domenica 2 agosto 2009

OGM, sovranità alimentare e pesticidi....in risposta ad articolo pubblicato su L'Altro, (1 Ago 2009)

Ma davvero contro gli ogm sono schierati gruppi di frikkettoni,
ex-katanga, amici dei lobbyisti o lobbyisti essi stessi? A parte il
linguaggio e le etichettature che appartengono ad un mondo “altro” e
che ci perseguitano dal ’68, forse le cose non stanno proprio così.
La critica e la resistenza agli OGM e le pratiche di un’agricoltura
libera da pesticidi, hanno un carattere mondiale e vedono
protagonisti in primo luogo i movimenti e le organizzazioni contadine
dei sud del mondo. Donne ed uomini che denunciano come gli OGM ed i
pesticidi siano la parte avanzata di un sistema, quello
dell’agri-business mondiale, dominato dalle grandi multinazionali, che
ha prodotto tutte le attuali e drammatiche distorsioni. Un sistema che
tiene i contadini dei paesi “in via di sviluppo” in permanente
condizione di povertà e dipendenza. Che più produce e meno sfama,
come dimostrano i fallimenti di tutti gli impegni di lotta alla fame
nel mondo. Che quando sfama crea obesità. Un sistema che, sopravvive
solo grazie ad ingentissimi aiuti pubblici, con buona pace dei più
entusiasti sostenitori del destino salvifico del libero mercato. Negli
USA come in Europa, dove i sussidi rappresentano oltre il 40% del
bilancio comunitario, questo paradigma invece di produrre lavoro
buono, terra buona, cibo buono, favorisce sistematicamente i ricchi.
I grandi azionisti e manager delle imprese multinazionali che
controllano sementi, pesticidi, ed ora OGM, e così detengono il potere
sulla riproduzione alimentare e sul patrimonio genetico, violando
sistematicamente il diritto umano al cibo ed alla sovranità
alimentare. O coloro, grandi proprietari terrieri in primis, che
traggono vantaggio dalle esportazioni sovvenzionate a danno delle
agriculture familiari dei paesi terzi , o produttori di “biofuel”
che sottrae l’agricoltura al cibo e la consegna a sfamare macchine.
Così i prodotti di questo sistema profondamente ingiusto, che più
costanos dal punto di vista degli impatti ambientali e della sua
cattiva qualità, finiscono a sfamare i poveri al “discount” o vengono
spediti nei paesi impoveriti sotto forma di aiuto alimentare, mentre
la qualità, che fa risparmiare beni comuni, quali la salute della
Terra e delle persone, diviene un lusso. Naturalmente si può
considerare questa ricostruzioneanticapitalistica ed ideologica: per
noi è invece una critica di paradigma. Che non sarà la scienza a
salvarci, è esperienza concreta. L’agricoltura è piena di rivoluzioni
scientiste, verdi, (ultima in ordine di tempo il piano lanciato da
Bill Gates e Kofi Annan per una nuova rivoluzione verde in Africa –
AGRA) che separano sempre più la produzione di cibo dai fattori
naturali, e gli effetti sono di fronte a noi. Fame nel mondo ed
obesità, pandemie, desertificazione ed effetto serra. Certo si può
sempre sostenere che quel 16% almeno di effetto serra che questa
agricoltura produce non deriva dai cicli lunghi, dagli eccessi
chimici, dagli allevamenti intensivi, ma dalle galline allevate a
terra. O si vuole dimenticare che l’agricoltura pulita, tradizionale,
e su piccola scala può essere un importante fattore di adattamento
all’effetto serra. Ma qui si arriva all’assurdo ed alla crudeltà. Cosa
sono gli alevamenti intensivi, in gabbia lo sanno tutti, come tutti
sanno cosa comportano in termini anche di sofferenza animale.

Certo si può rovesciare con una capriola il principio di precauzione,
fondativo dell’Europa e cardine del diritto internazionale
dell’ambiente, per cui bisogna dimostrare che le cose che si fanno
non fanno male, nel suo contrario. Ovvero che si può fare tutto ciò
che non è dimostrato che fa male , specie su terreni di proprietà
privata. O cercare di affermare, sulla base di uno studio inglese,
che i prodotti dell’agricoltura organica siano, in termini di salute
dei consumatori, equiparabili a quelli dell’agricoltura con pesticidi,
dimenticandosi della salute di coloro che coltivano, e si avvelenano
quotidianamente. Che dire allora delle vittime del Nemagon in America
Centrale, o di quelle terre e falde acquifere avvelenate da sostanze
chimiche micidiali come il glifosato?
Certo si possono citare studi sempre disponibili come tanti ce ne sono
che dicono che il nucleare serve contro l’effetto serra, o che lo
stesso effetto serra è un fattore naturale, Ma la realtà del rapporto
moderno tra società e scienza è proprio quello che sulla scienza e con
la scienza si discute e si sceglie. Un dibattito che viene da lontano,
di critica delle tecnologie, intrinsecamente trincerate intorno agli
interessi dei potenti, e che non sopportano la critica democratica. E
di lotte per tecnologie appropriate, diffusibili e controllabili. Per
cui si può essere per la RU486 e contro gli OGM, perché si sta con le
donne ed i contadini. Per cui l’Europa ha convalidato consensualmente
la responsabilità umana nell’effetto serra. Una riflessione la
vogliamo proporre anche a L’Altro. Tra discutere tutto ed il tutto fa
spettacolo, c’è una differenza. E se è giusto criticare in radice
ogni esperienza della sinistra, magari cercando comunque di guardare
al di là dei propri confini geografici, altro sarebbe scoprire le
magnifiche sorti e progressive del capitalismo.

Roberto Musacchio
Francesco Martone

martedì 28 luglio 2009

morire per Kabul?

Mio commento su Afghanistan postato oggi sul sito di SeL

28 luglio 2009 alle 20:16

Avendo avuto a che fare - assieme a molti e molte compagne che oggi
come me sostengono il progetto di Sinistra e Libertà - con la
questione afgana per ben sette anni in Parlamento ed essendo stato uno
dei promotori dell’appello per il ritiro delle truppe pubblicato anche
su questo sito vorrei condividere alcune riflessioni. La prima è che
non si può lasciare il popolo afghano in preda della NATO, delle bombe
intelligenti, dei Mangusta, né dei signori della guerra nè ancor di
più dei Talebani. A suo tempo tentammo una via altra, che passava
attraverso tre pilastri: a rielaborazione del concetto di sicurezza.
Quando si parla di sicurezza umana si intende la protezione dei civili
non operazioni offensive. Allora si proponeva che l’Italia si
sganciasse dalla partecipazione all’operazione Enduring Freedom e
sostenesse la riconfigurazione della la presenza internazionale con un
contingente di polizia internazionale sotto mandato e comando ONU.
2: sostenere processi di mediazione e costruzione della pace
attraverso il sostegno alla società civile afgana, processi di verità
e giustizia sui crimini commessi da tutte le parti in conflitto, la
convocazione di un tavolo di trattativa anche con gli insurgenti. A
questo negoziato macroregionale avrebbero partecipato anche i governi
degli stati confinanti l’Afghanistan Iran e Pakistan in primis.
3. inversione delle proporzioni tra sostegno finanziario allo
strumento militare e ricostruzione, sostegno a programmi di
autoproduzione alimentare, microimpresa, microcredito, sostituzione
progressiva delle colture da oppio con produzioni atte ad assicurare
sovranità alimentare e accesso a mercati locali. Investimento in
scuole, e salute, ed in infrastrutture locali. Sganciamento delle
attività militari da quelle di ricostruzione come nel caso delle
Provincial Reconstruction Teams, vedi quella di Herat. Sulla base di
questa proposta abbiamo per due anni ingaggiato un confronto
costruttivo con il governo Prodi, per provare ad ottenere una
riduzione progressiva dell’impegno italiano in termini militari ( o
per lo meno prevenire una escalation in termini di uomini e mezzi) e
un rafforzamento della partecipazione in termini civili e di
mediazione. Le regole d’ingaggio e la gestione dei caveat venivano
costantemente monitorati a livello parlamentare, mentre si cercava di
articolare un dialogo con quei pezzi di movimento pacifista che come
noi non volevano cadere nella trappola “ritiro delle truppe da una
aguerra imperialista” o “a Kabul fino alla morte per l’Occidente e la
NATO”. Abbiamo provato a metterci nei panni delle necessità effettive
del popolo afgano al di la di ogni retorica. Non è stato facile, né
per le nostre profonde convinzioni pacifiste né per lo scontro che
questo ha creato con compagni e compagne di viaggio sia in Parlaento
che all’esterno, nei movimenti. Poi quando era chiaro che la fase
politica del centrosinistra stava volgendo al termine abbiamo votato
contro la missione per non dare una cambiale in bianco ad un governo
successivo, che oggi con le dichiarazioni dei suoi ministri dimostra
un volto guerrafondaio e militarista che cozza contro quelle ipotesi
di exit strategy da più parti invocate anche all’interno
dell’amministrazione Obama. Ora le condizioni per una strategia di
riconfigurazione del ruolo italiano in Afghanistan non esistono più,
né quella che dovrebbe essere l’opposizione accenna ad un minimo
interesse a rielaborare proposte di uscita dall’opzione militare. Ed
allora a noi non resta che rilanciare l’appello per ritirare le
truppe, fermare l’escalation militare e chiedere che l’Italia si
incarichi di sostenere una discussione per una profonda
riconfigurazione della presenza internazionale in quello scacchiere.
Farlo mentre fischiano le bombe o i proiettili dei Mangusta (tanto
invocati dal responsabile Difesa del PD) mi pare non solo impossibile
ma anche non accettabile dal punto di vista politico ed etico.

lunedì 20 luglio 2009

Il G8 visto dall'Ecuador

ricevo e pubblico volentieri, da Mauro Cerbino, editorialista de El Telegrafo...


