Di Francesco Martone
“Dire democrazia è diventato un caso esemplare di mancanza di significato. A forza di rappresentare l’insieme della politica virtuosa e l’unica maniera per assicurare il bene comune, la parola ha finito per riassorbire e dissipare ogni carattere problematico, ogni possibilità di messa in questione … La democrazia insomma vuol dire tutto, politica, etica, diritto, civilità, e quindi non dice nulla”.
Jean Luc Nancy
“Democratie, dans quel Etat?”, La Fabrique Editions, 2009
“Quel che accade oggi in Egitto è una condanna dell’ordine globale, quale quello fino ad oggi rappresentato da un Egitto “stabile” (…). In un periodo nel quale la costruzione dello stato è al centro delle dottrine di sicurezza, e nel quale la presenza militare straniera in Afghanistan è fondata su un approccio scientifico verso la legittimità ed i sistemi di governo, gli eventi in Tunisia ed Egitto ci ricordano che l’ordine sociale e la legittimità politica sono più il risultato di un’alchimia imprevedibile che il prodotto di formule esatte”.
World Politics Review Febbraio 2011
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Queste due osservazioni forniscono spunti utili per provare a capire quali siano oggi, a dieci anni dall’inizio della guerra in Afghanistan, le contraddizioni insite nella pratica di costruzione della democrazia a tavolino, e quali i punti critici sui quali insistere per provare a costruire un paradigma alternativo a quello vigente.
Premessa indispensabile per tale esercizio è quella di analizzare il concetto di esportazione della democrazia in stretta correlazione con i processi e le scelte politiche e militari che lo sottendono, e chiarire anzitutto i concetti di “state building” e “nation building”.
Secondo la definizione fatta da Francis Fukuyama nel suo “Esportare la democrazia – state building ed ordine mondiale nel XXI secolo” i due concetti presentano delle differenze sostanziali.
a. “state building” riguarda la creazione di istituzioni di governo
b. “nation building” riguarda il potere politico esercitato da autorità occupanti direttamente o su governi locali.
Questi due obiettivi spesso entrano in contraddizione con il rischio di bloccare un processo autonomo di democratizzazione. Da una parte la mancanza di istituzioni democratiche impedisce il “nation building” e dall’altra le istituzioni non possono funzionare se le parti in conflitto non accettano lo stato.
In linea di massima questa contraddizione emerge con chiarezza in varie fattispecie di sostegno o “esportazione” della democrazia.
C’è il caso di paesi che avevano strutture di governo, istituzioni insediate, si pensi all’Irak, nel quale la decisione di invadere il paese ha portato al collasso di ogni struttura dello stato. In questo caso le due pratiche di “state-building” e “nation-building” sono corollario della scelta militare di invadere un paese, disarticolarlo per poi costruire un’ipotesi di democrazia “perfetta” di stampo occidentale e sotto protettorato militare.
Oppure il caso di Haiti, o della Somalia, quelli che secondo il gergo sono considerati “failed states-stati falliti”, che non hanno più le strutture adeguate per assicurare la gestione della cosa pubblica, la stabilità o il servizio dei diritti fondamentali delle proprie popolazioni. In questo caso la decisione di definire se no stato è “fallito” o meno è tutta fatta secondo criteri sviluppati nelle capitali del mondo di minoranza, senza provare ad ascoltare i bisogni e le rivendicazioni di quelle popolazioni che sarebbero le prime vittime degli effetti di uno stato fallito.
La constatazione del fallimento di uno stato, apre la strada alla possibilità d’ ingerenza umanitaria, giustificata dall’imperativo categorico di intervenire laddove il governo di quel paese stia fallendo nell’assicurare il godimento dei diritti fondamentali dei suoi cittadini, La comunità internazionale quindi decide o meno di rispondere ad imperativi di ordine “etico-morale” ed intervenire “per conto” di quelle popolazioni minacciate secondo quella che viene definita “responsabilità di protezione”. E per poi contribuire a ricostruire lo stato ed il sistema politico. Anche in questo caso la realpolitik e la “politica estera etica” si intrecciano e si confondono a seconda di quello che viene percepito essere l’interesse nazionale di chi decide e pratica l’intervento umanitario. Si notano in queste fattispecie alcuni elementi comuni, ovvero il conflitto tra realpolitik e principi etici, la definizione delle popolazioni destinatarie degli effetti suppostamente benefici dell’intervento esterno non intese come soggetti principali del processi di ricostruzione della cosa pubblica e dei sistemi democratici , e la stretta correlazione tra state-building , nation-building, dottrine di sicurezza ed ingerenza umanitaria, e strategie militari.
E veniamo al caso Afghanistan.
In Afghanistan la “nation building” affidata alle truppe del contingente ISAF o delle forze armate USA viene perseguita attraverso tattiche di contro-insurgenza piuttosto che attraverso il rafforzamento del principio di legittimità e la ricostruzione dello stato, della società e dell’economia. Obiettivo della strategia di contro-insurgenza è quello di costruire le condizioni di sicurezza e controllo del territorio attraverso la presenza di forze armate occupanti.
