martedì 16 dicembre 2014

Dalla parte degli ultimi, ricordando Vittorio Arrigoni

Domani Abu Mazen presenterà all'Assembla Generale delle Nazioni Unite una bozza di risoluzione nela quale si chiede il ritiro delle truppe israeliane al di là dei confini fissati nel 1967. ieri Bibi Nethanyahu, evidentemente già in campagna elettorale, da Roma dove ha incontrato il segretario di stato USA John Kerry e Matteo Renzi, ha annunciato che Israele non si ritirerà mai. E chiede a Washington di assicurare il proprio veto alla risoluzione. Oggi Kerry incontra i mediatori palestinesi. Il caso vuole che siano gli stessi giorni nei quali si ricorda la storia coraggiosa di Vittorio Arrigoni. Un caso che ci mette di fronte per l'ennesima volta all'inadeguatezza della “politica” di raccogliere e dare risposta alle sofferenze di un popolo e di applicare il diritto internazionale. Ma anche di fronte al coraggio di chi si mette a disposizione in prima persona accanto agli ultimi, a coloro che per la “politica” vengono considerati come merce di scambio, Lo erano i civili di Gaza in un tragico gioco al rimpiattino tra Hamas e Gerusalemme, lo sono i palestinesi di Gerusalemme Est, gli arabo-israeliani, chi vive in una prigione a cielo aperto o in un campo profughi. Si dice che Abu Mazen qualche tempo fa abbia deciso di congelare la richiesta di adesione alla Corte Penale Internazionale, un atto di distensione possibile per tenere aperta la porta alla trattativa. Invano. A fronte di questo stallo, è assai importante la presa di posizione di vari parlamenti europei, che hanno riconosciuto più o meno simbolicamente lo stato di Palestina. Laddove i governi non danno risposte imbrigliati in loro stessi e nella loro realpolitik, sono i parlamenti a prendere la parola, ed a dare voce agli ultimi.
Si attende ora che altrettanto accada in Italia, dove stride il silenzio del governo. Basta dare una scorsa ai siti di Palazzo Chigi e Farnesina, e si nota che l'unico riferimento alla visita è una fotina con Renzi che sorridente, l'ombrello in mano accoglie Bibi. Nulla di più. Oggi Renzi sarà alle Camere per riferire sulla riunione degli Consiglio dei Ministri degli Esteri dell'Unione tenutasi ieri a Bruxelles. Tra i temi, Ucraina, Siria, Iraq, Di Palestina neanche l'ombra. Nel dibattito di oggi alle Camere Sinistra Ecologia Libertà presenterà una risoluzione al riguardo, nella quale tra l'altro si chiede un forte impegno dell'Europa per riaprire il negoziato tra Israele e Palestina, e di riconoscere lo stato palestinese. Questa la risposta al silenzio di Renzi ed all'equidistanza del ministro degli esteri Gentiloni.

sabato 13 dicembre 2014

Con gi occhi degli altri - contributo alla conferenza programmatica di SEL - Human Factor

Con gli occhi degli altri.

“Je suis l'autre” diceva il filosofo Emmanuel Levinas, in un approccio ripreso anche da uno dei principali filosofi inglesi d'oggi, Simon Critchley, nel suo troppo poco conosciuto in Italia, “Responsabilità infinita” o “Infinitely Demanding” ovvero etica dell'impegno, politica della resistenza. Da questa prospettiva credo si possa partire per tentare di ricostruire il senso dell'agire politico oggi, in una fase di crisi e di interregno.

La prima domanda propedeutica che mi viene alla mente leggendo Human Factor é :”dove sono gli altri?” Dove sono le migliaia di persone che quotidianamente costruiscono alternative, praticano modalità differenti, esercitano il potere senza comandare, si sforzano di aprire spazi di agibilità, sono in prima linea nelle periferie, negli spazi virtuali del lavoro che non c'è, nelle occupazioni, nella costruzione di distretti dell'economia solidale, o per bloccare opere inutili, o l'espansione della frontiera petrolifera, che coltivano biologico, o producono cultura e saperi. Se si mette il naso fuori dai nostri spazi, le nostre “comfort zones”, si sentono le loro voci. Ci chiedono: “dove siete?”. Forse anche noi ci domandiamo la stessa cosa, dove sono loro? Sempre dalla parte dell'osservatore che si accinge a mettersi per l'ennesima volta in viaggio mentre gente già in viaggio ce ne sta tanta e da tempo, magari non su un jet supersonico, ma lentamente, profondamente, e con dolcezza per dirla con Alex Langer. Ecco io credo che dovremmo essere noi l'altro.