Las ruinas del G8
Mauro Cerbino

mcerbino@telegrafo.com.ec

Acabamos de asistir a un capítulo más de la "saga" del G8. Desde 1975, el restringido grupo de países más ricos del mundo se reúne para discutir y aprobar decisiones que han servido para proyectarlo como el motor de un sistema global de Gobernanza. Se empezó con un selecto G5 compuesto por Alemania, Francia, Inglaterra, Estados Unidos y Japón al que se han sumado Italia, Canadá y últimamente Rusia. Este grupo exclusivo (y excluyente) de países pretende establecer su legitimidad mundial basándose en la riqueza producida y también en una supuesta supremacía de lógicas de "occidente" sobre el resto del mundo, sabiendo que Japón y Rusia se alinean claramente con esas lógicas.
Sin embargo el club ha tenido que ir abriendo paulatinamente su membrecía a otros países. En primer lugar porque ha visto como iba disminuyendo el monto de su riqueza en relación al resto del mundo, y por otro lado por la necesidad de incluir países que representen a otras geografías como es el caso de Brasil por América Latina o de Egipto por África. El club requiere de nuevos adeptos para reacomodarse económica y políticamente no para democratizarse. Los añadidos que configuran la serie matemática de G5+1+1+1+5+7 para llegar a un G20, parece ser uno de aquellos juegos como el Risk en el que de lo que se trata es de sumar países (y ejércitos) para conquistar el mundo.
Agudos analistas como Francesco Martone, ex senador italiano y especialista en relaciones internacionales, indican que tales prácticas, lejos de significar una voluntad por fijar nuevas reglas más equitativas de Gobernanza mundial, conducen de hecho a un debilitamiento ulterior del multilateralismo y especialmente de la ONU.
El club se va configurando así por medio de "geometrías variables", las cuales siendo informales y no sostenidas en instituciones, hacen que el cumplimiento de las decisiones y los compromisos que se toman estén supeditados a la "buena voluntad" de cada miembro. El resultado es conocido: los compromisos como la lucha a la pobreza o el incremento financiero a la cooperación al desarrollo siempre se quedan en carpeta.

Sería interesante que los astutos diplomáticos del club puedan convencer a sus jefes de gobierno de cómo concebir una geometría no euclidiana, que sepa reflexionar sobre las asimetrías y las topologías complejas que la humanidad presenta.
Entre los escombros de L´Aquila, ciudad devastada por el terremoto, Berlusconi ha organizado este G8. Pudo haber sido un modo para llamar la atención mundial sobre este drama y recibir apoyo, y también su astucia pudo haberlo llevado a concebir a ese lugar como el más idóneo para desactivar cualquier protesta de los movimientos altermundialistas, aquellos que hace ocho años han sido víctimas en Génova de la brutal represión de parte de este mismo gobierno. Lo que es cierto es que nunca un lugar fue más apropiado que éste para el show mediático de un club, cuya estructura concéntrica y aparentemente sólida, en mucho se parece a la fragilidad de las paredes de las casas construidas con arena gracias a la corrupción y al degrado imperante en Italia.

venerdì 10 luglio 2009

Aiuto! Quali aiuti allo sviluppo?

Dal vertice di Gleneagles di qualche anno fa ad oggi, i paesi del G8
avrebbero dovuto tener fede all’impegno di destinare quote crescenti
del loro prodotto interno lordo alla lotta alla povertà e dalla cooperazione
internazionale. E le ristrettezze di bilancio causate dalla crisi economica
globale non possono certamente essere addotte a pretesto per venir meno
ad un impegno di giustizia e di restituzione del debito ecologico e sociale
accumulato dai paesi industrializzati nei confronti del mondo di maggioranza.
Tuttavia il paese che oggi ospita e presiede il G8 è progressivamente
precipitato tra gli ultimi in termini di impegni per la lotta alla povertà:
negli ultimi due anni del governo Berlusconi la cooperazione è arrivata ai
minimi storici.
Se ciò non bastasse, questo G8 potrebbe segnare l’inizio di una nuova era
nei principi e nelle strategie per la promozione dei beni pubblici globali, a partire
dall’aiuto e dalla cooperazione allo sviluppo. A fronte dei ripetuti
appelli del mondo nongovernativo ad aumentare le quote di
finanziamento alla cooperazione e dalla lotta alla povertà, i G8 non
si sono fatti sfuggire l’occasione per proporre una nuova visione
dell’aiuto allo sviluppo, in termini di “sistema paese”
("whole of country" nel gergo degli sherpa), un termine
bipartizan molto di moda anche negli ambienti politici nostrani.
Basti ricordare le vicende del dibattito abortito sulla riforma della
cooperazione italiana allo sviluppo la scorsa legislatura, quando
venne avanzata da più parti l’ipotesi di una Fondazione
Pubblico-Privata per la cooperazione del “sistema Italia”. Questa
dilatazione del concetto di aiuto, fino ad includere anche – come
propone l’OCSE - le missioni militari all’estero (cosa che ad esempio
viene già fatta in Inghilterra) permetterebbe quindi di affiancare
all’aiuto pubblico allo sviluppo una quota crescente del settore
privato, delle imprese, delle fondazioni internazionali. Il dibattito
in corso a livello G8 sull’aiuto, è pertanto speculare alla
discussione “nazionale” sull’aiuto allo sviluppo ormai ridotta a mera
“espressione geografica” nel bilancio dello Stato. Il G8 del 2009
potrebbe quindi passare alla storia come il “trend-setter”, quello
delle svolte “politiche” e “culturali” a costo finanziario zero. Lo
stesso vale per la riforma della governance globale. Altro che riforma
ed allargamento del G8, il vero rischio è che il G8, seppur allargato
occasionalmente ad altri Paesi ad economia emergente, riesca a
scalzare le Nazioni Unite nel gestire l’ormai irrevocabile processo di
revisione della struttura di governo dell’economia e della finanza
globale degli Accordi di Bretton Woods. Se poi si aggiunge a questo
la questione dei cambiamenti climatici, con la risolutezza del governo
italiano ad usare il Protocollo di Kyoto contro sé stesso, allora si
potrà concludere che il vertice del 2009 potrebbe diventare il primo
vertice di sapore ed ispirazione “neo-con”, proprio quando a
Washington l'avvento di Obama ha relegato i neocon tra i rottami della
storia.

