martedì 26 aprile 2016

Il colonialismo del carbonio ed i diritti dei popoli

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Per il Manifesto, 27 Aprile 2016 

Il marzo scorso è stato il più caldo da quando si è iniziato a misurare la temperatura. Se ciò non bastasse, a poche ore dalla cerimonia di firma dell'Accordo di Parigi,  avvenuta il 22 aprile scorso,  la NASA ha informato  che   le emissioni di gas serra provocheranno un aumento della temperatura oltre i 1,5 gradi, soglia più o meno definita nell'Accordo adottato alla COP 21 del dicembre scorso. Benvenuti  nell'era dell'Antropocene, una realtà di siccità, sconvolgimenti dei cicli della Terra, perdita di terra, biodiversità, cibo, acqua e rifugio. Una situazione che imporrebbe -  attraverso una visione “decolonizzata” non certo “catastrofista” – di mettersi dalla parte di chi subisce gli effetti del “climate change”, considerando queste comunità e  popoli non come vittime, ma come portatori di diritti fondamentali, alla sopravvivenza ed alla vita. Tuttavia a  Parigi i governi hanno   solo riconosciuto ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani lasciando aperto  un fronte di lavoro ed iniziativa urgente per evitare che gli ingenti flussi di risorse finanziarie che  verranno stanziati per programmi di adattamento e mitigazione non finiscano per aggravare ulteriormente la già tragica situazione di milioni di persone. 

Basti pensare  all’espansione della palma da olio per biodiesel. O al   BECCS (“Bioenergy Energy Carbon Capture and Storage”), “escamotage” per aumentare la capacità di assorbimento di carbonio della Terra coltivando biomasse per la produzione di bioenergia con capacità di stoccaggio e cattura di carbonio. Il BECCS aprirebbe una nuova ondata di “landgrabbing” su almeno 700 milioni di ettari di terra. Il paradigma economico di mercato  entra così nuovamente in collisione con quello basato sui diritti umani, delle comunità e  della Madre Terra. Un’ incompatibilità che caratterizzerà  i prossimi anni  fino al 2020 quando l'Accordo di Parigi entrerà in vigore.  Eppoi, chi implementerà gli accordi , e come?  Parigi ha sancito  il ruolo centrale del Fondo Verde per il Clima (“Green Climate Fund”) istituzione che assicura un ruolo cardine per imprese, banche pubbliche e private nell’attuazione delle politiche climatiche. E tra queste, banche quali l'HSBC (che dal 2010  ha erogato almeno 5.4 miliardi di dollari  solo nel settore carbonifero) o istituzioni come la Banca Mondiale. Ai paesi ed alle comunità resta il compito di disegnare la cornice nella quale spendere tali fondi, o accontentarsi delle briciole. 

Per dare un'iniezione di fiducia alla comunità internazionale, quest’anno il Fondo spenderà circa 2,5 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale rispetto allo scorso anno,  senza disporre  di strutture adeguate per la valutazione del possibile impatto socio-ambientale dei progetti, né di politiche vincolanti sui diritti umani o sul diritto alla terra. Per chi conosce la storia di una delle più grandi Banche Multilaterali di Sviluppo, la Banca mondiale, questa “pressione all’esborso” è stata foriera di grandi disastri e di un’altrettanto grave perdita di credibilità. Tra i prossimi progetti a rischio  del Fondo  molti saranno nelle foreste tropicali o in aree contigue. 

Non è un caso, visto che  Parigi  ha sottolineato con enfasi il  ruolo delle foreste nella mitigazione ai cambiamenti climatici, e l’urgenza di rilanciare programmi di riduzione di emissioni da deforestazione, e immissione nei mercati globali di  certificati di carbonio. Così il Fondo Verde, su pressione di alcuni tra i principali donatori quali la Norvegia, ansiosa di poter neutralizzare le proprie emissioni da combustibili fossili, potrebbe finanziare prima della COP22 di Marrakech del dicembre prossimo - progetti forestali al fine di produrre certificati di carbonio per compensare le emissioni altrui. Evidente il rischio di alimentare nuove bolle speculative sui mercati di carbonio, proprio quando arriva la notizia di una nuova imminente bolla speculativa collegata alle attività di “fracking” e la produzione di gas e petrolio di scisto.   

