venerdì 26 settembre 2008

Multilateralismo, etnonazionalismo e nuovi assetti della governance globale

Il caso della guerra nel Caucaso


Di Francesco Martone

Setiembre 2008


La guerra di agosto tra Russia e Georgia, scatenata dall’improvvida decisione del presidente georgiano Sakhashvili di attaccare l’enclave di etnìa russa dell’Ossezia del Sud, oltre ad essere il culmine di un confronto ormai in corso da anni nella regione, può fornire l’opportunità per discutere di varie questioni paradigmatiche e delle sfide che oggi la sinistra si deve attrezzare a comprendere e affrontare nella sua dimensione politica internazionale, o meglio cosmopolita.

Una prospettiva che prova a studiare e leggere le questioni di politica estera il più possibile scevre di contaminazioni derivanti dal discorso politico nazionale, e che così facendo non la considera un ulteriore cambio di battaglia ideologico nel quale prendere parte per una o l’altra parte in conflitto.

Con questi presupposti la crisi del Caucaso può offrire la possibilita di commentare su varie questioni centrali relative alla politica estera, dal ruolo e la nuova forma degli stati nazione, al rinnovato insorgere di forme di etnonazionalismo, fino alla trasformazione degli assetti della governance globale. E di nuovo chiama ad una profonda rielaborazione di categorie antiche, e di approcci che rischiano di non cogliere appieno la complessità e la profonda novità degli sviluppi della politica globale.

Il primo indizio di analisi riguarda il carattere paradigmatico della guerra tra Russia e Georgia. Per meglio comprenderlo andranno svolte alcune considerazioni specifiche.

Dal punto di vista della Georgia , il paese aspira ad entrare nella NATO, e nella convinzione di ottenere il sostegno del mondo occidentale, non ha esitato a sferrare un’attacco contro le enclave etniche in Sud Ossezia. Le questioni che ne derivano riguardano le ricadute della disintegrazione dell’ exUnione Sovietica, ma anche
il ruolo nuovo della NATO. A 60 anni dalla sua fondazione, l’alleanza dimostra di voler cambiare le sue attribuzioni e ragioni d’essere da assetto puramente “difensivo” ad agenzia globale di sicurezza, con spiccate caratteristiche “offensive”. Il conflitto in Afghanistan dimostra che la NATO oggi rientra nelle opzioni à la carte perseguite dagli Stati Uniti per sostenere le proprie priorità strategiche, nel tentativo di socializzarne le ricadute negative in termini politici.

La seconda questione riguarda il tema della sicurezza energetica e della dipendenza del nostro modello di sviluppo dalla produzione e consumo di combustibili fossili. La Georgia è crocevia di importante gasdotti tra cui il Baku-Tbilisi-Cheyan, e del Nabucco, ed insiste quindi in un’area cruciale per l’approvvigionamento energetico degli USA e dell’Europa.

Dal punto di vista russo ci si trova invece di fronte ad una potenza che vuole mostrare di essere tale nel panorama globale riaffermando il suo ruolo geopolitico e geostrategico. I prodromi di questa trasformazione si possono ritrovare nel discorso di Vladimir Putin alla 43ª Conferenza di Monaco sulla sicurezza del febbraio 2007 in seguito al quale molti commentatori avevano ipotizzato un ritorno alla guerra fredda.

Il confronto con la guerra fredda sembra però azzardato visto che la Russia non sembra avere intenzione di esportare un modello ideologico o culturale, non dispone in realtà di ciò che viene definito “soft-power” e questo forse è il suo grande limite nel tentativo di affermarsi su scala globale. Più semplicemente la Russia non tollera di perdere controllo nella sua sfera inmediata di influenza e ciò vale per il Caucaso ma anche per l’Ucrainae l’Europa Orientale, oggi in prima linea per quanto concerne l’allargamento della NATO ed il progetto USA di scudo antimissile. Mosca quindi raeagisce con forza contraponiendo la costruzione di nuove alleanze militari quali la Shanghai Cooperation Initiative (SCO) o l’alleanza militare delle repubbliche della ex CSI. E nella sua politica di potenza non esita ad utilizzare le proprie enormi risorse energetiche come arma di pressione.

E l’Europa? L’Unione Europea ha dimostrato la sua grande difficoltà nel proporre una linea politica comune, con il ministro degli esteri inglese Miliband che per primo si è recato a Tbilisi per sostenere il governo georgiano, distanziandosi dal resto dei Paesi dell’Unione che hanno preferito una posizione più cauta nel tentativo di porsi come mediatori tra le parti in conflitto. Così ha interpretato il ruolo il Presidente francese Sarkozy. Secondo Mary Kaldor, esperta di questioni globali e di nuove guerre, l’Europa, (e l’OSCE) nel caso della guerra tra Russia e Georgia avrebbe mostrato di perseguire una strategia di sicurezza distante dall’approccio geopolitico e di “potenza” proprio della NATO. Un approccio che sarebbe basato sulla sicurezza umana e sulle dimensioni non-militari della gestione dei conflitti che però non è innervato da una condivisione delle linee di politica estera da parte degli Stati Membri. Basti pensare a quanto accaduto sul riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.