Dal G8 al G20 senza le Nazioni Unite

Da tempo ormai il G8 è considerato obsoleto, inadatto e non legittimato
a formulare proposte e soluzioni a emergenze globali, spesso causate dalle
stesse scelte di politica ambientale, economica, industriale e commerciale dei
paesi che ne fanno parte. Ciononostante, piuttosto che un rilancio di ambiti
politici democratici, trasparenti e multilaterali, che siano adatti al nuovo
assetto multipolare della governance globale , l’agenda politica del G8 italiano
rischia di assestare un nuovo duro colpo al multilateralismo. Qualche mese fa si
parlò a lungo, sulla scia delle crisi economico-finanziarie, della riforma del G8 e
delle altre istituzioni finanziarie. Si pensava che il tracollo del modello economico
e finanziario globale potesse portare a soluzioni innovative, anche a seguito della
decisione del Presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Miguel
D’Escoto, di convocare un vertice ONU sulla finanza globale come punto
di ricaduta del lavoro di una task force convocata dallo stesso
d’Escoto, al cui capo venne messo il premio Nobel per l’economia
Joseph Stiglitz. Già da allora si aprì un contenzioso durissimo con i
paesi del G20 e del G8 che poche ore dopo la notizia della nomina di
Stiglitz , annunciarono la data e del luogo dove si sarebbe tenuto il
primo G8 straordinario sulla crisi finanziaria, estendendo l’invito
ad altri Paesi ad economia emergente e riconfigurandosi così come G20.
Vale la pena di ricordare che in termini “istituzionali” la Conferenza
di Bretton Woods (nella quale vennero istituiti Fondo Monetario
Internazionale e Banca Mondiale) avvenne nell’ambito del processo di
fondazione delle Nazioni Unite e quindi a questo doveva
necessariamente far riferimento. Anche se poi si decise che Banca
Mondiale e Fondo Monetario non sarebbero state considerate Agenzie
specializzate ONU, ma piuttosto collegate al sistema ONU attraverso
accordi specifici. Obiettivo principale era quello di preservare il modello
decisionale antidemocratico tuttora vigente in Banca Mondiale e Fondo
Monetario del “un dollaro un voto” (nel quale i paesi del G8 detengono
la maggioranza dei voti) rispetto a quello dell’ONU de “una
testa un voto”.. Questo braccio di ferro tra G8/G20 e
ONU ha avuto il suo culmine a giugno in occasione della Conferenza ONU
sulla finanza globale, di fatto osteggiata fino all’ultimo dai paesi
del g20 e quindi ridimensionata notevolmente nella sua portata. Sulla
scorta di questi processi politici, quello sul clima e quello sulla
crisi economico-finanziaria, si potrà desumere che il vertice de
l’Aquila se poco o nulla avrà da proporre in termini di impegni
finanziari, rischia di essere occasione per consolidare ulteriormente
nuove tendenze di fondo nei meccanismi di governo globale. Quale
la pratica del “multilateralismo à la carte” o multilateralismo selectivo.
Altro che riforma del G8, o allargamento di quel consenso, già di per sé
screditato, e poco legittimato a decidere per il resto dell’umanità.
Basta leggere tra le righe delle dichiarazioni fatte già qualche mese
or sono da Silvio Berlusconi per capire che il G8 non si toccherà
nella sua sostanza. Sotto la presidenza italiana il G8 è stato
allargato ad altri Paesi, ma non in quanto ripensamento della formula
del G8. Gruppi di Paesi sono stati invitati o convocati a seconda del
tema o dell’urgenza del caso, che siano essi i cosiddetti Outreach 5
(O5), o i MEM (Paesi corresponsabili per le emissioni di gas serra), o
i Paesi meno sviluppati (LDC) o i paesi africani dell’Africa
Partnership Forum. Il G8 de l’Aquila rischia così di consolidare una
conformazione di governance a geometria variabile, nella quale le
Nazioni Unite sarebbero solo “uno inter pares” e non il quadro di
riferimento normativo e politico per una “nuova governance economica e politica
globale”

mercoledì 8 luglio 2009

Il clima pesante del G8

Tra qualche ora si aprirà per l’ennesima volta la scena mediatica del
vertice del G8. Un appuntamento che marca dal 1975, quando si riunì
per la prima volta a Rambouillet il vertice dei G7, le scadenze-chiave
del complesso processo della governance mondiale. In queste ore non
possono non tornare alla mente le giornate di 8 anni fa, a Genova, quando si
consumò la più grave sospensione dei diritti e della democrazia mai
sofferta nel nostro paese nel secondo dopoguerra. Violazioni
gravissime dei diritti umani sulle quali una magistratura coraggiosa
ha tentato di far luce, e delle cui responsabilità politiche ancora
nulla si è potuto accertare. Chi oggi è presidente della Camera, era
in quei giorni nele sale operative delle forze di polizia, chi era a
capo della Polizia è oggi superzar dei servizi segreti. Il premier è
lo stesso, allora preoccupato delle mutande esposte dai balconi di
Genova, o degli alberi di limone da porre nei punti strategici, oggi
da una valanga di foto osée publícate sulla stampa estera. Forse
questo G8 rappresenterà la nemesi di questo organismo informale ormai
non solo delegittimato, ma anche profondamente incapace di prevenire e
gestire le crisi globali. Non a caso basta leggere le bozze di
dichiarazione finale sul clima e ci si rende conto che al di là delle
buone intenzioni nulla di nuovo verrà deciso, Anzi, forse qualcosa
verrà riconfermato, ovvero la mancanza di volontà politica di
procedere a tagli drastici delle emissioni, ed a disintossicare le
economie produttive dalla dipendenza dal petrolio e dal mito della
crescita illimitata. Nella bozza di dichiarazione finale infatti si
parla di energia nucleare, e di sostenere l’attivazione di una ventina
di progetti di Carbon Sequestration and Storage, (CSS) ovvero di
immagazzinamento sottoterra di carbonio. Una tecnologia ancora
rudimentale che, secondo gli esperti, avrà bisogno di almeno una
decina d’anni prima di essere credibile. Del resto i G8 non potevano
e non possono prendere alti impegni sul clima, in attesa
dell’approvazione del “Waxman bill” al Senato americano, il disegno di
legge sul clima che tante speranze aveva suscitato e che oggi si
rivela essere molto meno ambizioso di quanto si pensasse. Anche il
processo verso la conferenza di Copenhagen è in parte ostaggio delle
decisioni dell’Amministrazione Obama, ma vale la pena di sottolineare
come nel corso dell’ultimo incontro preparatorio di Bonn, a giugno,
Unione Europea, Giappone e Russia (ovvero paesi che rappresentano la
maggioranza dei firmatari del Protocollo di Kyoto e del G8) non
avessero esitato a dichiarare il protocollo di Kyoto morto e defunto
ed a chiedere un nuovo strumento che potesse essere di gradimento
anche agli Stati Uniti. Così facendo questi paesi hanno provocato la
controffensiva dei paesi del G77 , che - Bolivia in testa - hanno
invocato il riconoscimento dell’obbligo di riconoscere il debito
storico dei paesi industrializzati e procedere di conseguenza a tagli
drastici delle proprie emissioni. Tutto in sospeso quindi sulla crisi
climatica, con il rischio di sviluppi che potrebbero mettere a repentaglio
l’approccio multilaterale, seppur monco e criticabile del protocollo di Kyoto, fin
troppo basato su soluzioni di mercato quali il mercato di permessi di
emissione. Il convergere delle varie crisi, economica, finanziaria, alimentare,
climatica ed energetica avevano fatto ben sperare in una netta inversione di rotta, e la costruzione di soluzioni alternative a quelle ispirate dal modello dominante di sviluppo. Purtroppo anche stavolta è la realpolitik ad avere la meglio.

www.sinistraeliberta.it

Le false promesse del G8 sulla lotta alla povertà

Ormai da anni il G8 fornisce l’occasione per una analisi critica degli impegni profusi da quei paesi nella lotta alla povertà verso l’obiettivo dello stanziamento dello 0,7 del proprio prodotto interno lordo ala cooperazione internazionale. Ed ogni anno dalle ONG parte una salva di richieste sempre rimandate al mittente. Perché questo G8 dovrebbe rappresentare una discontinuità rispetto al passato? A guardare nelle casse del paese che lo ospita c’è ben poco da stare allegri. Quest’anno la cooperazione pubblica allo sviluppo ha raggiunto il suo minimo storico, se non fosse per le quote destinate al controllo del Ministero dell’Economia che ha la responsabilità per i fondi dati alle istituzioni finanziarie internazionali, quali la Banca mondiale. Anzi, è probabile che Banca mondiale e Fondo Monetario Internazionale verranno ulteriormente imbottite di risorse finanzarie dopo che il vertice del G20 di Londra del marzo scorso ne ha rilanciato il ruolo portante per la soluzione della crisi economico-finanziaria e la costruzione di un nuovo “deal” per la crescita e lo sviluppo globale. Inoltre, la conferenza delle Nazioni Unite su Finanza per lo Sviluppo tenutasi a Doha nei mesi scorsi ha rilanciato anche il ruolo del settore privato e delle imprese, nonché l’urgenza di riprendere le fila del negoziato in ambito WTO, il cosiddetto Doha Development Round, bruscamente interrotto a Cancún e poi ad Hong Kong. In questo contesto la cooperazione pubblica allo sviluppo rischia di sparire del tutto. Su proposta italiana infatti il G8 discuterà una nuova visione dell’aiuto allo sviluppo, in termini di “sistema paese”. Questa dilatazione del concetto di aiuto, fino ad includere anche – come propone l’OCSE - le missioni militari all’estero (cosa che ad esempio viene già fatta in Inghilterra) permetterebbe quindi di affiancare all’aiuto pubblico allo sviluppo una quota crescente del settore privato, delle imprese, delle fondazioni internazionali. Specularmente a quanto sta accadendo con il governo Berlusconi, la cooperazione allo sviluppo verrà intesa come strumento essenziale della politica estera, militare, di sicurezza e commerciale piuttosto che restituzione di un debito ecologico e sociale accumulato nei confronti della maggioranza delle popolazioni del Planeta. Se queste sono le premesse allo stavolta il G8 produrrà , a costo zero, un risultato politico notevole ed altrettanto preoccupante.

www.terranews.it

Giustizia climatica, diritti umani e dei popoli indigeni. Il cammino verso Copenhagen

CAMBIAMENTI CLIMATICI ED IMPATTO SUI DIRITTI UMANI

LE ANALISI E LE PROPOSTE DELLA COMUNITA' INTERNAZIONALE E DEI MOVIMENTI INDIGENI


Francesco Martone, giugno 2009 (*)



“Se sparisce l’acqua se ne vanno anche le nostre divinità. I nostri anziani stanno notando che qualcosa di grave sta succedendo. Alcune aree sono inondate mentre prima non lo erano. Il sole brilla normalmente per 4-6 giorni, non piove per un mese e questa è una foresta pluviale”

Con le sue parole Juan Carlos Jintiach, indigeno Shuar dell’Amazzonia ecuadoriana sintetizza il dramma vissuto da milioni di indigeni in tutto il mondo. É il dramma della sopravvivenza dei pastori di renna Saami (Lapponi) di Norvegia, Svezia o Finlandia, o dei i coltivatori di riso Khmer Krom nel Delta del Mekong che dipendono da un ambiente sano per trarre le loro fonti di sostentamento. Di quelle comunità indigene che spesso vivono in ecosistemi fragili quali le terre aride in Africa, le piccole isole del Pacifico, i ghiacci artici.

