale dalla politica, e del perché tale autonomia non abbia sortito l’effetto di trasformare – a parte alcune eccezioni - le forme e le pratiche di rappresentanza e partecipazione a livello più alto . Facciamo un passo in avanti. Realtà vicine all’economia solidale oggi cercano di svolgere un percorso di approfondimento “teorico” sulle buone pratiche di decrescita, indispensabile per irrobustire ipotesi di cambiamento dei modelli produttivi e di consumo. Il vero problema è che ciò non basta. E non solo perché esistono già le cosiddette buone pratiche, che insistono sui cosiddetti “territori”, ma perché mentre ci si accinge a studiare i modelli teorici di una società perfetta, nel mondo esterno, dove si sviluppano e si consumano conflitti sociali, si soffre un processo degenerativo della democrazia che richiede uno sforzo collettivo di resistenza, disobbedienza, e creatività per lasciare aperti e difendere spazi minimi di agibilità e di diritto essenziali per l’opera futura di ricostruzione. Ci sono poi coloro che continuano ad alimentare vertenze urgenti e necessarie, quali i comitati contro le varie nocività, il nucleare, la privatizzazione dei beni comuni. Sono processi importanti, che possono contribuire a creare una rete di realtà e soggetti in grado di ricostruire un tessuto connettivo, a rete, su tematiche ed approcci che rivendicano la democrazia diretta, i diritti fondamentali. Questi processi di “democrazia a kilometro zero”, assieme alle mobilitazioni delle organizzazioni dei migranti , aiutano a costruire un terzo pilastro, quello che in politichese si direbbe il passaggio dalla democrazia degli “stakeholder” a quella dei “rightsholder”. Ovvero il passaggio dai processi tradizionali, propri della democrazia liberale, nei quali la società civile veniva collocata tra le rappresentanze dei vari interessi in causa, che lo stato avrebbe poi contribuito a mediare, ai processi di autorappresentazione e rivendicazione di soggetti portatori di diritti, propri di una democrazia participativa e radicale. Il problema in questo caso è quello di spingersi oltre per contribuire alla costruzione di un possibile progetto di società, un programma che sia politico in questo senso. C’è poi chi trae dalle esperienze d’oltreoceano, in quel continente latinamericano in continuo fermento, l’ispirazione per rinnovare la politica. Quello che i movimenti latinoamericani ci insegnano è che oltre al riferimento etico “buen vivir”, tre sono le ipotesi politiche praticabili: o prendere il potere, attraverso gli strumenti tradizionali di rappresentanza, e poi esercitarlo in maniera più o meno innovativa, decidere di non prendere il potere ma di esercitarlo non tanto in quanto potere ma in quanto “potenza” che deriva dalla propria soggettività, storia e cosmología, (è questo il caso di molti movimenti indigeni e sociali) o rapportarsi con il potere e con la politica istituzionale in una modalità a geometría variabile, costruendo cioé progetti comuni, ma non esitando ad aprire conflitti per mantenere vivo il percorso di trasformazione sociale. Queste pratiche pur essendo proprie del contesto, delle situazioni e della storia di quei popoli e di quelle terre, rappresentano l’urgenza di rielaborare il concetto di potere, non inteso come “presa della stanza dei bottoni”, ma come opportunità per servire il bene comune. Ne consegue che la democrazia non può essere considerata un processo compiuto ma è sempre in itinere, e si alimenta - anche e soprattutto - della capacità di attivare e praticare conflitti e vertenze. Le rivoluzioni “cittadine” in alcuni paesi dell’America Latina non possono infatti essere confinate alle pratiche di quei governi, ma traggono massimo significato dalle profonde trasformazioni in corso in quelle società come prodotto collaterale rispetto all’ascesa al potere di formazioni politiche “progressiste”. Altri soggetti poi praticano l’autonomia, provando a costruire nel proprio spazio “liberato” un’ipotesi di società possibile, agibile, alternativa. Anche in questo caso questi processi hanno grande potenzialità: oltre alla resistenza, aprono lo spazio alle pratiche “altre”, intessute di teoria e critica radicale di paradigma, ma allo stesso tempo della costruzione di spazi di elaborazione e produzione artistica e culturale. Tali processi ed esperienze testimoniano che arte, politica, e cultura possono essere tre strumenti non separati, ma intrinsecamente connessi in un progetto di trasformazione dell’esistente. C’è poi chi sta provando a costruire partiti o formazioni politiche nuove, essenzialmente su base locale, o regionale, con l’intenzione di poter dare rappresentanza alle varie istanze della “sinistra” sociale. L’idea di poter articolare forme innovative di rappresentanza su base locale, non può prescindere però dalla necessità di riconoscere che oggi l’azione politica - seppur praticata a livello locale e delle nuove municipalità partecipate - necessita di un respiro più ampio, di luoghi di convergenza ed elaborazione che superino i confini geografici ed ideali dei cosiddetti “territori”. E che provino a praticare questa interrelazione tra locale e globale e viceversa che rende obsoleto il concetto stesso di “territorio”. Veniamo all’ultimo punto di analisi in questo rapido excursus analitico sulle forme e le pratiche della “buona” politica. Come detto all’inizio, i partiti “tradizionali” della sinistra sono “scomparsi” dalla scena istituzionale, e soffrono una fase di crisi di proposta, elaborazione e identità. La galassia di sinistra sociale che, nonostante le difficoltà, continua ad esistere ed operare nel paese si riconosce solo in parte nei partiti di sinistra. Una disaffezione che si è espressa in un alto tasso di astensionismo nelle ultime elezioni, e dallo spostamento di parte dei consensi verso altre formazioni politiche in nome del rinnovamento “morale” della politica (si veda ad esempio l’ascesa del “popolo viola”) o della scelta del voto utile. La politica dei partiti della sinistra sconta in buona parte il prezzo di non esser riuscita a cogliere le vere innovazioni che provenivano dalla sinistra sociale e diffusa, e rischia tuttora di ricadere in pratiche che ne hanno causato la quasi totale scomparsa nel nostro paese. Anche su questo sarà necessario che si interroghi chi oggi continua con ostinatezza e grande dedizione a tenere in vita nodi di resistenza e pratiche alternative. La questione centrale sarà di capire se ed a quali condizioni i “partiti” possano essere compagni di strada , o piuttosto siano ostacoli , o peggio ancora soggetti irrilevanti, in questo cammino di ricostruzione della buona politica. Altra tappa nel cammino sarà allora quella di non rifuggire un confronto critico, di merito e nelle pratiche, con i partiti della sinistra, arrivando a contemplare anche l’ipotesi di stringere un patto di lavoro tra varie componenti della sinistra “sociale” e proporlo poi ai partiti della sinistra. Un patto tra soggetti eguali, che riconosca l’eguale dignità ed il desiderio di sperimentare modalità e pratiche nuove intorno a tematiche cruciali. Tra queste il nucleare ed il diritto all’acqua, i diritti dei migranti, GLBQT e di cittadinanza, la giustizia e la povertà nel paese, la costruzione della pace, attraverso il disarmo nucleare ed il sostegno alla resistenza contro la base di Vicenza. A Carta due possibili compiti, quello di continuare nel suo sforzo di riannodare le trame delle sinistre, di quella sociale e diffusa, e di provare a fare altrettanto con i media alternativi, dalle riviste, alle radio, ai blogger, creando cosi uno spazio virtuale - ma anche concreto - di confronto ed elaborazione collettiva.
scritto per la rivista Carta Aprile 2010