L'altro, che poi dovremmo essere noi stessi, viene assimilato, fino forse a sparire, nel concetto di “fattore umano-human factor”. Non ho nulla in contrario all'uso di un anglicismo che nei fatti assume una critica diretta alla trasformazione della politica in “infotainment” e degli esseri umani in “risorse” o fattori di produzione. Quello che mi preme sottolineare è l'urgenza di andare oltre il concetto di un nuovo “umanesimo” , quando oggi il punto è quello di ricostruire una visione del mondo nel quale l'umano (che non è solo lavoro, o lavoratore, ma essere umano detentore di diritti fondamentali, in primis) è solo una delle parti, e dove la dignità umana è parte integrante assieme alla salvaguardia degli ecosistemi. 

Non ci può essere giustizia sociale senza giustizia ambientale. Se guardiamo quindi al nesso tra umani ed ecosistemi, il principale elemento di crisi con il quale fare i conti oggi è l'emergenza dei cambiamenti climatici, giustamente accolto come punto chiave nel documento. Una crisi che non può essere semplicemente risolta con un'enfasi salvifica dalla semplice conversione ecologica dell'economia, quando il problema è – per dirla con Serge Latouche, del quale però stento a condividere appieno la mistica della decrescita – quello dell'occidentalizzazione del mondo, della trasformazione in economia di tutto, della finanziarizzazione dei nostri diritti, dell'aggressione quotidiana agli stessi. Allora, per permettere una vera conversione, che non sia alla fine “maquillage verde” fatto di false soluzioni, quali il carbon trading, o l'uso di meccanismi di mercato, una cosa va detta. E le parole di Eduardo Gudynas ascoltate qualche giorno fa alla Cumbre de los Pueblos per la giustizia climatica a Lima sono state di grande chiarezza: non possiamo permetterci di tirare fuori altro petrolio, punto. Il tema della conversione ecologica deve partire da questo, dall'assuzione del “limite”, (“Limiti alla crescita” diceva decenni or sono – era il 1972! - un essenziale testo dell'ambientalismo, il rapporto Meadows del Club di Roma) una critica alle politiche energetiche, di sviluppo, dalla rottura del ricatto del debito e dell'austerity per fare cassa. L'ambiente non è questione di riforma del sistema di mercato o di rispetto e culto del paesaggio o della bellezza, è un tema di profonda trasformazione del modello, una transizione non nello sviluppo ma “dallo” sviluppo. Non è possibile però alcuna trasformazione del modello economico estrattivista, che estrae petrolio dalla terra, valore finanziario dall'aria o dalla vita, che estrae tempo ed energie vitali al nostro diritto alla felicità, senza una profonda trasformazione del sistema politico, una revisione a tutto tondo che rimetta al centro la democrazia reale, e che riconosca l'entita della vera sfida: da una parte quella di “democratizzare realmente la politica” e dall'altra di contribuire alla “ri-politicizzazione dello spazio pubblico”.

Uno spazio pubblico che è anche “comune”, politica come “commons” necessario per la ricostruzione di uno spazio pubblico transnazionale, ad esempio l'Europa. Questo passaggio rimette in discussione anche le vecchie categorie della sinistra, il pubblico, l'intervento dello stato, la cittadinanza. A vedere bene, oggi la crisi del concetto e della pratica della governance (o governabilità della compatibilità) è infatti anche la crisi del sistema che vedeva tradizionalmente legati in un rapporto quasi contrattuale stato, mercato e società civile. Un sistema nel quale irrompe la finanza, l'economia speculativa, fino a procurarne la trasformazione. Lo stato restringe le sue attribuzioni e ruolo, non scompare ma si mette al servizio del mercato, che a sua volta viene trasformato dalla finanza, il cittadino o società civile si trasforma in cliente o utente. Oggi ci sono elementi che attraversano tutt'e tre le dimensioni della governance, fino a metterla in discussione profonda. Oltre alla finanza, il “comune” o “commons”, allo stato attuale forse l'unico antidoto alla finanziarizzazione. Ma non la spuria ricostruzione di una nuova forma di comunismo, o “benicomunismo”. Sono i “commons” come intesi da Ivan Illich, non definibili o normabili, ma che da una parte sono beni materiali ed immateriali essenziali per la vita e la dignità di questa generazione e delle generazioni a venire, dall'altra devono essere resi indisponibili al mercato e gestiti in modalità collettive. E si badi bene, con un profondo senso di responsabilità e cura, perché sono beni ereditati dalle prossime generazioni.