Anche l’impatto sul diritto al cibo in particolare è notevole. Il rapporto Stern sul Clima commissionato dal Tesoro inglese nel 2005, valuta gli impatti economici dei mutamenti climatici, ed i costi per le misure di cosiddetta “mitigazione”, stimando che a seguito dei cambiamenti climatici, la produzione totale di mais nelle regioni del Centroamerica e delle Ande potrebbe ridursi del 15%.

Secondo la Banca Mondiale, il 90% del 1,2 miliardi di persone che vivono in estrema povertà in tutto il mondo dipendono dalle risorse forestali per la loro sopravvivenza. In Indonesia, ad esempio, circa 6 milioni di persone vivono in foreste statali, mentre nella Repubblica Democratica del Congo 40 milioni di persone traggono cibo, medicine, energia e reddito dalle foreste. Foreste abitate sia da popoli indigeni che da comunità locali, e spesso sottoposte a rapidi processi di degrado, distruzione, colonizzazione, trasformazione in piantagioni monocolturali per produzione di biofuel. Terre e risorse scarse sulle quali rischia di abbattersi un conflitto tra impoveriti, popoli indigeni, piccoli coltivatori, senza terra da una parte, ed elite commerciali, politiche, imprese multinazionali dall'altra.

É un dramma epocale, scatenato quindi non solo dagli effetti devastanti dei mutamenti climatici, ma anche dalla mancata volontà politica di sganciare il modello produttivo attuale dalla dipendenza da combustibili fossili. E la corsa all’ultimo giacimento di petrolio, di gas naturale, o di uranio sta creando le premesse per un attacco senza precedenti alle terre indigene, giacché in quelle zone si trovano le riserve ancora non sfruttate di combustibili fossili.




CREDITORI ECOLOGICI E GUARDIANI DELLE FORESTE

Milioni di indigeni sono portatori di un credito ecologico accumulato attraverso i processi di spoliazione delle risorse energetiche, e le conseguenze dell’utilizzo delle stesse sugli equilibri climatici globali. Un credito ecologico che potrebbe ulteriormente crescere qualora le soluzioni proposte quali i biocombustibili o il mercato di permessi di emissione o “carbon trading”, vengano usate a pretesto per continuare ad eludere l’imperativo categorico di una netta inversione di rotta nel modello economico ed energetico.

I popoli indigeni chiedono pertanto alla comunità internazionale di essere considerati non vittime ma creditori, soggetti vulnerabili che comunque possono contribuire a mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici con la loro conoscenza tradizionale, le loro pratiche ancestrali. Sono in realtà depositari di un credito nei confronti del resto dell'umanità, accumulato nel corso della storia , e che spesso sfugge a facili quantificazioni di carattere economico. Il degrado e la distruzione degli equilibri ecologici degli ecosistema maggiormente impattati dai mutamenti climatici si traduce in infatti in un’alterazione del rapporto “simbiotico” tra popoli indigeni e gli ecosistemi dai quali essi da tempo immemorabile traggono le proprie fonti di sostentamento, nonché alimentano la propria cosmología.

Oltre alle strategie di resistenza sul terreno, i movimenti indigeni di tutto il mondo, coalizzati in reti transnazionali, nel Caucus dei Popoli Indigeni sui Mutamenti Climatici e nel Forum Permanente delle Nazioni Unite sui Popoli Indigeni (UNPFII) seguono in negoziati sul clima, ed elaborano una propria “vision” e piattaforma politica sul tema centrata sui loro diritti fondamentali.

Ad esempio l’Indian Treaty Council, la Confederazione delle Nazioni autoctone degli Stati Uniti, in un suo documento presentato al Consiglio ONU sui diritti umani, svolge un’analisi politica delle cause dei mutamenti climatici, attribuendone la principale responsabilità al predominio di un modello di sviluppo basato sul progresso industriale e sul sistema di mercato, come attraverso la globalizzazione ed il libero scambio che “promuovono la privatizzazione, la mercificazione e l’appropriazione di risorse naturali quali terra, acqua, foreste, e minerali.” Un modello imposto anche contro la volontà dei popoli indigeni, ed in molti casi nonostante la loro resistenza.

Ciononostante, la relazione tra diritti umani, e più in particolare dei diritti dei popoli indigeni, e cambiamenti climatici è solo di recente entrata nel dibattito che accompagna il processo negoziale nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) che dovrà disegnare l’architettura di governo delle politiche climatiche dal 2012 in poi, alla scadenza del protocollo di Kyoto.

Un passo in avanti nell’elaborazione e la proposta politica relativa alla tutela dei diritti umani e dei popoli indigeni in relazione ai cambiamenti climatici è venuta proprio dal sistema delle Nazioni Unite.

L’ONU, IL CLIMA ED I DIRITTI UMANI E DEI POPOLI INDIGENI

Già nella Conferenza delle Parti della UNFCCC svoltasi a Bali nel 2007, il Consiglio ONU per i Diritti Umani (UN Human Rights Council) pose il tema all’ordine del giorno, esortando le parti ed i delegati ad introdurre nelle proprie elaborazioni e proposte un approccio basato sui diritti. Nel suo intervento su “Climate change and Human Rights” la vice Alto Commissario per i Diritti Umani, Kyung-wha Kang affermò che “Certamente i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia diretta ad una serie di diritti umani internazionalmente riconosciuti, tra cui il diritto alla vita, al cibo, alla casa o all’acqua. Anche i diritti umani cosiddetti “procedurali” tra cui il diritto all’accesso all’informazione, alla giustizia o alla partecipazione nei processi negoziali relativi ai mutamenti climatici iniziano ad assumere una rilevanza inedita soprattutto per coloro che soffrono gli effetti dei mutamenti climatici“

Nel 2008 l’International Council on Human Rights Policy pubblicò un dossier dal titolo “Climate Change and Human Rights: a rough guide” nel quale vengono affrontati gli aspetti pratici e metodologici di un approccio ai cambiamenti climatici basato sui diritti, includendo in questi le questioni relative alle attività di adattamento, mitigazione e tutela delle foreste, note con l’acronimo REDD (Reduced Emissions from Deforestation and Degradation)

Nel suo preambolo alla pubblicazione, l’ex Segretario generale della Commissione ONU sui Diritti Umani, Mary Robinson, sottolinea come “La legislazione sui diritti umani è rilevante allo scopo , visto che i cambiamenti climatici provocano violazioni dei diritti umani. Ma una visione basata sui diritti umani può anche essere utile nel affrontare e gestire i cambiamenti climatici”. E poi aggiunge: “la portata di questi problema e delle azioni necessarie per una loro soluzione, vanno ben oltre le sfide che l’umanità ha dovuto finora affrontare. Tuttavia nei sedici anni intercorsi da quando è stata firmata la Convenzione Quadro sui Mutamenti Climatici, i negoziati internazionali sono proceduti a rilento. Abbiamo collettivamente mancato di comprendere le dimensioni e l’urgenza del problema. I mutamenti climatici sono prova dell’esistenza di innumerevoli lacune nella nostra architettura istituzionale e nei meccanismi per la promozione e la tutela dei diritti umani”.

Il rapporto fa anche riferimento alle violazioni dei diritti dei popoli indigeni derivanti da attività di sfruttamento delle foreste: “esiste una lunga storia di abusi sui diritti dei popoli indigeni, connessi allo sfruttamento delle foreste, da parte di governi che affermano i propri diritti su terre senza titolo formale, ed anche da parte di grandi compagnie del legname che a volte usano milizie private. Spesso governi e industriali del legname lavorano assieme (…) Le politiche di tutela delle foreste hanno in alcuni casi limitato i diritti dei popoli indigeni senza però essere accompagnate da eguali limitazioni alle attività di estrazione commerciale del legname”.