Lo “state building” invece viene affidato ad un regime corrotto, senza legittimità, insediato con elezioni farsa, come dimostrato anche nelle recenti elezioni parlamentari . Anche l’illusione di poter creare un potere centrale e centralizzato a Kabul stride con la conformazione etnica del paese che invece risponderebbe più ad un modello decentrato e quasi federale di amministrazione.
Dalla prospettiva del popolo afgano non esiste un consolidato senso di appartenenza ad una nazione unica, ed invece aumenta il livello di resistenza anche armata delle comunità locali che non sopportano la presenza militare straniera. Non a caso secondo l’intelligence USA la maggior parte dei combattenti afghani oggi non sono Talebani ma locali che resistono alla presenza militare nei loro territori. Alcuni osservatori addirittura prospettano uno scenario simile a quello del Vietnam dove i vietcong erano in grado di amministrare e governare i territori sotto la loro influenza e controllo, con un sistema parallelo rispetto a quello del governo “ufficiale”.
Quale tipo di democrazia è possibile in un paese dove chi dovrebbe costruire lo stato non ha alcuna legittimità popolare, chi dovrebbe fare “nation building” di fatto è una truppa di occupazione straniera, dove si stanno producendo sistemi alternativi e paralleli di “state-building” e “nation-building” da parte dei Talebani, dove nelle strutture pubbliche vengono riciclati criminali di guerra, e dove il modello di stato centralizzato è del tutto incoerente con la storia del paese?
A questo si aggiunga un’ulteriore considerazione. La storia di questi dieci anni di guerra in Afghanistan è stato caratterizzata da una continua trasformazione dell’obiettivo politico e militare della stessa. Iniziata come rappresaglia all’attacco alle Torri Gemelle, ex art. 5 della NATO, poi con l’obiettivo di liberare il popolo afghano dal regime talebano, poi ancora con lì obiettivo di stabilizzare e ricostruire il paese, poi con l’obiettivo di snidare al Qaeda, e di combattere l’insurgenza talebana, ora con i due obiettivi di stabilizzare il paese ed evitare che il Pakistan cada nelle mani delle forze integraliste islamiche.
In questo “rolling process”, l’unico elemento di continuità continua ad essere il predominio della strategia militare rispetto a quella politica di ricostruzione di uno stato che possa assicurare il rispetto dei diritti e la dignità del suo popolo. Di conseguenza, l’unica relazione che esiste tra governo e propri cittadini è quella basata sulla forza, situazione nella quale le prospettive di democratizzazione sono sempre più remote.
Ciò detto, se la democrazia è un sistema che resiste e si rafforza nella misura in cui le persone ci credono, ed è fondato pertanto sull’esempio e la persuasione piuttosto che sull’imposizione, allora occorre, a dieci anni dall’inizio della guerra una profonda e radicale inversione di rotta.
Anzitutto, operare una “demilitarizzazione” dei processi politici: finché non si rompe questo abbraccio mortale, non ci potrà essere alcun processo di autodeterminazione del popolo afghano. Questo significa che al ritiro del contingente NATO potrebbe subentrare un contingente di polizia internazionale possibilmente formato da truppe di paesi che non hanno partecipato al conflitto e con un mandato chiaro delle Nazioni Unite. Significa che ad una strategia di controinsurrezione andrà sostituita una strategia di redistribuzione del potere e di inclusione sociale e politica, ed esplorare la possibilità di sostegno a sistemi di governo ispirati alle strutture comunitarie locali e decentramento politico ed amministrativo.
Secondo, si dovrà sostenere la proposta fatta da ampi settori sociali afghani, un programma di giustizia transizionale che serva a ricostruire il tessuto sociale attraverso un processo di verità e giustizia sulle violazioni dei diritti umani compiute da tutte le parti in causa nel corso del conflitto e prima dello stesso, dai signori della guerra, ai talebani alle forze di occupazione; Nella storia le commissioni di verità e giustizia hanno svolto il compito centrale di ascolto delle vittime, di restituzione di dignità, riportare alla luce la verità collettiva, come presupposto necessario della transizione verso un sistema fondato sui diritti e sulla giustizia. Il sistema giudiziario oggi invece non assicura il diritto all’accesso alla giustizia in particolare nelle aree rurali, i tribunali provinciali sono inefficienti, e le amministrazioni locali inesistenti.
Terzo, andrà ripensata la cooperazione allo sviluppo mettendo al centro il soddisfacimento dei bisogni primari della popolazione. Oggi la cooperazione allo sviluppo è praticamente in mano al governo centrale, ed ai militari e una parte infinitesimale dei fondi dedicati va sul territorio a soddisfare i bisogni fondamentali della popolazione quali acqua, educazione, salute, elettricità. Uno stato percepito come erogatore di servizi pubblici essenziali può rafforzare la propria legittimità nelle popolazioni locali;
Quarto, e presupposto centrale di ogni possibile attività in Afghanistan: i supposti “beneficiari” , il popolo afghano, dovranno essere considerati soggetto centrale e non “oggetto di tutela”. Andranno pertanto sostenuti processi di autodeterminazione, di elaborazione di pratiche di partecipazione dal basso , e di rivendicazione di diritti e giustizia, giacché senza cittadini e cittadine non ci potrà essere alcuna forma di governo democratico o meglio una via “afghana” alla democrazia.