uno spazio pubblico per attivisti/e che lavorano per la pace, il disarmo, i diritti umani, la giustizia sociale, economica ed ecologica globale, la resistenza alle politiche neoliberiste, il riconoscimento del debito ecologico e sociale.
venerdì 30 luglio 2010
Todos somos Arizona
Un movimento nazionale e plurinazionale, organizzato, con il sostegno dei movimenti per le libertà civili statunitensi. Un movimento di base di donne ed uomini che rivendicano direttamente i loro diritti di cittadinanza. Mi domando dove sia Barak Obama in tutto questo. E mi viene alla mente un bel libro che raccoglie una conversazione tra Judith Butler e Gayatri Spivak, sulla fine dello stato nazione. Lì si discute del paradosso dei migranti latinos che cantano in spagnolo l’inno americano per rivendicare il proprio diritto ad appartenere a quella comunità, che grazie alla loro presenza si trasforma in maniera irreversibile. Oppure alle parole di Alain Touraine quando tratta dei movimenti dei sans-papier nel suo saggio sulle strategie di resistenza al neoliberismo. Insomma la storia del movimento migrante ci racconta molte cose, ci sfida a pensare nuove forme di azione politica, immaginare percorsi nei quali si mette al centro il protagonismo in prima persona degli aventi diritto, di coloro che hanno diritto alla mobilità ed alla cittadinanza. Poi mi metto a pensare a noi, che con Sinistra, Ecologia e Libertà stiamo provando a costruire un progetto politico, uno spazio comune nel quale si possa ritrovare chi oggi vuole impegnarsi per una società più giusta, pacifica, equa e pulita. Ripercorro le immagini delle riunioni alle quali ho partecipato, mi preoccupa l’uniformità cromatica delle nostre epidermidi. Mi arrovella il cervello il timore che questo partito in costruzione forse inconsapevolmente (e questo sarebbe ancor più grave), non riesca a rappresentare la vera società italiana, ormai multietnica e pluriculturale. Un partito di soli “italiani” e bianchi (a parte qualche eccezione), che tratta di questioni quali l’immigrazione, come se fossero solo relative all’antirazzismo o alla promozione di un nuovo “welfare”, (approccio di protezione) o al contrasto alla repressione (comunque sia accettando il confronto sul piano della sicurezza). Che non ascolta le voci dei diretti interessati e non sa fare uno scatto di avanti, provando a costruire uno spazio d’iniziativa comune con i migranti e con le seconde generazioni,. Questo sarebbe ancor di più il mio partito, un soggetto plurale e “meticcio”, che offre opportunità di azione innovativa, radicale, inclusiva ed includente. E che non teme di contemplare tra gli strumenti della sua azione politica anche sane pratiche di disobbedienza civile ed azione diretta nonviolenta.
giovedì 15 luglio 2010
Una soluzione diplomatica e nonviolenta alla crisi iraniana
Scambi di spie, uno scienziato iraniano rifugiato nell’ambasciata pakistana a Washington: a leggere i giornali dei giorni scorsi pareva essere ritornati ai tempi della guerra fredda, in un copione degno dei best seller di David Forsyth o Tom Clancy. Ad uno sguardo più attento da questi episodi si snodano questioni complesse che rappresentano alcune tra le più grandi sfide che la comunità internazionale si trova a dover affrontare. Prendiamo il caso di Shahram Amiri, scienziato nucleare dell’Università di Malek Ashtar, vicina alle Guardie rivoluzionarie iraniane e scomparso misteriosamente durante un pellegrinaggio in Arabia Saudita nel giugno 2009. Gli Stati Uniti hanno sempre negato la sua esistenza, fino a quando il governo iraniano non ha prodotto una videocassetta contenente, a loro avviso, le prove della sua sparizione. Un episodio che, assieme alle ultime rivelazioni di Amiri ormai tornato in patria, potrebbe inasprire le già delicate relazioni tra USA ed Iran. Solo quale settimana fa vennero approvate una serie di nuove sanzioni intese a ricondurre al negoziato il governo Ahmadinejad che a sua volta continua a mostrare i muscoli, ed a riaffermare la propria determinazione a proseguire con il programma di arricchimento dell’uranio. Il Consiglio di Sicurezza aveva adottato a giugno una risoluzione, seguita poi dall’Amministrazione Obama che estendeva le sanzioni anche a quelle imprese non-statunitensi che intrattengono relazioni con l’Iran, in particolare nei settori del petrolio e del gas. Stesso approccio ha seguito l’Unione Europea, che ha esteso le sanzioni alle tecnologie ad “uso duale” , quelle cioè che possono essere utilizzare a scopi civili e militari. Come al solito da varie parti si sono susseguite considerazioni sull’efficacia o meno del regime delle sanzioni, e sulla necessità di accompagnarle ad uno sforzo diplomatico per riportare l’Iran sul tavolo della trattativa, se non sull’ineluttabilità dell’opzione militare. Teheran a sua volta ha annunciato l’intenzione di riaprire i negoziati con una lettera all’Unione Europea, ai primi di luglio. Se così fosse ci sarebbe ragione di essere ottimisti. Le sanzioni ricondurrebbero il regime a trattare sul programma nucleare civile ed i rischi di una escalation militare nella zona sarebbero sventati. Invece il combinato disposto di varie circostanze rendono oggi la questione estremamente complicata. Da una parte il capo del governo russo Medvedev critica le sanzioni adottate all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza e lancia l’allarme sulla possibilità che l’Iran possa