FORESTE E CLIMA: DIRITTI INDIGENI CONTRO MERCATO

In realtà il tema dell’intreccio tra diritti dei popoli indigeni e cambiamenti climatici è oggi al centro dell’attenzione in particolare per ciò che concerne le politiche di tutela delle foreste tropicali come modalità per riassorbire le emissioni di gas serra e trattenere carbonio. La questione REDD è entrata a far parte del negoziato sul clima a Bali con la proposta di una coalizione di paesi, la Coalition of Rainforest Nations, con a capo Papua New Guinea e Costa Rica. Attraverso l’inserimento del tema “foreste” nel negoziato climatico quei paesi tentano di riavviare la discussione su meccanismi di tutela e promozione dello sviluppo sostenibile di quegli ecosistemi, ed in cambio ottenere una contropartita economica. Questa può essere sia sotto forma di fondi pubblici, che di compensi derivanti dall’immissione di crediti di carbonio nei mercati globali.

In un certo senso, la Convenzione sui Mutamenti climatici viene usata come “cavallo di Troia” per riavviare un negoziato sulle foreste, che dall’impasse sofferta a Rio de Janeiro nel 1992, ha sempre stentato a prender corpo. Il rischio di questi meccanismi REDD è che da una parte spingerebbero i governi beneficiari ad aumentare il controllo sulle proprie foreste, spesso su terreni che sono di proprietà ancestrale dei popoli indigeni, e mai demarcati, “vendendo” come sostenibili attività tradizionalmente distruttive quali l’estrazione di legname o lo sviluppo di piantagioni monocolturali sotto la formula PES (“Payment for Environmental Services “ ovvero Pagamento di Servizi Ambientali). E dall’altra a identificare tra le cause di deforestazione le pratiche tradizionali di gestione della terra seguite da tempo immemorabile dai popoli indigeni, che verrebbero così privati delle loro forme tradizionali di sussistenza e trasformati in attori economici da immettere nei mercati globali di carbonio.

Non stupisce quindi che una delle preoccupazioni principali dei movimenti indigeni che seguono i negoziati sul clima sia quella di assicurare la tutela ed il riconoscimento delle conoscenze tradizionali, e con esse il ruolo storico dei popoli indigeni in quanto custodi dell’ambiente. E dall’altra assicurarsi che anzitutto vengano tutelati e messi in pratica i loro diritti di sovranità sulle proprie terre ed all’autodeterminazione e che qualsiasi iniziativa che dovesse essere prevista nelle loro terre venga sottoposta al loro consenso previo, libero ed informato.


VERSO UNA PIATTAFORMA SUI DIRITTI ED IL CLIMA

La necessità di riconoscere i popoli indigeni come portatori di diritti (right-holders) piuttosto che come semplici parti in causa (stakeholders) è stata affermata con nettezza nel 2008 dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) che nella sua risoluzione 2429 sui cambiamenti climatici nelle Americhe esorta le agenzie di sviluppo e dei diritti umani delle Americhe a sostenere gli stati nel riconoscere gli effetti avversi dei cambiamenti climatici sulle popolazioni maggiormente vulnerabili e rafforzare la capacità degli Stati di adattarsi in maniera efficiente alle mutate condizioni climatiche. Inoltre impegna i paesi dell’OSA a “esprimere interesse nei progressi fatti in altre sfere, negli sforzi globali per affrontare i cambiamenti climatici, con particolare riguardo alle correlazioni possibili tra diritti umani e clima”

Rispondendo ad appelli e sollecitazioni proveniente di organizzazioni nongovernative, rappresentanti dei popoli indigeni, e studiosi quali Wolfgang Sachs del prestigioso Wuppertal Institute (che già nel 2007 pubblicò un saggio sulla relazione tra cambiamenti climatici e diritti umani ) il Consiglio ONU sui diritti umani (UNHRC) ha poi discusso nel marzo del 2009 un rapporto , che nelle intenzioni del UNHRC, dovrebbe contribuire a definire un approccio fondato sui diritti per il dopo-Kyoto.

Questo documento è il frutto di un processo iniziato nel marzo 2008 quando venne adottata una risoluzione che sottolineava i possibili effetti dei cambiamenti climatici sui diritti umani delle popolazioni che vivono nei paesi insulari cosiddetti “Small Island States” nelle zone costiere e regioni del mondo soggette a siccità ed inondazioni, con conseguente minaccia alle condizioni di vita e di sostentamento della maggior parte delle popolazioni vulnerabili.

Maldive, Comore, Tuvalu, Micronesia ed altri paesi membri proposero che venisse prodotto uno “studio analitico dettagliato delle relazioni tra cambiamenti climatici e diritti umani”. Il Consiglio poi chiese all’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i diritti umani (OHCHR) di svolgere “uno Studio dettagliato sulle relazioni tra cambiamenti climatici e diritti umani da sottoporre al Consiglio prima della sua decima sessione, e messo poi a disposizione della Conferenza delle Parti dell’UNFCCC”.

30 paesi membri, e 14 agenzie ONU hanno inviato il loro contributo, insieme a organizzazioni regionali, istituzioni nazionali per i diritti umani e 18 ONG. Nell’ottobre 2008 poi si tenne una consultazione alla quale parteciparono 150 delegati . Il documento , a differenza di quanto prospettato inizialmente, studia a fondo le conseguenze possibili delle misure di adattamento e mitigazione ai cambiamenti climatici sui diritti umani e dei popoli indigeni, ed allo stesso tempo svolge una disamina accurata degli impatti sui diritti di nuova generazione.

Tra questi vanno ricordati gli impatti dei mutamenti climatici sul diritto all’autodeterminazione. Di conseguenza si esortano gli Stati a tener fede all’obbligo di intraprendere qualsiasi tipo di iniziativa a titolo individuale, o collettivamente, per affrontare e prevenire tale minaccia, ed “evitare quegli effetti dei cambiamenti climatici che possono minacciare l’identità sociale e culturale dei popoli indigeni”.

Oltre ad elencare gli effetti dei mutamenti climatici sui popoli indigeni, il rapporto richiama l’attenzione sull’urgenza di assicurare ai popoli indigeni uno spazio adeguato per poter rappresentare le proprie preoccupazioni e richieste nell’ambito dei negoziati sul clima, ed a livello nazionale, riconoscendo allo stesso tempo l’importanza delle loro conoscenze tradizionali.

Come accennato in precedenza, il rapporto si sofferma anche sulle possibili implicazioni sui diritti umani derivanti dalle misure di risposta ai cambiamenti climatici, tra queste i “biofuel” e le politiche REDD.

Per quanto concerne i “biofuel”, viene sottolineato come “accanto all'impatto degli stessi sul diritto al cibo. Sono state espresse forti preoccupazioni dovute al fatto che l'aumento della domanda di biofuel potrebbe pregiudicare i diritti dei popoli indigeni alle loro terre e culture tradizionali”. Sulle politiche REDD, il rapporto riconosce i rischi derivanti da possibili espropriazioni di terre indigene, e dal reinsediamento delle comunità che le abitano e riprende le raccomandazioni del Forum Permanente delle Nazioni Unite secondo le quali qualsiasi nuova proposta di REDD dovrà “affrontare la necessità di riforme politiche nazionali e globali, … rispettando i diritti alla terra ed alle risorse , all'autodeterminazione ed al consenso libero, previo ed informato dei popoli indigeni coinvolte. “


LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI

Assieme ad altri strumenti e convenzioni sui diritti umani e l'ambiente, quali la Convenzione sulla Biodiversità, la Carta ONU sui diritti economici e sociali, o la Convenzione OIL 169 sui popoli indigeni e tribali, la Dichiarazione Universale (UNDRIP) rappresenta il pilastro principale intorno al quale ruotano le proposte e le rivendicazioni delle organizzazioni e reti di popoli indigeni di tutto il mondo. Ciò vale sia nell'ambito dei negoziati internazionali sul clima che in altre sedi quali la Banca mondiale che attraverso suoi programmi dedicati, svolge un ruolo cruciale nel settore delle riduzioni di emissioni da deforestazione (REDD) attraverso il Forest Carbon Partnership Facilty (FCPF) ed il Forest Investment Program (FIP). Anche le Nazioni Unite hanno sviluppato un loro programma REDD, l'UN-REDD , cogestito da UNDP, FAO ed UNEP ed hanno adottato linee guida per la partecipazione dei popoli indigeni che recepisce in gran parte il dettato dell'UNDRIP, ed il diritto al consenso libero, previo ed informato.