Torniamo alla domanda iniziale. Chi è l'altro? Da una parte chi cerca l'alternativa forse, e la esercita, assai probabilmente senza più percepire la necessità di una rappresentanza politica. Dall'altra chi è altro da noi, dal nostro universo di riferimento valoriale, etico, politico, sociale e culturale. Quella mucilagine di cui parlava a suo tempo il CENSIS. Allora, il compito arduo è quello di indagare, di scandagliare, di andare a recuperare ciò che resta, ciò su cui tentare, in un'opera collettiva, di ricostruire il senso dell'agire politico. Nel mentre non possiamo abbandonarci alla mera ricerca, piuttosto dovremmo rimettere al centro l'urgenza di intervenire contro le diseguaglianze, metter freno all'erosione progressiva dei diritti, contrastare l'avanzata dei nuovi poteri “duri”, che usano strumenti come il ricatto del debito, del pareggio di bilancio, la deregulation, l'aggressione alle risorse naturali, la conversione del sistema produttivo in apparato industrial-militare. Accanto al contrasto, la proposta, con l'attenzione di non cadere nella sindrome della “lista della spesa”, ma modulando ipotesi di lavoro coerenti, e legate tra loro. Su questo la proposta di struttura di lavoro delle giornate di Human Factor mi pare azzeccata.

Azzeccata perché orientata all'azione e non alla contemplazione. Giacché è ormai ineludibile chiedersi se oggi l'agire politico non debba essere fatto di concretezza, di risposte concrete ai bisogni materiali delle persone, di resistenza nonviolenta e partecipata all'avanzare del mercato e della finanza, da una parte e di costruzione di spazi di liberazione dall'altra. Spazi reali o virtuali, concreti o immateriali, dalla produzione di cibo, alla creazione di orti urbani, alla sperimentazione artistica, alla resistenza nei territori, dall'uso degli strumenti di democrazia diretta (si vedano le raccolte di firme per l'abolizione del pareggio di bilancio o in passato i referendum sull'acqua ed il nucleare), cyberattivismo e costruzione di reti. Ho detto non a caso resistenza nonviolenta, riferendomi alla nonviolenza come modalità di creazione di relazioni e nessi, una pratica che riconosce il conflitto come elemento essenziale di una democrazia viva, attiva, ma che lo metabolizza, lo abita, lo decostruisce nello sforzo di costruire un legame differente tra i cittadini ed il potere, tra i cittadini e lo stato. Ha ragione Annah Arendt, quando dice che lo spazio politico è un “rifugio dalla violenza” piuttosto che la sistemizzazione della violenza. Ed è questo spazio politico e pubblico che dobbiamo mettere al centro della nostra indagine e proposta.

Per questo oggi come non mai è dalle pratiche – ed anche dai conflitti (“abitati”) - sociali che si può ricostruire un progetto di società giusta, orizzontale, che metta al centro la dignità degli umani, e la tutela del Pianeta e la proposta di lavoro delle tre giornate appare coerente con tale obiettivo. Per questo la nostra discussione dovrà lasciare spazio o meglio lasciarsi compenetrare dalle pratiche sociali e politiche “altre” , farsi “aprire” dagli altri oltre che aprirsi agli altri.