www.carta.org

Quale giustizia per i Tamil?

Dopo le elezioni presidenziali tenutesi a marzo, le prossime politiche in Sri Lanka potrebbero riaffermare il dominio del partito del riconfermato leader Rajapaksa, già responsabile assieme all’altro candidato alla presidenza, il generale Fonseka, di gravi crimini contro l’umanità commessi nell'ultimo periodo della guerra che portò all’annientamento delle Tigri del Tamil Eelam, (LTTE) ma con questo anche alla morte di decine di migliaia di civili Tamil. Che la questione Tamil non possa essere relegata a vicenda strettamente attinente agli equilibri regionali, e dalle strategie di controllo di Cina ed India in quello scacchiere delicato, lo dimostra il recente “scontro” diplomatico tra il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon ed il governo dello Sri Lanka sostenuto dai paesi del movimento dei non allineati. Il primo ha confermato pubblicamente la sua intenzione di costituire un gruppo di esperti che dovranno indagare sulle violazioni dei diritti umani compiute anche dal governo dello Sri Lanka. A questa proposta i paesi non allineati risposero con una lettera durissima nella quale si intimava a Ban di abbandonare tale proposito, in quanto così facendo le Nazioni Unite avrebbero gravemente violato la sovranità di uno dei suoi stati membri. Quella che segue è un’intervista che spiega le ragioni e le conclusioni di una sessione del Tribunale Permanente dei Popoli dedicata proprio alle responsabilità dei massacri di civili Tamil, tenutasi a Dublino nel gennaio scorso.