Molti articoli infatti della Dichiarazione sono rilevanti per cio’ che riguarda I cambiamenti climatici ed i loro effetti sui diritti dei popoli indigeni. Tra questi il gia’ citato diritto all'autodeterminazione (art. 3) il diritto alla vita, all'integrità fisica e mentale ed alla sicurezza della persona (art. 7), il diritto a non essere soggetti ad assimilazione forzata o alla distruzione della propria cultura (art. 8), il diritto a non essere reinsediati con la forza dalle proprie terre (art. 10), il diritto al consenso previo informato (Free Prior Informed Consent) (art. 19), il diritto alle terre ancestrali ed alle loro risorse (art. 26), il diritto alla conservazione e tutela dell'ambiente e delle capacità produttive delle terre, territori e risorse (art. 29); il diritto a gestire, controllare, proteggere e sviluppare il patrimonio culturale, la conoscenza tradizionale e le espressioni culturali incluse le risorse genetiche, le sementi e le medicine (art. 31); il diritto a determinare e sviluppare le proprie priorità di sviluppo incluso il diritto al consenso libero, previo ed informato (art. 32)

Benché la stragrande maggioranza (144) degli stati membri dell'Assemblea Generale votarono a favore della UNDRIP nella riunione del 13 settembre 2007, il Comitato ONU sulla Discriminazione Razziale (CERD) chiarì che anche per quegli stati (Canada, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Australia) che votarono contro la dichiarazione, “questa dovrebbe essere utilizzata come criterio guida per interpretare gi obblighi degli stati membri relativi alla tutela dei diritti dei popolii indigeni secondo quanto previsto dalla Convenzione ONU per la discriminazione delle discriminazioni razziali” . Nella prima metà del 2009 l'Australia, che insieme a Stati Uniti, Canada e Nuova Zelanda non ha votato la risoluzione ed ha fatto blocco ad ogni possibilità di considerarla rilevante nella definizione delle politiche climatiche globali, ha annunciato la decisione di adottare la Convenzione. Stessa intenzione avrebbe anche la Nuova Zelanda, mentre si moltiplicano le voci di un'eventuale simile decisione da parte del Presidente degli Stati Uniti,Barack Obama.

Anche il Forum Permanente dei Popoli Indigeni delle Nazioni Unite (UNPFII) ha fatto dell'UNDRIP la base delle sue proposte e rivendicazioni riguardo i cambiamenti cilmatici, Nella sua riunione nel 2008 il tema dei cambiamenti climatici venne messo in agenda dell' UNPFII al fine di fornire ai propri membri la possibilità di illustrare gli effetti dei cambiamenti climatici sulle proprie comunità. Al termine di quella riunione l'UNPFII adottò una serie di raccomandazioni tra cui quella rivolta al Segretariato dell'UNFCCC di creare un meccanismo atto a permettere la partecipazione dei popoliindigeni nei negoziati ufficiali. In seguito, le reti indigeni organizzarono una serie di conferenze regionali sul tema dei diritti dei popoli indigeni ed i cambiamenti climatici, che sio svolsero a cavallo tra il 2008 ed il 2009 e culminarono nella Conferenza internazionale dei popoli indigeni di Anchorage, Alaska (marzo 2009) . La Conferenza di Anchorage approvò una dichiarazione nella quale i popoli indigeni articolano una loro piattaforma politica comune sulla base delle loro esperienze di resistenza, pratiche, e diritti riconosciuti nell'UNDRIP.

La dichiarazione esorta, tra l'altro, i governi membri della Convenzione ONU sui Mutamenti Climatici a diminuire la dipendenza dai combustibili fossili, sostenendo una transizione verso economie fondate sulle energie rinnovabili, e assicurando la sicurezza e la sovranità energetica dei popoli indigeni riconoscendo il debito ecologico e storico dei paesi industrializzati. Accanto ai diritti fondamentali inscritti nelle dichiarazioni ONU e nelle convenzioni internazionali rilevanti, andrà poi assicurato il diritto a partecipare attivamente alla formulazione di politiche globali sul cambio climatico. Tra le proposte quella di istituire un meccanismo istituzionale di partecipazione dei popoli indigeni presso il segretariato della Convenzione Quadro, nei consigli direttivi dei meccanismi di finanziamento delle azioni intraprese sul cambio climatico. Le iniziative REDD dovranno inoltre, come condizione preliminare, assicurare il riconoscimento e l'attuazione dei diritti umani dei popoli indigeni incluso il diritto ala terra, ed ai benefici multipli delle foreste per il clima e gli ecosistemi , mentre gli stati dovranno abbandonare le false soluzioni ai cambiamenti climatici, quali il mercato di carbonio, le piantagioni di biofuel, energia nucleare, grandi dighe.

Da Anchorage i popoli indigeni hanno lanciato un messaggio a tutta la comunità internazionale, volto a riaffermare il loro ruolo storico di guardiani della “Pachamama”, della madre Terra, minacciata da un modello di sviluppo che sta creando le premesse per nuove violazioni dei loro diritti umani e di quelli dell'umanità intera. In tal senso, riaffermare i diritti dei popoli indigeni nelle politiche energetiche e sui cambiamenti climatici , riconoscendo il ruolo fondamentale da essi svolto attraverso le conoscenze tradizionali nella protezione delle foreste e della biodiversità, rappresenta un passo necessario ed ineludibile per costruire un nuovo paradigma economico ed ecologico rispettoso del clima e dei diritti della natura e dei viventi.


(*) responsabile su clima, foreste e popoli indigeni per il Forest Peoples' Programme, organizzazione per I diritti dei popoli indigeni basata in Inghilterra - www.forestpeoples.org

lunedì 6 luglio 2009

La sinistra ed il mondo: quali opportunità per la pace, la giustizia economica ed ecologica, ed i diritti umani in un mondo multipolare.

a cura del Forum politiche internazionali dell'Associazione per la Sinistra
Giugno 2009


L'umanità sta vivendo un periodo di transizione, nel quale tutti gli assunti ed i parametri di riferimento della politica, locale, nazione e globale, vengono messi in discussione dall'irrompere simultaneo di quattro crisi globali, quella economico-finanziaria, quella climatica, quella alimentare e quella energetica. Quattro temi sui quali si giocherà il futuro delle istituzioni di governo globale, le politiche e strategie di sviluppo, cooperazione, solidarietà tra i popoli, e che chiamano le forze progressiste, ecologiste e pacifiste di sinistra ad una forte assunzione di responsabilità.

Contemporaneamente, con la fine dell’era Bush e l’avvio della nuova fase inaugurata dalla presidenza Obama, il declino dell'egemonia politica ed economica degli Stati Uniti, già latente da tempo, nonostante l’approccio imperiale sempre reiterato dai protagonisti della Casa Bianca, sembra assumere contorni più evidenti e netti al punto che, secondo molti osservatori, si prospetta non soltanto la fine - per altro programmaticamente dichiarata da Obama – dell’unilateralismo statunitense ma il possibile avvento di un sistema apolare o multipolare del governo globale. Questo potrà significare che, in futuro, nuovi soggetti (in particolare i paesi BRIC – Brasile, India, Cina, Russia) svolgeranno un ruolo di primo piano a livello mondiale. Ma il declino di una potenza come quella statunitense è destinato a suscitare sul medio e lungo periodo traumi e tensioni di ogni tipo, di cui occorrerà cogliere fin da subito i sintomi e le avvisaglie e a cui sarà necessaria ipotizzare e proporre risposte come Sinistra.

Il cambio di scenario, provocato dall’irrompere della crisi economica e dei suoi effetti devastanti, in primis sugli Usa, e dal contemporaneo cambio di passo della politica statunitense nei rapporti con il mondo, che Obama ha annunciato e ribadisce in ogni occasione, lascia nel frattempo irrisolti tutti i problemi e le contraddizioni del periodo precedente. Col rischio di un loro aggravamento.

Afghanistan e Pakistan, conflitto israelo-palestinese e Medio Oriente, gravemente segnato dalla guerra di Bush junior contro l’Iraq, il nucleare dell’Iran e altro ancora, tra cui la questione della Russia e dei rapporti tra Mosca e Washington: si tratta soltanto di alcuni titoli tra i tanti che affollano l’agenda politica. Abbiamo pertanto la necessità di capire come la nuova amministrazione statunitense intenda affrontare le pesanti eredità del passato mentre cerca una nuova via per riaffermare, nello scenario emergente, un nuovo ruolo e una nuova collocazione da protagonista di primo piano, se non da dominus, degli Stati Uniti. Le due cose stanno evidentemente insieme, costituendo le due facce della stessa medaglia: la prospettiva del declino degli Usa non sarà indolore.

L’intenzione di Barack Obama, ad alcuni mesi dalla sua elezione, appare intanto quella di riaffermare una forte leadership statunitense nel mondo, a partire dall’assunzione del mutamento degli assetti e dei poteri mondiali sul piano dello sviluppo economico e della geopolitica. E’ questo mutamento che impone agli Stati Uniti un deciso spostamento dei propri interessi e della propria attenzione politica verso il continente asiatico e la frontiera del Pacifico.