Passiamo ora allo spazio: il nostro sguardo dove si rivolge? In alto? In basso? Attraverso? All'altezza degli occhi? Oltre il proprio naso? Prova a superare frontiere e confini? Si tratta forse di mettere a punto una visione cosmopolita dell'agire politico, saper cogliere l'altro oltre i confini ormai usurati – nel bene o nel male - dello stato-nazione, il rimettere in discussione la costruzione di “frontiere” visibili o meno. Da quella in mare che condanna migliaia di esseri umani a morire nel fondo del Mediterraneo, a quella invisibile ma tragica che separa i centri dalle periferie, nele città come nel mondo. Un mondo che ormai non ha confini per le merci, ma che fa la guerra per difendere o per far saltare confini politici, al seguito di utopie nazionaliste o identitarie, che siano di razza o religione. Questo dimostra la difficoltà di essere cosmopoliti, e di accettare di vivere in una società multiculturale e plurietnica. Credo che per poterlo fare sia necessario ed essenziale decolonizzare il nostro linguaggio e la nostra pratica. Dove sono i migranti, o le seconde generazioni? Dov'è l'interculturalità nella nostra analisi, proposta e pratica politica? Dov'è l'Islam? Dove sono i Rom, Sinti, Camminanti, Khorakané? Non basta invocare l'antirazzismo, o ritualmente condannare l'ennesimo atto di xenofobia, o strage in mare. Occorre vedere l'altro, comprenderlo, quando l'altro non è solo pratica politica ma soggetto di diritto al quale i diritti vengono negati. 

A questo si collega anche il concetto proprio del pensiero femminista di “agency”, ossia la determinazione e la consapevolezza dei cittadini e cittadine, o meglio di soggetti incarnati, di essere soggetti attivi, e quindi la necessità di adottare un modello di analisi dei processi politici e sociali che metta al centro gli “agenti” e decostruire quegli approcci che vedono i soggetti detentori di diritti come vittime dell'ordine delle cose. Senza scordarci che l'altro esiste comunque e a prescindere dalla capacità di un partito politico di “svelarlo” o comprenderlo, qualora ci siano gli strumenti o la volontà politica di farlo. E mettendo in conto che alla fine è anche possibile che - come acutamente disse Julia Kristeva - “nous sommes etrangeres a nous memes” siamo stranieri a noi stessi.

C'è poi lo spazio per l'azione di trasformazione politica,   coordinata essenziale per un soggetto che vuole essere ponte, cerniera tra il potere e la società. Chritchley ci dice che la vera politica si pratica in quello che lui definisce “uno spazio interstiziale all'interno dello Stato”, spazio e spazi che non sono dati, sono creati dalla pratica politica. Forse il soggetto o la soggettività politica multiforme che potrebbe originare anche dal confronto sul “fattore umano” dovrà – e per farlo dovrà dotarsi degli strumenti necessari – definire, coltivare, arricchire lo spazio interstiziale tra il potere dello Stato e l'assenza di potere, tra la critica e la costruzione di alternative. Credo infatti, e l'esempio più evidente mi pare essere la genesi di Podemos, che il tema sia quello di ricostruire uno spazio pubblico, attraverso la ridefinizione della sfera del potere (quel potere oggi in mano alle banche, agli organisimi finanziari, all'apparato industrial-militare ad esempio) e l'ampliamento della sfera della potenza , di quella della società che costruisce, pratica, elabora. Allora, ne consegue che la nostra azione politica dovrà essere orientata alla rielaborazione della sfera del “potere” per contribuire ad allargare quella della “puissance”, della potenza dei soggetti di diritto, degli “agenti”, dell'altro. E così facendo scoprirsi di essere “degni di ciò che accade”, per dirla con Gilles Deleuze.