E’ questo il lato oscuro che la vulgata “mainstream” sul cambiamento climatico  decide di occultare o sfumare secondo convenienza, e che i movimenti globali per la giustizia climatica intendono portare alla luce del sole, non solo opponendosi all’estrazione di gas e petrolio, ma anche denunciando forme di nuovo colonialismo. Quello del carbonio, che ridisegna geografie di inclusione ed esclusione, decide che territori e comunità già impattate dai cambiamenti climatici   vengano  subordinate agli interessi delle imprese e dei vari Nord del mondo. La strada verso la giustizia climatica e l’equità, il riconoscimento dei diritti dei popoli e della Madre Terra resta lunga. L’altra, quella delle  ipotetiche buone intenzioni, rischia di portarci dritto all’inferno.

giovedì 14 aprile 2016

Israele-Palestina, 20 anni che sembrano un secolo



Cinque anni sono trascorsi dall'omicidio di Vittorio Arrigoni, uomo di pace. Una coltre di fumo da parte della politica mainstream sembra essere calata su un pezzo di Medio Oriente se non fosse per alcuni sporadici segnali di attenzione da parte dei media ogni qualvolta si registra un fatto, o un atto grave, quale l'uccisione a sangue freddo di un ragazzo palestinese da parte di un soldato israeliano. Magari rimarcando, come quasi a giustificarne l'esecuzione, un'ipotetica intenzione terrorista della vittima. Un caso che richiama l'attenzione sulle esecuzioni extragiudiziali, pratica sempre più comune: da settembre dello scorso anno sono stati registrati ben 200 casi di esecuzioni sommarie da parte delle forze di sicurezza israeliane. 

Da ottobre 2015, 30 sono stati gli israeliani uccisi in circa 300 episodi. La Palestina soffre, e continua a soffrire, e la diplomazia internazionale fatica a rilanciare un'iniziativa concreta di pace, mentre l'iniziativa politica del governo italiano sembra segnare il passo se non risultare inesistente. I dati sono assai allarmanti. Secondo un recentissimo documento di Oxfam International, negli ultimi mesi - nonostante le dichiarazioni di condanna fatte dall'Unione Europea al riguardo - le demolizioni di case palestinesi sono passate da 82 a gennaio 2015 a ben 235 a febbraio 2015 ed hanno avuto effetti su 4659 persone, la metà delle quali bambini. A oggi sono 11.134 le richieste di demolizione ancora non effettuate, mentre procede senza sosta la progressione degli insediamenti, anche a Gerusalemme Est. La ragione è semplice: ottenere permessi per costruire è reso sempre più difficile dalle autorità israeliane e così ai palestinesi non resta altro che costruire illegalmente, in particolare nell'area C della Cisgiordania sotto completo controllo israeliano, come denunciato di recente dall'Israeli Commitee against House Demolitions (ICAHD).

La stessa organizzazione calcola che dall'inizio dell'occupazione nel 1967 siano state distrutte almeno 28mila abitazioni palestinesi. Secondo l'associazione israeliana per i diritti umani B'tselem, lo scopo finale è quello di espellere tutti i palestinesi dalla zona C della Cisgiordania e di fatto annetterla ad Israele.

Come stigmatizzato da Francia e Germania in un loro comunicato di condanna, questo per Israele significa abbandonare del tutto la formula "due Stati per due popoli". La sistematica aggressione al diritto alla casa rappresenta solo l'aspetto più evidente di una situazione di costante violazione dei diritti umani, come riaffermato dal Consiglio ONU sui diritti umani in una sua Risoluzione del 24 marzo scorso, nella quale si esprime "grave preoccupazione per la continua e sistematica violazione dei diritti umani del popolo palestinese da parte di Israele, potenza occupante". Per contro, come nel caso di Richard Falk, allora relatore ONU per i diritti umani nei territori occupati, anche il suo successore, l'indonesiano Makarim Wibisono si è visto costretto a rassegnare a gennaio le sue dimissioni vista l'impossibilità di svolgere il suo compito a causa della mancata collaborazione da parte delle autorità israeliane che gli proibirono l'accesso ai territori. A Gaza la situazione resta drammatica a due anni dalla guerra che distrusse o danneggiò seriamente 18mila abitazioni. Di quelle, solo 3mila sono state ricostruite. Secondo quanto reso pubblico nei giorni scorsi dall' Ufficio di Coordinamento ONU per gli Affari Umanitari (OCHA) , almeno 75mila palestinesi, di cui circa 44mila bambini, sono profughi nella loro stessa terra, Internally Displaced Persons (IDP) nel gergo delle Nazioni Unite.