Va anche sottolineato che con la presidenza Bush il sistema delle Nazioni Unite ha conosciuto uno dei suoi momenti più bui, trovando all’interno del proprio nucleo decisionale (il Consiglio di Sicurezza) un antagonista in grado di svilire ogni tentativo di giustizia che infastidisse non solo gli Stati Uniti, ma anche i Paesi-satellite ad essi collegati, Israele su tutti.
Ciò che oggi si pone come necessità è una riflessione sul ruolo che l’Organizzazione dovrebbe avere nel garantire una giustizia internazionale equa, che non conosca distinzione gerarchica tra Stati; un primo importante passo, indipendente da volontà esterne, sarebbe la ratifica, da parte della nuova presidenza americana, della Corte Penale Internazionale, da cui l’accettazione del Paese ad essere internazionalmente responsabile per crimini contro l’umanità eventualmente commessi dalle proprie forze militari. Questo obiettivo di giustizia equa inserita in un contesto di controllo internazionale deve essere alla base delle proposte di una Sinistra che guardi al mondo con un’effettiva progettualità di pace ed uguaglianza tra i popoli.

Continuità e discontinuità della politica internazionale degli Stati Uniti: sarà questo un approccio analitico opportuno ed efficace per seguire i fatti, capire lo sviluppo della fase che si è aperta, individuare i terreni d’ iniziativa più utili per ricostruire un punto di vista e una pratica politica della nuova sinistra che vogliamo costruire.

Per questo occorre in primo luogo affrontare il problema dell'Europa, di un’Unione Europea che sempre meno riesce ad esprimere una propria visione ed un proprio ruolo e a essere attore politico responsabile delle vicende internazionali.
Neanche di quelle di sua stretta pertinenza, subendo il condizionamento delle strategie statunitensi che la dividono e le impediscono di occupare lo spazio politico proprio della sua dimensione continentale e la ricchezza, le potenzialità positive della sua collocazione regionale e della sua storia: Medio Oriente, Paesi arabi, Mediterraneo, Africa. Gli Stati Uniti hanno sempre guardato all’Europa soltanto come a un’area di libero scambio e circolazione delle merci ma l’Europa stessa non ha fatto nulla per dissuaderli. La sua debolezza storica, oltre che politica e culturale sta in questo.

Una forza di sinistra all'altezza delle sfide globali dovrà essere in grado di leggere, interpretare e problematizzare le dinamiche globali, ancorandole ad una visione ampia delle stesse, ma anche ad un'analisi ed un'elaborazione concreta di proposte e soluzioni che sappiano cogliere il nesso inscindibile tra locale e globale e viceversa, tra crisi dello Stato Nazione e sua massiccia riapparizione nelle forme di erogatore di ricette e risorse per il salvataggio in primis dello stesso sistema finanziario che è all’origine della crisi.

Le conseguenze devastanti dell'applicazione pedissequa del credo e della dottrina liberista hanno progressivamente alterato la stessa ragion d'essere delle entità statuali.

Le decisioni prese in questi mesi dalla comunità internazionale per affrontare la crisi finanziaria, di cui si continua ad occultare o minimizzare la devastante dimensione economica e sociale, e l'uso di ingenti risorse pubbliche per il salvataggio di coloro che ne sono stati i primi artefici dimostrano un fatto incontrovertibile. Quella che si profilava come l'opportunità di rivedere e rielaborare nuovi modelli di governo globale dell'economia, più equi e solidali si è invece trasformata in occasione per ribadire il ruolo centrale delle stesse istituzioni finanziarie che in buona parte hanno costruito le premesse per il fallimento economico, ecologico e sociale del modello neoliberista. Al club esclusivo del G8 si è sostituito il G20, mentre le Nazioni Unite, sono state nuovamente marginalizzate dal Fondo Monetario Internazionale dalla Banca Mondiale, alle quali è stato attribuito il ruolo guida nella gestione della crisi finanziaria ed il rilancio di un “nuovo deal “ su scala planetaria.

Allo stesso tempo lo Stato nazione continua ad incentrare il proprio agire non sul perseguimento del bene comune bensì sulla trasformazione dello spazio pubblico in spazio di interessi privati e di elite. Con la crisi del modello di crescita e di sviluppo, emergono nuove spinte nazionaliste, etniche, religiose che vorrebbero rifondare lo Stato nazione su basi esclusive e pratiche identitarie ed escludenti.

Indagare quest' elemento sarà uno dei compiti più ardui ma necessari per noi, perché s' intreccia con la questione delle migrazioni e del governo di una società ormai fortemente caratterizzata dalla diversità culturale ed etnica, che richiede nuovi strumenti di interpretazione dei fatti e nuove pratiche sociali e politiche atte a costruire prossimità tra le diversità e solidarietà nella convivenza umana.

E' importante a tal riguardo sottolineare il possibile nesso virtuoso tra rilancio urgente della cooperazione internazionale e migrazioni, in quando questo ha le potenzialità per costruire un nuovo percorso che attraverso la politica, la progettazione e la produzione di strumenti culturali sappia combattere le forme di xenofobia e razzismo “democratico” dilaganti nel nostro paese. E dare ai migranti che oggi vedono i loro diritti umani e di cittadinanza negati da un'ossessione securitaria che nega loro la possibilità di costruire un progetto di vita, la possibilità di contribuire alla crescita sociale ed umana nei loro paesi d'origine.

Una sfida questa che, assieme a quella del riconoscimento dei diritti di cittadinanza per le seconde generazioni, richiede di sviluppare una forte critica del tradizionale eurocentrismo di parte della sinistra tradizionale, andando anche oltre il classico concetto di multiculturalità.

Occorre insomma uno sguardo post-coloniale e una pratica adeguata che ci aiuti a costruire un nuovo orizzonte dell’uguaglianza nella diversità e nella libertà. Il rischio di cadere in un relativismo etico indifferenziato deve essere affrontato e contrastato a partire dalla realtà che viviamo e non da certezze ideologicamente precostituite o supponenze culturali o, peggio, verità rivelate.

La perdita di monopolio della politica estera da parte degli Stati è un altro aspetto da tenere al centro della nostra riflessione.

Entità non-statuali o sovra statuali come il Fmi, il Wto, la Banca Mondiale, il G8, il G20 sottraggono potere decisionale e esercizio di controllo e di indirizzo ai Parlamenti nazionali ma nello stesso tempo altre realtà quali, da una parte, le imprese transnazionali, dall’altra anche le autorità locali, la società civile transnazionale, i movimenti sociali del Forum Sociale Mondiale, forme di cittadinanza globale solidale e responsabile, hanno ormai guadagnato un ruolo di primo piano nella formazione e produzione di politica internazionale.

Per questo quando parla di politica estera la sinistra dovrà oggi aver ben chiaro quale sia il nesso virtuoso tra attori tradizionali e nuovi per costruire attraverso lo stesso nesso una proposta politica incentrata su valori fondanti imprescindibili.

Pace e prevenzione nonviolenta dei conflitti, critica di ogni forma di interventismo militare o paramilitare “umanitario”, disarmo, giustizia economica, ecologica, redistribuzione della ricchezza, solidarietà internazionale, cancellazione del debito estero e riconoscimento del debito ecologico, promozione e tutela dei beni comuni, centralità dei diritti fondamentali: queste dovrebbero essere le ascisse lungo le quali sviluppare e praticare una nuova politica estera. Un percorso che dovrà accompagnare, nella ricerca e nell'approfondimento, l'azione, l'iniziativa politica concreta.

Giacché sarà solo attraverso pratiche nuove, e l'elaborazione di un nuovo paradigma di giustizia ed equità globale che sarà possibile costruire le basi per una pacifica convivenza, trasformando quelle che oggi la comunità internazionale percepisce e gestisce come minacce in occasioni ed opportunità per un mondo migliore, capace di futuro.

sabato 4 luglio 2009

Appello per il ritiro delle truppe dall'Afghanistan

L'Associazione Per la Sinistra chiede il rientro delle truppe italiane dall'Afghanistan!
L’articolo 11 della nostra Costituzione è stato violato più volte. Basti ricordare i bombardamenti su Belgrado. Ma oggi è la prima volta dalla fine della Seconda Guerra mondiale che l’Italia è impegnata con forze ingenti in una vera e propria azione bellica sul campo. Succede nelle province di Farah, in Afghanistan, al confine con la grande e popolosa area di Helmand, dove più cruento e più decisivo è lo scontro tra i Taleban e la Nato. Le truppe italiane sono passate all’azione diretta ad ampio raggio dalla fine di maggio: mille uomini impegnati nei combattimenti e altri duemila di supporto. Siamo nel pieno di una strategia bellica preventiva che la Nato mette in campo per impedire che i Taleban entrino in gioco ed ostacolino o intralcino le elezioni presidenziali di agosto.