presto costruirsi la bomba. Dall’altra le dichiarazioni senza precedenti del Ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, che per la prima volta ha sostenuto pubblicamente la necessità dell’opzione militare , in caso la diplomazia non riuscisse a fare il proprio corso. Che tale dichiarazione provenga da un alto rappresentante di un paese del Golfo è significativo, visto che nelle intenzioni del governo di Teheran, il golfo Persico è l’area di massima rilevanza sulla quale affermare la propria egemonia politica e militare. Un’area, vale la pena di ricordare - nella quale anche la Francia ora opera attivamente per esportare – soprattutto negli Emirati - tecnologia nucleare civile. Il rituale tintinnare di scudi e sciabole che si ripete ciclicamente ogni qual volta di discute di come prevenire l’escalation militare dell’Iran, si è scontrato finora sempre con il freddo calcolo di chi nell’amministrazione Obama è cosciente degli effetti di un possibile attacco militare, per mano israeliana o americana, in Libano, come a Gaza, in Iraq come in Afghanistan. Un effetto a catena ingestibile per un paese, gli Stati Uniti, già “overstretched”, ovvero impegnati fino all’osso in due guerre senza fine nella regione. C’è però un elemento che può essere determinante stavolta. Come si sa la politica estera di un paese è sempre strettamente connessa con quella interna. Spesso ci s’imbarca in avventure fuori confine per far passare in secondo piano le difficoltà nella politica interna. Spesso invece l’avventurismo oltre confine incide e indebolisce ulteriormente la tenuta del governo all’interno. È il caso di Obama, che si avvicina alle elezioni di “mid-term” dell’autunno con il rischio di perdere la maggioranza nel Congresso, e trasformarsi in quello che in gergo si chiama “lame-duck”, anatra zoppa. Ed allora la politica estera , oltre che la riforma sanitaria diventeranno le cartine al tornasole della solidità dell’amministrazione e verranno utilizzate come una clava dai repubblicani, e da quelle forze conservatrici che si stanno coagulando nella galassia contigua al “TEA Party”. Il dossier Iran come detto è complesso legato a doppio filo ai destini di altri paesi ed aree in conflitto, dalla Palestina , all’Iraq ed all’Afghanistan. In quest’ultimo , la tanto pubblicizzata offensiva finale contro la roccaforte di Kandahar è stata rinviata a data da definire, e le difficoltà nelle quali versano le truppe ISAF è evidente. Dell’Iraq neanche a parlarne: l’ultima visita del vice presidente Joe Biden è stata occasione per constatare l’evidente fallimento dell’operazione di costruzione a tavolino della democrazia. Sul conflitto israelo-palestinese la posizione di Obama per una soluzione pacifica ed in sostegno all’opzione Due Popoli-Due Stati, nonché il forte avvicinamento all’Autorità Nazionale Palestinese, sono evidenti, ed è chiaro che una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese potrebbe anche influire positivamente sul dossier iraniano. E l’Europa? Oltre alle sanzioni approvate, l’Europa non potrebbe provare a svolgere un ruolo di mediatore politico e diplomatico insieme agli Stati arabi? Il rilancio dell’opzione negoziale potrebbe sparigliare le carte, e aprire un canale che scongiurerebbe le ipotesi più rischiose di intervento militare. Una carta da giocare esiste, ed è la recente dichiarazione del Consiglio di Sicurezza , contestuale rispetto alla revisione del Trattato di Non-Proliferazione nucleare, che sostiene un processo per la creazione di una zona libera da armamenti nucleari in tutto il Medio Oriente. Questo comporterà però che Israele s’impegni a smantellare i suoi arsenali. L’Egitto che presiede il gruppo dei non-allineati ha già fatto circolare una proposta per convocare il prossimo anno una conferenza per costruire una zona libera di “armi di distruzione di massa” (incluse le armi chimiche) nel Medio Oriente invitando anche Israele, e l’Europa dovrebbe sostenere tale processo. Oltre che con la diplomazia, e la mediazione, l’Iran va affrontato anche e soprattutto comprendendone le ragioni e la mentalità.
Nel suo “The Enemy we Know” (Il nemico che conosciamo) l’ex-agente della CIA Robert Baer, ci dice che gli Stati Uniti non sono stati mai in grado di capire l’Iran, e mantengono una visione che richiama l’epoca degli Ayatollah e dell’integralismo islamico. Baer invece consiglia di andare oltre: “Quello che si trova in un Iraniano al di là dell’Islam, è una sfida profonda al colonialismo, una forma antica di nazionalismo. Andando ancora più a fondo nell’anima dell’Iran, si trova un gusto ritrovato per l’impero. Ma l’Iran non è la nuova Roma, intenta alla pura conquista, alla diffusione della propria cultura, agli insediamenti ed alla conversione religiosa. …ciò che è necessario capire oggi è che l’Iran crede profondamente nel proprio diritto all’impero”. E’ evidente che per Teheran il braccio di ferro sul nucleare è principalmente una mossa intesa a riaffermare il proprio ruolo ormai consolidato di potenza regionale piuttosto che l’intenzione di dotarsi della bomba. Invece di prospettare l’ipotesi di una soluzione militare, sarà allora necessario ed opportuno insistere con la via pacifica del negoziato, cogliendo l’occasione per rilanciare un’iniziativa politica per tutto il Medio Oriente, dalla sua denuclearizzazione fino alla soluzione definitiva dei conflitti che da anni ormai affliggono i suoi popoli.