Nel mentre la diplomazia internazionale sta cercando di riannodare le fila del negoziato. L'11 marzo scorso l'Autorità Nazionale Palestinese ha fatto circolare informalmente una bozza di risoluzione destinata al Consiglio di Sicurezza nella quale si chiede all'ONU di esigere il blocco degli insediamenti a Gerusalemme Est, in Giudea e Samaria, e di impegnarsi in un nuovo sforzo nei negoziati di pace, e fissare la scadenza di un anno entro il quale giungere ad una soluzione di coesistenza pacifica tra Israele e Palestina. Abu Mazen ha incontrato vari capi di Stato e di governo per poi volare al Palazzo di Vetro, dove ha assistito alla cerimonia nella quale per la prima volta è stata issata - fatto storico - la bandiera di Palestina, Stato non membro ma osservatore nelle Nazioni Unite. La reazione di Netanyahu non si è fatta attendere: nessun negoziato multilaterale, solo colloqui bilaterali. Ciononostante nelle scorse settimane la Francia si è incaricata di un'iniziativa di mediazione tra le parti, al fine di riaprire un tavolo di negoziato, lavorando di sponda con l'Egitto e con la Lega Araba. Che l'eventuale fallimento di questo ennesimo tentativo possa poi portare - come dichiarato a suo tempo dall'allora ministro degli Esteri Laurent Fabius - al riconoscimento automatico della Palestina da parte della Francia, è ancora tutto da vedere, vista la querelle che la questione ha sollevato tra Parigi e Tel Aviv, divenuta ormai allergica a simili iniziative nel quadro multilaterale. L'iniziativa francese, che dovrebbe culminare con una conferenza tra le parti a Parigi a luglio, con la partecipazione dei membri del Consiglio di Sicurezza e la Lega Araba, ha ottenuto il sostegno di Giappone e Unione Europea ed è il primo tentativo di riannodare la trattativa dopo la battuta di arresto due anni fa nell'aprile 2014.

L'altro punto "caldo" nelle relazioni tra Israele e Palestina, e riguardante il ruolo della comunità internazionale a sostegno e soccorso dei profughi palestinesi, riguarda la crisi ormai conclamata dell'UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East), ormai con le casse a secco dopo il mancato versamento di contributi (per un totale di 101 milioni di dollari) da parte di vari paesi donatori. Una situazione non dovuta al caso, ma ad una sistematica campagna di delegittimazione dell'UNRWA da parte di Israele, volta a minarne la credibilità e l'imparzialità, fino al punto di accusare l'agenzia di connivenza con il terrorismo. Fatto sta che chiudere l'UNRWA, il cui mandato è stato rinnovato dall'ONU fino al 2017, anzitutto significa per Israele conseguire un risultato simbolico non di poco conto. L'agenzia venne infatti istituita in seguito al conflitto arabo-israeliano del 1948, quello che segnò l'inizio della Nakba ("Catastrofe" in arabo): l'esodo forzato, l'espulsione di migliaia e migliaia di palestinesi dalle loro terre, oggi nei campi in Libano, Gaza, Giordania, Cisgiordania e Siria.

Chiuderla significherebbe simbolicamente mettere un punto su un pezzo di storia e su una delle questioni calde nelle relazioni tra Israele e Palestina, ossia il riconoscimento delle responsabilità della Nakba ed il diritto al ritorno. In termini più concreti, la crisi finanziaria dell'UNRWA significa la negazione del diritto dei bambini e bambine palestinesi all'educazione. Si calcola infatti che l'UNRWA gestisca almeno 700 scuole nei campi profughi, impiegando 22mila insegnanti in situazioni di grande sovraffollamento. E non solo: l'UNRWA gestisce anche l'assistenza sanitaria e di recente in Libano la crisi dell'Agenzia aveva portato a considerare la possibilità di addossare ai rifugiati palestinesi parte delle spese per le prestazioni sanitarie erogate. Immediata la protesta dei capi delle organizzazioni dei rifugiati e la risposta dell'UNRWA che si è impegnata a sospendere questo protocollo fino al 21 aprile prossimo. Restano le critiche di gran parte delle organizzazioni palestinesi, che sottolineano come l'interpretazione restrittiva del mandato di protezione dell'UNRWA di fatto le precluda la possibilità di assicurare tutela fisica e legale alle migliaia e migliaia di profughi palestinesi.

Questo quel che succede in Palestina, sulla scia di quella che da più parti viene descritta come "terza Intifada": ennesimi tentativi di una soluzione negoziale al conflitto e la lenta ed inesorabile avanzata degli insediamenti, del Muro e delle demolizioni di abitazioni palestinesi. Come se ci fossimo assuefatti alla tragedia, nel frattempo la Palestina e il suo popolo scompaiono dal gioco delle strategie e dei posizionamenti tattici degli Stati. Solo attivisti e associazioni per i diritti umani coraggiosamente provano a squarciare con le proprie iniziative di solidarietà, supporto e mobilitazione - quali la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni su Israele) - questa coltre spessa, non certo casuale, che allontana i destini della Palestina dall'agenda della politica internazionale tutta presa ora a contrastare Daesh. Spetta a tutte e tutti noi non permettere che il popolo palestinese diventi un refuso della politica internazionale.