Non possiamo far finta di niente e lasciare che le cose peggiorino ogni giorno di più, nell’indifferenza di tutti.

La missione militare italiana in Afghanistan ha perso definitivamente ogni carattere di missione di aiuto e soccorso alla popolazione civile.
E’ sempre stata in realtà un’operazione di condivisione della guerra che gli Stati Uniti stanno conducendo in quel Paese: una missione fin dall’inizio con prevalenti compiti di controllo militare del territorio e di sostegno dell’Italia alle operazioni della Nato. Oggi quel sostegno perde ogni infingimento e si mettono da parte tutti quei caratteri di peace keeping e nation building che hanno permesso in tutti questi anni ai vari governi italiani che si sono succeduti (di centrosinistra e di destra) di presentare la partecipazione italiana all’Isaf come una missione volta a ristabilire la pace, la democrazia, i diritti.
Il governo Berlusconi ha posto fine a ogni incertezza, a ogni tentativo - sperimentato fino a ieri - di mantenere le truppe italiane in una posizione defilata rispetto all’impegno diretto sul campo. E ha deciso di condividere la scelta del Pentagono e del presidente Barack Obama - che sull’Afghanistan rivela un drammatico vuoto di strategia politica - di isolare la regione di Helmand, il cuore dell’etnia pashtun, oltre che dei fondamentalisti in armi. Regione che l’Italia aveva avuto in affidamento con finalità di nation building e dove l’insofferenza e l’ostiluità della popolazione locale per le truppe occupanti, comprese quelle italiane, non potrà che aumentare. Molti episodi, che la stampa ignora o tratta in poche righe, lo stanno a testimoniare.
Siamo a questo punto: l’Italia fa la guerra senza che neanche se ne parli nelle sedi dovute, senza che il Paese sappia la posta in gioco e conosca le ragioni.

Noi che sottoscriviamo questo appello siamo stati sempre contrari alla partecipazione del nostro Paese alla guerra della Nato in Afghanistan e oggi siamo molto preoccupati dell’escalation che sta avendo.
Facciamo appello affinché venga rispettato l’articolo 11 della Costituzione repubblicana. Chiediamo che il Parlamento tenga conto degli atti parlamentari che hanno sempre escluso che la partecipazione italiana alla missione Isaf in Afghanistan avesse una natura e una finalità di guerra. Facciamo appello affinché le truppe italiane vengano richiamate immediatamente nel nostro Paese e l’Italia si faccia carico presso l’Unione europea, l’Onu e la presidenza Obama di un’iniziativa volta a ricercare una soluzione di pace.

Primi firmatari:

Elettra Deiana, Titti De Simone, Arco Jannuzzi, Francesco Martone, Giorgio Mele, Pasqualina Napoletano, Silvana Pisa.

Nota: da oggi è possibile aderire all'appello anche inviando una mail (con dati anagrafici e professione) all'indirizzo appelloafghanistan@gmail.com

lunedì 9 febbraio 2009

Notes from presentation on the Permanent Peoples’ Tribunal and strategies to dismantle TNCs held at the World Social Forum, Belem, January 2009

Francesco Martone - Permanent Peoples’ Tribunal

Let me start my presentation by quickly saying that I am not going to talk about Transnational Companies here, but rather propose that we change our approach, focussing on the issue that to me is more relevant in this WSF, notably how to reclaim, recostruct, give meaning to, a new public space.

In this sense, the point should be stressed that the Permanent Peoples’ Tribunal work is a process, an event and a tool for further action. The PPT, notably in its most recent articulations (Capitulo Colombia and TNCs), has - in fact - been an important tool to visualize struggles, protect communities and to explore and identify shortcoming and challenges of the current international legal regime. The May 2008 Lima sentence, in fact, resulted in the articulation of a two-pronged approach, one related to the behavior of TNCs and the other on the ways and means to rebuild a role for the State, and public sphere.

Capitalizing on the PPT process would hence mean that the issue under discussion in this workshop, notably Transnational Companies, be tackled in an innovative way.
The issue here is that of asking ourselves the question of whether we are really interested in making sure that TNCs operate well, within a specific context dictated by neoliberal assumptions and rules, or rather whether our work on TNCs is - by default - a political action aimed at articulate a new concept of public politics, by somehow “reclaiming the commons”.

Hence the three questions that should guide our analysis are:

a. how do we reclaim the centrality of rights in the broader sense of the term (including new generation human rights)? How do we assess what we have lost in terms of rights in the neoliberal decades, and what can we salvage to reconstruct a rights-based system?

b. what are the gaps and opportunities in the current debate on global crises? Would we define an exit strategy from the crisis that in a way replicates the same assumptions, or would we rather invent a new model?

c. how to reclaim public space? What is a public space and how do we keep TNCs out of this?

These three questions provide also guidance to critically assess the current mainstream solutions proposed to the crisis, be them a new role for the State, or what was described as the New New Deal, whereas public resources are increasingly used to rescue and bail out financial institutions with no ensuing public benefit, but rather an exacerbation of the crisis itself. The case of the bailout of UK banks and the restriction to access to credit is a case in point.

In a way we can notice that also in tackling the crisis, the State’s original attributions have substantially changed and transformed themselves . State and governments still consider the private interest of the few as equal to the common public interest, thereby revitalizing an exit strategy to the crisis that is based on a new version of corporate welfare.

In this sense, public space is meant as an opportunity to spread and socialize risks, through the use of public funds for bailouts. Furthermore, the urgency to reactivate economy and consumption, in line with the dominant growth, GNP-based paradygm will result in further support to the private sector and TNCs through tax breaks, subsidies and support for neokeynesian-style public expenditure in infrastructures, etc.

In this context, strictly dealing with TNCs might lead us away from the current point of discussion, notable the need to address systemic issues related to the market, resource extraction and use and the intersection between the activities of the private sector and solutions currently proposed to the global crises.

This would mean that it might be worthwhile exploring the possibility of taking advantage of the current discussion on the new financial order, with a view to address some systemic issues, while keeping the space open for more targeted work directly confronting TNCs operations.

For instance, linking up with CSOs and social movements working on the financial crisis, we could address the role of the World Bank and ICSID within the broader discussion leading to the announced UN Conference on the Reform of IFIs and within the UN Task Force on Financial Crisis.. At the same time some of the PPT Lima recommendations can well fit in, for instance those related to the establishment of a Tribunal on Ecological and Economic Crimes and/or the call for the appointment of a UN Special Rapporteur on Illegittimate and Ecological Debt. The latter can also provide a useful opportunity for alliances with the Ecological Debt networks that are currently advocating for a UN protocol on Ecological Debt.

Parallel to that we could articulate work in support of communities affected by specific TNC activities. This means that the strategy could entail - on the one hand -use of legal instruments and litigation, and on the other the development of a more “political” platform. Litigation can be an important tool to reclaim community rights, seek justice and restitution of the ecological and social debt. The follow-up to the TPP Capitulo Colombia offers an interesting example of this two-pronged strategy.

As far as a possible political platform is concerned, this would aim at creating the pillars and conceptual framework for “reclaiming” a new public space. There is no blueprint for this exercise, but rather some concepts that require going much beyond the traditional pattern of liberal State. In order to do so, we can resort to the concept of “commons”, a concept that cannot be defined per se, but rather by exclusion (i.e. the commons are inalienable and not subject to market regimes, hence unavailable to the private sector) and by process (i.e. the commons cannot be managed by State alone, but rather by a new combination of citizen control and participation that hybridates the traditional State structure).

A final element of discussion is related to the other global crisis, notably the climate crisis. As a matter of fact, the risk exists that the neoliberal paradygm would be revamped as a win-win solution to the climate crisis, shifting the discussion on a relatively intact field. Neoliberalism has proven its failures in terms of development and financial crisis prevention, but could still be appealing to many as a provider of win-win market-based solutions to climate change. Some observers have already described the Climate Change debate as a new “Washington Consensus” . In this context we can already notice how the private sector (oil, mining, infrastructure, forestry, carbon traders) are already playing a key role.

The new frontier of privatization and TNC expansion, therefore, seems to be that of atmospheric rights, through carbon trading, that in a way provides an indirect subsidy to TNCs to continue operating in their business as usual, plundering resources and accumulating a huge ecological and social debt for the rest of Humankind.

As far as Latin America is concerned, the link between TNC investments in biofuel, or in Clean Development Mechanisms or in large scale hydro, shows that clean energy can be a good Trojan horse for resource privatizazion and compression of fundamental rights.

Climate Justice therefore provides new lymph to the discussion on a new public space, of how to reclaim the commons, restitute ecological and social debt needs to be articulated. A priority that would enable building new and innovative alliances with a broader segment of social movement in the Global North and Global South.