A suo tempo si era sollevata la preoccupazione che il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo avrebbe rappresentato un pericoloso precedente che avrebbe riattivato i cosiddetti conflitti congelati in Sud Ossezia ed Abkhazia, per non dimenticare il Nagorno-Karabakh o la Repubblica Srpska nei Balcani.

Allora le potenze occidentali si erano affrettate con grande ipocrisia ad affermare che il Kosovo sarebbe stato un caso unico e che quindi non avrebbe rappresentato un precedente per altre forme di secessione. I russi hanno invece più volte mostrato irritazione nel parallelo tra Kosovo e conflitti in Caucaso, giacché il Kosovo si è reso indipendente solo dopo l’intervento militare della NATO, e considerando che se da una parte a suo tempo Belgrado aveva tentato sempre la carta del negoziato, il presidente georgiano Sakhashvili ha preferito da subito l’opzione militare.

Certo è che queste vicende chiamano fortemente in causa il fenomeno dell’etnonazionalismo e del suo importante ruolo nel plasmare gli eventi della storia moderna.

L’etnonazionalismo rappresenta oggi uno dei più importanti “driver” - insieme alla trasformazione dei rapporti di forza su scala globale, la crisi ambientale e la dipendenza energetica da combustibili fossili (o meglio il tema della sicurezza sostenibile) ed il principio della politica estera etica - del dibattito sulla politica del 21’ secolo, non solo per la politica estera, ma anche per quella interna.

E’ una spinta che mette alla prova sia le strutture interne degli stati che le proprie frontiere, e risponde al vuoto di significato conseguente ai processi di modernizzazione e globalizzazione, che a sua volta alimenta forme identitarie.

Le ricadute di questo processo si leggono sia nelle politiche migratorie e di cittadinanza (quindi all’interno degli stati) che nel discorso relativo alla prevenzione del genocidio e delle pratiche dell’ingerenza umanitaria, e delle conseguenze che questa comporta nella ridefinizione del concetto di sovranità.

Non a caso la Russia ha invocato il principio della R2P (“Responsibility to Protect”) per intervenire a protezione delle minoranze russe in Sud Ossezia, usando la stessa argomentazione, ovvero l’intervento militare nel territorio di un’altro stato, per proteggere un’etnia minacciata di genocidio che gli USA hanno cercato invano di usare come pretesto per un’operazione militare in Darfur. Si nota quindi un uso simmetrico ed altrettanto strumentale del concetto di politica estera etica, con la quale si ammantano di connotati etici scelte che sottendono per lo più ad interessi geopolitici e/o strategici.

Qualche commentatore ha affermato che la guerra russo-georgiana è stata caratterizzata da elementi di conflitto basati su una politica di potenza e di polarizzazione ideologica al punto da farne la prima guerra del 19º secolo combattuta nel 21º secolo. E’ evidente che viste le premesse, la guerra nel Caucaso ha un potenziale esplosivo a livello internazionale giacché coincide con rivalità geostrategiche tra USA/NATO e Russia, e riguarda anche il posizionamento dell’Unione Europea, quello della Turchia e dell’Iran. Ed ha dimostrato una volta per tutte che l’equilibrio di potere in Eurasia è già cambiato, con la presenza forte della Russia che si pone ormai come una delle grandi potenze nel sistema di governo globale.

Il quadro generale della trasformazione della governance globale merita quindi di essere studiato a fondo, e la domanda cruciale da porsi è se ci troviamo o meno di fronte al crollo dell’impero americano.

Senza dubbio la guerra tra Georgia e Russia ha aperto una nuova era, quella dello spostamento dell’asse del potere, come dice un importante studioso di politica estera USA Fareed Zakaria, del “rise of the rest”, l’avanzata del resto del mondo.

Dal duopolio proprio della guerra fredda, attraverso il predominio degli USA dopo il 1991 (altro che fine della storia come ebbe a dire a suo tempo Francis Fukuyama!!) siano ora giunti ad un assetto multipolare. Certamente gli USA manterranno il predominio a livello politico-militare ma nelle altre dimensioni del potere si assiste già fin d’ora ad un profondo spostamento dal loro dominio assoluto.

Nell’America che verrà consegnata nelle mani di Barak Obama o di John McCain la lettura di questa fase si svolge secondo due linee di pensiero.

Una più costruttiva, secondo la quale non ci si troverebbe alla fine dell’impero americano, ed il mondo non starebbe diventando antiamericano, bensì sarebbe entrato in una fase post-americana, come dice Fareed Zakaria.

