Elettra Deiana, Francesco Martone
La tragedia siriana dura ormai da mesi, senza che né le Nazioni Unite, né “potenze” vecchie e nuove, né i paesi arabi direttamente interessati , né tanto meno l’Unione Europea siano state finora in grado di proporre una via d’uscita. Per questo la recente pubblicazione della lettera del Presidente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nella quale si annuncia il sostegno di tutto il Consiglio al piano di sei punti dell’inviato speciale Kofi Annan, e la missione di quest’ultimo in Cina e Russia di questi giorni, possono aprire la strada ad una transizione negoziata. Certamente non automatica né di facile realizzazione, se tutte le parti contendenti non se ne assumeranno la responsabilità attraverso un’ immediata cessazione delle ostilità, accompagnata dall’impegno della comunità internazionale a garantirne il mantenimento. Solo così si potranno porre le basi per un processo di transizione politica e democratica, che non sarà tale, tuttavia, se non verranno prese in dovuta considerazione la complessità del conflitto e le sue cause.
All’inizio nata come spontanea rivolta di popolo contro il regime tirannico di Assad, sull’onda delle primavere arabe, la rivolta si è via via caricata di altre valenze, dovute all’entrata in campo di altri soggetti e di interessi politici ed interlocuzioni diverse e tra di loro contraddittorie. Dai paesi arabi, Qatar in testa, pronti a sostenere l’opposizione armata, alla Turchia preoccupata della sicurezza delle proprie frontiere già provate dal conflitto in Kurdistan, al combinato disposto di ciò con l’incombente rischio di un’escalation militare occidentale verso l’Iran, ai rischi di conseguente instabilità in Libano. Anche la cosiddetta comunità internazionale non è andata oltre una “cacofonia” di fondo (come l’ha definita l’International Crisis Group) , con la UE concentrata solo sulle sanzioni, Sarkozy preoccupato per la sua campagna elettorale, la crisi economico-finanziaria in Europa, ed un basso profilo mantenuto dalla Casa Bianca verso la Siria, concentrato com’è Obama su Teheran . Dall’altra parte Russia e Cina determinate ad impedire qualsiasi forma di ingerenza politica o militare per rimuovere un alleato storico. Per non dimenticare la disomogeneità delle forze di opposizione, divise in più fazioni, all’interno della Siria ed all’estero, e formazioni armate fuori controllo.
Così, per l’ennesima volta, la scena mondiale è stata dominata dall’inerzia delle Nazioni Unite, prive di potere esecutivo, e depotenziate del loro ruolo di moral suasion. Per questo, con tutti i suoi limiti, l’iniziativa di Kofi Annan obiettivamente va presa come un’occasione per restituire – attraverso adeguate politiche internazionali - pace e dignità al popolo siriano. La vicenda siriana conferma che oggi chiavi di analisi della politica estera fondate sulla classica contrapposizione tra blocchi e la presa di posizione a favore di uno di essi, non può più essere – come in un riflesso pavloviano - il punto di partenza.
Sono invece da mettere al centro la salvaguardia ed il diritto alla sicurezza della propria vita per le popolazioni civili inermi, disarmate, che rimangono intrappolate negli scontri e nell’escalation di violenza tra fronti opposti. Quelle popolazioni che in Siria, ad Homs come a Damasco, come riportato dalle cronache, si sentono imbelli e senza protagonismo, vittime di giochi di potere ed interessi strategici e politiche di potenza interne ed esterne, che nulla hanno a che vedere con i loro diritti e la loro incolumità.
Mettere al centro le persone e la loro dignità non esclude ovviamente la necessità di una valutazione ed una condanna netta verso regimi liberticidi e repressivi tra i quali annoveriamo quello di Assad. Neanche permette però che le forze di opposizione possano sempre e comunque essere esentate dalle proprie responsabilità. Basti pensare alle recenti denunce delle organizzazioni per i diritti umani riguardo a crimini di guerra compiuti in Siria dalle milizie contrarie ad Assad.
La vicenda siriana conferma anche l’urgenza di fare chiarezza su principi universalmente riconosciuti quali quello dell’ingerenza umanitaria, che devono essere effettivamente messi a disposizione delle popolazioni inermi, e nettamente scissi da usi strumentali di intervento fondato su criteri d’interesse politico di qualsiasi parte o di pure strategie geopolitiche.
Il fallimento dell’intervento internazionale in Libia, testimoniato dallo stato di anarchia e dai rischi di conflitti interetnici ed intertribali, questo ci insegna. Ovvero che l’intervento militare con il pretesto di salvare civili, ma con il reale intento di rimuovere un regime scomodo seppur sanguinario come quello di Gheddafi per riaffermare il controllo neocoloniale su una regione in rapida trasformazione, avrebbe segnato la fine del principio di responsabilità di proteggere (la cosiddetta R2P). E con esso il rischio di una messa in mora definitiva della legalità internazionale, dei principi della Carta delle Nazioni Unite e della stessa elaborazione del diritto internazionale sulle modalità di tutela dei diritti umani in aree di crisi.
Le vicende del Mediterraneo e del Medio Oriente riguardano noi e soprattutto l’Europa. Un continente oggi in preda ad una crisi politica interna senza precedenti , incapace di guardare alle grandi trasformazioni che coinvolgono mondi così vicini e così legati alla sua storia. Un’ Europa che non sa o non riesce a mettere in campo soluzioni o proposte all’altezza delle sfide, che non siano, come sono invece, fondate su un’interpretazione obsoleta della democrazia e della preminenza dei propri interessi commerciali, come dimostrato di recente negli accordi con il Marocco ed altri paesi del Maghreb.
Guardare alla Siria con uno sguardo cosmopolita fa parte del nostro impegno per gli Stati Uniti d’Europa, che passa anche attraverso la costruzione di un’Europa attore globale responsabile e di pace. Una pace che non può essere una declamazione di principio ma deve essere il risultato di concrete politiche di prevenzione dei conflitti, mediazione diplomatica, relazioni solidali e cooperazione tra i popoli.