www.lettera22.it
http://www.ifpsl.org
www.internazionaleleliobasso.it

http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsID=34102&Cr=sri+lanka&Cr1=



SRI LANKA, VERITA' SUI CRIMINI DI GUERRA 8/2/10


Il tribunale permanente dei popoli si è riunito a gennaio per stabilire le responsabilità del governo di Colombo nel massacro di migliaia di tamil durante gli ultimi atti della guerra civile. Francesco Martone, membro del Tpp, ci spiega le conclusioni dell'indagine.


Junko Terao

Lunedi' 8 Febbraio 2010


Sono passati circa otto mesi dalla fine della guerra civile quasi trentennale tra il governo e i ribelli tamil, ma i modi con cui l’esercito srilankese ha avuto la meglio non sono ancora stati verificati. Per settimane l’esercito ha continuato a sparare e lanciare granate sulla ‘no fire zone’, dove 250mila tamil erano intrappolati insieme alle tigri dell’Ltte (Tigri per la liberazione del tamil Eelam). Per sei oltre mesi, i tamil sfollati sono rimasti rinchiusi nei campi allestiti e controllati dai militari senza potersi muovere né comunicare con l’esterno. Bandite dal nord del paese le organizzazioni umanitarie, cacciati tutti i giornalisti. Il governo non ammette critiche e la comunità internazionale finora non ha fatto nulla. Pochi giorni prima della rielezione di Rajapaksa, il Tribunale permanente dei popoli aveva pubblicato il rapporto della commissione chiamata a verificare i presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo e dall’esercito srilankesi nel corso dell’offensiva finale contro le Tigri tamil. Sotto esame anche le presunte responsabilità della comunità internazionale nel fallimento del cessate il fuoco del 2002 tra il governo di Colombo e l’Ltte. Francesco Martone, membro della commissione che si è riunita a Dublino a metà gennaio, ci spiega cosa hanno concluso.
Da dove è partita la vostra indagine?

Abbiamo avuto una richiesta specifica dalla rete di ong Irish forum for peace in Sri Lanka, che ci ha fornito una serie di documentazioni che delineavano possibili crimini di guerra e contro l’umanità che si erano compiuti soprattutto nell’ultimo periodo dell’offensiva finale. Di fatto, l’Ifpsl ci aveva sottoposto due documenti di base: uno che qualificava i possibili crimini contro l’umanità e il secondo che qualificava i possibili crimini contro la pace. L’idea era quella di verificare se era possibile identificare la responsabilità giuridica della comunità internazionale per quanto riguarda la rottura del cessate il fuoco e la scarsa volontà politica di sostenere una soluzione negoziale. Il terzo punto su cui alcuni dei ricorrenti hanno chiesto un giudizio è la possibile esistenza di reati di genocidio.

Su quali elementi vi siete basati?

Abbiamo ascoltato testimonianze di vario tipo: quelle di alcuni rappresentanti dei tamil che vivevano nei campi sfollati nel periodo del conflitto, quelle di cooperanti e volontari, quelle di alcuni militari scandinavi dell’independent monitoring force - creata per controllare la tenuta del cessate il fuoco del 2002 -, che ci hanno raccontato la genesi del post cessate il fuoco. Abbiamo ascoltato anche il parere di analisti esperti di Sri Lanka. Il tutto a porte chiuse e in condizioni di sicurezza perché avevamo ricevuto avvisaglie di possibili minacce.

Cosa avete concluso?