Quanto sia complicato provare a ricostruire la trama di un progetto di pace anche con la società civile israeliana ce lo ricorda in una sua splendida installazione-mostra al MAXXI a Roma sull'assassinio di Rabin, il registra israeliano Amos Gitai, ("Chronicle of an Assassination Foretold" - Cronaca di un Assassinio Annunciato). Egli contrappone - a simboleggiare un dialogo quasi impossibile - le immagini video di due comizi: l'ultimo di Rabin con parole di pace e distensione, e quello di un giovane Bibi Netanyahu che incitava il pubblico contro Rabin, ottenendo dalla folla risposte che invocavano l'uccisione del leader laburista. Sono passati venti anni, che sembrano un secolo.

http://www.huffingtonpost.it/francesco-martone/israele-palestina-20-anni-che-sembrano-un-secolo_b_9689358.html

mercoledì 6 aprile 2016

Disobbedire al petrolio

 Editoriale de il Manifesto, 10  aprile 2016
 
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Keep the oil under the soil”. Lasciamo il petrolio   sottoterra, urlavano gli attivisti di mezzo mondo a Parigi  poco prima dell’inizio della Ventunesima Conferenza delle Parti sui Cambiamenti Climatici, la COP21.  E’ un movimento globale per la giustizia climatica,  una realtà reticolare, che lega comunità e organizzazioni del Nord e del Sud del mondo. L’idea di mantenere il petrolio sottoterra nacque in Ecuador, paese assai dipendente dall’oro nero. 
“Yasunizzare”, dal nome del parco Yasuni, riserva biologica sotto la quale si trovano importanti giacimenti petroliferi, significava lasciare il petrolio sottoterra, optare per un’altra via, quella del riconoscimento del debito ecologico, e della promozione di energie alternative. Quel petrolio non estratto avrebbe rappresentato un patrimonio in termini di emissioni evitate e protezione della biodiversità, in cambio del quale la comunità internazionale si sarebbe impegnata creare un fondo internazionale per la tutela di Yasuni e la promozione di energie rinnovabili. Non se ne fece nulla, ed oggi le compagnie petrolifere straniere stanno accaparrandosi quelle concessioni ed altre nelle terre dei Sarayaku, o del popolo Sapara, che  difenderanno con i denti la loro terra. Dall’Amazzonia all’azione di disobbedienza civile contro la megaminiera di carbone di Ende Gelaende, alle mobilitazioni dei Mohawk a Montreal contro la Transcanada Pipeline,  è un susseguirsi di azioni, iniziative, mobilitazioni. Era stato detto a Parigi e fatto seppur simbolicamente: tracciare una linea rossa,  oltre la quale sarebbe scattata la disobbedienza civile di massa, per tutelare un bene prezioso, l’equilibrio dell’ecosistema, e la salute delle generazioni a venire.   
 E’ il riconoscimento dei diritto alla resistenza civile nonviolenta per tutelare i “commons” che ispirerà migliaia e migliaia di attivisti che in ogni parte del mondo si mobiliteranno per un’intera settimana ai primi di maggio nell’azione globale “Break Free from Fossil Fuel”. Sono previste azioni dirette nonviolente presso siti di estrazione ed infrastrutture petrolifere ed in sostegno a fonti energetiche pulite in Australia, Brasile, Canada, Germania, Indonesia, Israele/Palestina, Nigeria, Filippine, Sudafrica, Spagna, Turchia, e Stati Uniti. Lasciare il petrolio sottoterra significa mettere sé stessi tra la Terra ed il cielo, prendere posizione dalla parte del cielo e della Terra, e produrre “dal basso” uno shock necessario per invertire la rotta. Come sottolinea in un importante articolo la rivista Nature,  per provare a contenere l’aumento della temperatura globale entro 2 gradi centigradi ai livelli preindustriali sarebbe urgente rinunciare ad un terzo delle riserve petrolifere, la metà di quelle di gas e l’80 per cento del carbone entro il 2050. (si noti bene che a Parigi ci si è impegnati “in linea di massima” a contenere l’aumento della temperatura a 1,5 gradi).    Invece le imprese transnazionali del settore continuano a investire cifre ingenti nella ricerca e prospezione, spendendo ogni anno qualcosa come 800 miliardi di dollari alla ricerca di nuovi giacimenti contro i 100 miliardi impegnati dalla comunità internazionale in sostegno al Fondo Verde per il Clima. Non tutte però: accanto alla disobbedienza civile dei movimenti è cresciuto progressivamente il movimento per il disinvestimento, al quale di recente si è unita anche la potente famiglia Rockefeller, magnati del petrolio per eccellenza.   
Ed a casa nostra? La crescita del movimento globale per la giustizia climatica, la settimana di azione contro i combustibili fossili di maggio, le campagne di disinvestimento dimostrano che anche in Italia ci potrà essere vita dopo il referendum contro le trivelle. Un sì deciso significa quindi non solo un no alla distruzione della bellezza, o delle coste, è un sì alla necessaria ed urgente transizione ecologica, un piccolo passo verso la progressiva uscita dal petrolio, un tassello in più per connettere le vertenze locali in un movimento globale che si fa sempre più forte.