La seconda più vicina alla destra conservatrice che legge questa fase come
non-polare, nella quale nessuna potenza mantiene una situazione di dominio sulle altre: insomma ci si troverebbe di fronte a numerosi centri con potere considerevole. Il mondo di oggi pur sembrando multipolare in realtà starebbe subendo una profonda trasformazione nelle sue forme tradizionali.

Secondo questa corrente di pensiero il multilateralismo a la carte, secondo i bisogni del caso, sarà il trend dominante, seppur improntato ad includere anche altri soggetti non statuali che oggi sono parte integrante della governance globali, quali organizzazioni e reti, o entità non governative.

La sottotraccia di queste elaborazioni continua a proporre una discussione sulla trasformazione dello stato e dello stato nazione post-Westfaliano, non più soggetto esclusivo della governance e non più detentore del monopolio sulla sovranità.

Da una parte stretto tra le spinte etnonazionaliste che lo trasformano al suo interno e nelle sue frontiere, dall’altro caratterizzato da spinte di cessione di sovranità verso l’alto, nei confronti di organismi quali le istituzioni finanziarie e/o gli organismi multilaterali e dalla sottrazione di sovranità operata da altri soggetti nonstatuali.

Uno stato che oggi vuole recuperare il controllo sulla finanza e l’economia non certo per la promozione del bene comune ma per tutelare gli interessi di elite finanziarie che grazie proprio all’intervento statale continuano a giovarsi delle loro prerogative. E che parallelamente assume una proiezione esterna improntata su forme di politica di potenza muscolare.

E’ il caso in Russia che con Gazprom produce una commistione tra potere economico, politico e strategico e nascita delle nuove oligarchie, come degli Usa con il salvataggio di Fannie Mae, Freddie Mac, e con i pacchetti di bailout del debito di altri enti finanziari

Su questo la sinistra dovrà porsi una domanda forte per cercare di capire cosa rimane dello stato dopo la sbornia liberista, cosa salvare e cosa ricostruire,

Dando per scontato che oggi ogni prospettiva politica concreta dovrà far perno sul rapporto locale-globale, non sarà possibile parlare di politica estera senza avere chiari quali siano i processi di trasformazione dello stato nazione al suo interno ed al suo esterno. In una parola avere chiara la prospettiva di una riconfigurazione della sfera pubblica, del “national policy space”.

Per concludere il confronto a sinistra sui nuovi fondamenti della politica estera dovrà svolgersi lungo una serie di interrogativi.

Il primo: quando si parla di riforma della governance globale, in senso democratico e multipolare, c’è chiarezza sul se questa si dovrà continuare a basare su assunti geopolitici e geostrategici che non escludono anzi presuppongono una politica di potenza che prevede anche l’uso della forza armata? Per dirla ancora più crudamente a sinistra si è tutti d’accordo che la forza mite dell’Europa che vorremmo non deve misurarsi in chiave antiamericana con un esercito europeo ed una conseguente corsa agli armamenti? Ma anzi perseguire il disarmo come strategia di costruzione di relazioni giuste ed eque tra gli stati?

La seconda: quando si parla di pace e costruzione di relazioni eque tra popoli, si ha ben chiaro quali siano oggi le vere sfide? E che la necessità di uscire dalla trappola dei combustibili fossili , riconoscendo il debito ecologico nei confronti del mondo di maggioranza serve non solo a ridurre le emissioni di gas serra ma anche a prevenire conflitti possibili su risorse scarse o per lo meno evitare che tale scarsità diventi stumento di politica di potenza? Per dirla crudamente: a sinistra sono tutti convinti dell’urgenza di superare il mito dello sviluppo, e della liberazione della classe operaia attraverso la crescita dei consumi e del potere d’acquisto delle merci?

La terza: quando si parla di diritti umani, e di promozione e rispetto degli stessi, e della protezione degli esseri umani, si riesce a fare un passo in avanti, uscendo dalla trappola ideologica che vede questa come estensione di una politica “imperiale” e piuttosto provi a studiare a fondo i limiti ed i rischi di forme di ingerenza umanitaria?
Ovvero, si retiene urgente iniziare a produrre una chiave di lettura e delle risposte alternative alla deriva securitaria su scala globale, e pratiche di promozione dei diritti che siano fondate sulla diplomazia popolare, la nonviolenza, e la solidarietà e giustizia ecologica ed economica?

La quarta: quando si parla di società cosmopolita, di superamento dell’etnonazionalismo, di integrazione multirazziale, di rispetto delle diversità, si ha ben chiaro che come dice Saskia Sassen, oggi il limite delle politiche degli stati è quello di pensare che la società multiculturale vada costruita e che invece l’unica cosa possibile è di governarla? E che magari applicando un approccio autenticamente cosmopolita, anche una soluzione ormai accettata da tutti al conflitto israelo-palestinese, ovvero quella di due stati e due popoli, andrebbe messa da parte per perseguire con forza l’opzione di uno stato per due popoli?

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