Per quanto riguarda i crimini contro l’umanità ci sono prove evidenti - abbiamo visionato dei video che li provano, quindi non è stato difficile verificarli, anche perchè esistono parametri chiari, sia nel trattato di Roma sia nella convenzione di Ginevra. Per quanto riguarda i crimini contro la pace, a livello giuridico era un po’complicato definire quando o chi avesse compiuto questi crimini. Quello che abbiamo scelto di fare è di indicare una sorta di corresponsabilità diretta della comunità internazionale nella rottura del cessate il fuoco del 2002. Sicuramente una delle concause è stata la decisione dell’Unione europea di iscrivere le organizzazioni tamil, tra cui anche l’Ltte, tra i gruppi terroristici. Una decisione cui l’Ue è giunta soprattutto in seguito alle pressioni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e che da una parte ha compromesso la possibilità dell’Ue di svolgere un ruolo di arbitro imparziale, dall’altra ha dato un’ulteriore autorizzazione al governo di Colombo a perseguire una soluzione militare alla questione tamil e di giustificarla come parte integrante della guerra contro il terrorismo. Poi, abbiamo verificato la corresponsabilità di paesi che hanno fornito armi al governo dello Sri Lanka durante il cessate il fuoco. Ci sono prove evidenti della fornitura di armi da parte di alcuni paesi come India, Israele, Repubblica Ceca, Ucraina e Gran Bretagna, che aveva addestrato alcuni quadri dell’esercito dello Sri Lanka. L’altra corresponsabilità per omissione della comunità internazionale è stata l’impossibilità da parte del consiglio Onu per i diritti umani di arrivare a un impegno per inviare in Sri Lanka una missione o mettere almeno il tema in discussione. Lo stesso vale anche per il Consiglio di sicurezza: il Messico, a suo tempo, aveva chiesto che la discussione sullo Sri Lanka venisse messa all’ordine del giorno ma la Russia si oppose. E anche al consiglio Onu per i diritti umani, secondo le informazioni che abbiamo acquisito, di fatto si creò un fronte unico dei G77 che sostenne lo Sri Lanka dicendo che la faccenda non poteva essere messa all’ordine del giorno perchè sarebbe stato un uso improprio della questione dei diritti umani. La mancanza di iniziativa da parte dell’Onu è stata uno degli elementi che non hanno contribuito a rafforzare la tenuta del cessate il fuoco. Ma anche il mancato intervento durante lo svolgimento dell’ultima azione militare, di fatto, non ha aiutato la causa della popolazione civile.

In base alle testimonianze che ha ascoltato che idea si è fatto della situazione attuale nei campi sfollati dove vivono ancora centomila persone?

La situazione sembra in parte essere migliorata. Almeno gli sfollati possono uscire dai campi, non sono più segregati. Però il problema è capire dove sono state mandate le 150mila persone che non si trovano più nei campi. Ci risulta che siano state mandate in altri luoghi sottoposti comunque a controllo militare. Che fine hanno fatto, poi, le 11mila persone di cui non si ha notizia? Comunque sia non c’è un controllo indipendente: le organizzazioni umanitarie non hanno accesso ai campi e ai luoghi dove si trovano i civili tamil. La situazione nel nord è ancora preoccupante perchè c’è una forte militarizzazione e i programmi di reinsediamento sono gestiti senza la partecipazione delle organizzazioni internazionali né degli stessi tamil.

Cosa raccomandate per risolvere la situazione?

Prima di tutto che siano organizzate missioni di monitoraggio indipendente per le prossime elezioni parlamentari di marzo, e che venga assicurato un dibattito libero e pacifico durante la campagna elettorale. Perchè c’è anche il grande problema degli attacchi alla libertà di stampa: abbiamo parlato con vari giornalisti tamil che cercano di mantenere aperto un canale d’informazione indipendente e che ci hanno raccontato le grandi difficoltà cui vanno incontro per cercare di denunciare la situazione attuale. Tra le raccomandazioni, poi, c’è quella di istituire una commissione d’indagine indipendente e un relatore speciale dell’Onu che facciano luce su quello che è successo e sulle responsabilità di tutte le parti in conflitto.

Adesso che succede? Colombo ha già risposto e rispedito le accuse al mittente gridando al complotto. Ma da parte della comunità internazionale, viste le accuse pesanti mosse contro alcuni paesi in particolare, c’è già stato qualche riscontro?

E’ ancora troppo presto. Adesso dobbiamo decidere che strategia adottare. Invieremo il nostro rapporto agli organismi internazionali competenti, sicuramente al Consiglio per i diritti umani, e si proverà a capire come il consiglio possa farne oggetto di discussione all’ordine del giorno. Più che condanne, il documento contiene delle raccomandazioni. Lo scopo è di produrre qualcosa di concreto e costruttivo per uscire dall’impasse e garantire che la comunità internazionale prenda degli impegni nei confronti dei civili tamil.


Uscito anche su il manifesto