venerdì 4 febbraio 2011

Egitto tra speranze e paure

(4 febbraio 2011)
http://www.sinistraeliberta.eu/vetrina/egitto-tra-speranze-e-paure

Il rischio di un bagno di sangue cresce con le ore a piazza Tahrir, dove da giorni stazionano decine di migliaia di dimostranti che chiedono a gran voce le dimissioni immediate del presidente Hosni Mubarak ed elezioni che aprano la strada ad una nuova stagione di democrazia e legalità nel paese. Il fatto nuovo degli ultimi giorni è la reazione, il tremendo colpo di coda del regime, che sta precipitando il paese verso uno scenario di guerra civile. Un esito che soffocherebbe sul nascere la possibilità di un movimento politico e civile laico e progressista.

È scattata l’ora della repressione, con lo schieramento di squadre di picchiatori e provocatori, l’arresto di testimoni scomodi, dai rappresentanti di Amnesty International e Human Rights Watch e di altre ONG, ai blogger . Quei giovani coraggiosi che tentano di squarciare la cortina di silenzio che il regime sta imponendo sui media e la comunicazione, nella consapevolezza che il web e la solidarietà internazionale sono due strumenti necessari per irrobustire la resistenza civile delle opposizioni. Sarà il caso allora di chiedersi come sia possibile tale colpo di coda, quali opportunità il governo Mubarak sta sfruttando per restare al potere, promettendo ipotetiche riforme e una transizione dolce e pilotata, mentre assolda sicari e infiltrati che spargono la morte tra i manifestanti.

Mubarak avrà forse capito che le timide prese di posizione della comunità internazionali gli offrono una sponda per tentare l’ultima carta. Quella di provocare una situazione di destabilizzazione totale, per legittimare la continuità di un sistema autoritario. Le forze armate sembrano divise tra la fedeltà al presidente – che come i suoi predecessori è un militare – ed il popolo, mentre le forze di polizia fedeli al presidente cercano di rompere il cordone ombelicale che lega i rivoluzionari di piazza Tahrir al resto del mondo, sperando così di fiaccarne la resistenza. L’ONU abbandona il paese, i giornalisti restano chiusi negli alberghi o subiscono le intimidazioni della polizia, quegli arabi fino a qualche settimana invisibili (come li chiama nel suo blog – www.invisiblearabs.org – ed in un riuscito libro la giornalista italiana Paola Caridi osservatrice attenta dei fatti egiziani), rischiano ora di scomparire di nuovo in un futuro troppo eguale al passato sofferto finora.

Più il tempo passa più aumentano le chances di una svolta dura, che tenga in sella il despota, mentre chi dimostra al Cairo per la libertà e la democrazia, rischia di essere progressivamente isolato dal resto della popolazione. Una popolazione che per ora assiste allo show down di piazza Tahrir e presto si potrebbe trovare di fronte alla scelta di sostenere i dimostranti pro-democrazia oppure Mubarak, scegliere tra il caos creato ad arte dal presidente e l’ordine imposto a filo di spada dallo stesso. Nel mezzo moltissimi giovani, pronti al sacrificio finale, forse in attesa di un segnale forte della comunità internazionale. Le rituali esortazioni da parte dell’ONU, dell’Unione Europea, dei vari consessi internazionali, finanche del Fondo Monetario Internazionale (!) appaiono tragicamente inadeguate di fronte di una tale situazione.

Dopo le dichiarazioni di circostanza Stati Uniti ed Unione Europa – misurando l’equilibrio tra pragmatismo e principi – non hanno alzato il livello della condanna e della pressione, forse anche per l’azione persuasiva di Israele, né hanno osato minacciare la sospensione degli aiuti, fino a 25 miliardi di dollari negli ultimi 25 anni da Washington nelle casse del regime. Per non parlare del paradosso degli aiuti dell’Unione Europea legata all’Egitto da un accordo di associazione entrato in vigore nel giugno 2004 con l’obiettivo (sic!) di promuovere la stabilità politica, lo sviluppo economico e la cooperazione regionale.

L’accordo come scritto sul sito dell’Unione Europea, incoraggia un regolare dialogo politico nei contesti bilaterali ed internazionali. Dov’è stata l’Europa dal 2004 ad oggi, e dov’è ora? A che vale una dichiarazione di condanna delle violenze se non si ha il coraggio di chiamare per nome chi delle stesse è responsabile? Nessuna potenza che siede nel Consiglio di Sicurezza ha osato chiedere la convocazione di una riunione di emergenza, per valutare gli sviluppi, mandare un segnale forte su una situazione che può avere ripercussioni a livello regionale, prospettare l’isolamento totale di un qualsiasi governo che nasca dal sangue degli egiziani, soffocandone il grido disperato. Intanto anche da Erevan in Armenia arrivano notizie di imminenti mobilitazioni per la democrazia.

Di fronte a questi fatti, noi, innamorati del diritto e dei diritti umani, ci sentiamo persi ed ammirati. Ammirati del coraggio, della disponibilità al sacrificio di nostri coetanei d’oltremare. Persi perché vorremmo fare qualcosa, dare un segno di sostegno o solidarietà. Questo il senso di alcune iniziative svolte negli ultimi giorni, dalla partecipazione ad un sit-in di esponenti della comunità egiziana, ad un dibattito sui fatti di Tunisia ed Egitto, ad un presidio di fronte all’ambasciata egiziana a Roma. Restano nella mente gli occhi pieni di lacrime di un egiziano di Rieti che si è unito oggi al presidio di Sinistra, Ecologia e Libertà, che spiegava la complessità della crisi, e gli strumenti a disposizione di Mubarak per reprimere il popolo egiziano, quella guardia presidenziale che nei fatti è un esercito di pretoriani disposti a tutto.

A noi resta una possibilità, quella di creare occasioni, di contribuire ad aprire spazi pubblici per gli egiziani che vorrebbero essere lì ma sono condannati a restare qua, capire insieme come sostenere il loro cammino verso la democrazia e la libertà. Lo possiamo fare aprendo canali, creando reti con le comunità migranti, contribuendo a rompere l’isolamento, informando e controinformando, denunciando la connivente inesistenza del governo italiano di fronte a questi fatti drammatici. Perché la dignità di quel popolo è la nostra dignità, il loro grido di libertà è il nostro, la crisi in Egitto è la crisi di un modello di democrazia senza più legittimità.

Come dice oggi un osservatore sul sito World Politics Review (http://www.worldpoliticsreview.com/trend-lines/7750/egypt-and-the-global-crisis-of-legitimacy) “Quel che accade oggi in Egitto è una condanna dell’ordine globale quello fino ad oggi rappresentato da un Egitto “stabile” (…). In un periodo nel quale la costruzione dello stato è al centro delle dottrine di sicurezza, e nel quale la presenza militare straniera in Afghanistan è fondata su un approccio scientifico verso la legittimità ed i sistemi di governo, gli eventi in Tunisia ed Egitto ci ricordano che l’ordine sociale e la legittimità politica sono più il risultato di un’alchimia imprevedibile che il prodotto di formule esatte”.

Francesco Martone

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