Per farlo, dovremo immaginare una profonda riconfigurazione della forma dell'eventuale soggetto politico giacché la forma è sostanza, il processo è contenuto. Quale forma darsi, dovrà essere determinato dall'obiettivo politico, sarà la partita a definire lo strumento e non viceversa. Ed allora, si dovrà immaginare una struttura orizzontale, policentrica, diffusa, aperta, che si ispira ai modelli di open source, intelligenza collettiva, condivisione in rete. Un insieme di nodi, soggetti, realtà che mettono in comune storie, competenze, pratiche, analisi, elaborazioni. Un nuovo soggetto politico più che concentrare o coordinare dovrà agevolare sinergie, alleanze, relazioni tra coloro che già praticano il cambiamento sociale. In sommi capi significa che piuttosto che dotarsi di un organigramma classico, verticale, si dovrà pensare a qualcosa di radicalmente differente. Ad un nodo centrale, che irradierà verso gli altri nodi informazioni, strumenti di azione politica, competenze, conoscenza. Un nodo centrale orientato su temi che connotano la “missione” , da quella sui diritti civili, a quella della pace e della cooperazione, a quella dell'Europa federale, a quella della trasformazione ecologica dell'economia, i diritti del lavoro...Dal nodo centrale partono stimoli, proposte di campagne ed iniziative, verso i nodi decentrati. Questi non saranno altro che le vecchie “sezioni” o “circoli” riconfigurati come spazi aperti, di innovazione e buone pratiche, snodi di incontro ed iniziativa politica. Eppoi a livello territoriale, nei nodi, sarà possibile proporre anche forme e patti federativi con realtà di base esterne a SEL, associazioni, movimenti che condividono gli obiettivi e le priorità politiche. Stesso rapporto “federativo” può essere sperimentato attraverso una riattivazione dei forum, luoghi di connessione, terzi spazi tra soggetto politico, ed altri soggetti, individui o organizzati che lavorano sui temi specifici. Giacché quelle realtà associative intendono costruire relazioni con la “politica” sulla base di obiettivi chiari e competenze comprovate. Dal nodo centrale partono anche proposte di campagne su temi chiave, mirate a conseguire obiettivi chiari e qualificabili, da perseguire con gli strumenti della rete, dell'ciberattivismo, ed anche con strumenti classici o innovativi di comunic-azione, dai flashmob, alle azioni dirette nonviolente, agli strumenti di democrazia diretta, dai referendum alle leggi di iniziativa popolare. Nei nodi vige la regola del consenso, e la rotazione delle funzioni di facilitazione e coordinamento. Altro nodo sarà quello delle rappresentanze istituzionali, dai parlamentari eletti agli amministratori locali. La rappresentanza istituzionale deve essere parte integrante di questo processo di creazione di intelligenza collettiva,e di azione politica, attraverso gli strumenti, le risorse e le prerogative proprie. Dovranno anche loro contribuire a costruire questi terzi spazi di relazione, rappresentanza, iniziativa politica dal basso e verso l'alto. 

E per chiudere il tema che comunque al netto di tutte le analisi torna e tornerà alla nostra attenzione. Ma poi, come ci mettiamo alle prossime scadenze elettorali? Aspettiamo che gli eventi altrui determinino le nostre scelte? O decidiamo di evitare di cadere nella trappola così efficacemente descritta da Jacques Derrida, quando sottolinea come sia difficile pensare al nuovo quando ciò dipende dall'evento di altri? Ritorna quindi il tema del potere e del rapporto con le istituzioni. Su questo, e per concludere, prendo in prestito le parole di Immanuel Wallerstein, tratte da un suo illuminante articolo di qualche anno fa sulla sinistra del XXI secolo:
 
.”..Ci sono quelli che vogliono essere pragmatici, Vogliono lavorare dall'interno - all'interno del principale partito di centrosinistra laddove esiste un sistema multipartitico. (...) Ed ovviamente ci sono quelli che condannano questa politica di scegliere il male minore. (...) Il fatto è che la stragrande maggioranza del 99% sta soffrendo duramente nel breve periodo. Ed è questa sofferenza la loro principale preoccupazione. Stanno cercando di sopravvivere, ed aiutare le loro famiglie ed i loro amici a sopravvivere. Se pensiamo al governo non come agente potenziale di trasformazione ma come strutture che possono avere una certa influenza sulla sofferenza a breve periodo, attraverso decisioni politiche immediate , allora la sinistra è obbligata a fare ciò che può per ottenere da questi decisioni che possano minimizzare la sofferenza.

Con gli occhi degli altri , lo sguardo rivolto all'altro, e quindi a noi stessi.



mercoledì 10 dicembre 2014

La terra del Buen Viv

 LIMA – Una cerimonia rituale attorno ad un caracol fatto di frutti della terra e di pannocchie di mais sparsi a terra. La leader indigena ecuadoriana Blanca Chancoso cammina tra i dirigenti e le dirigenti dei movimenti sociali qua a Lima per la Cumbre de los Pueblos, con una coppa nella quale arde legna profumata. É per dar loro il benvenuto, mentre intorno si organizza un picchetto spontaneo di contadini che poi marceranno nel grande parco delle esposizioni per protestare contro la megadiga di Conga. Spunta anche una bandiera No Tav.

Il fulcro della Cumbre è al centro di Lima al Parque de las Exposiciones, un anello di tela verde, intorno al quale sono stati costruiti stand dei movimenti sociali che testimoniano la resistenza e la tutela della terra e della biodiversità. Più in là grandi tende verdi pistacchio. L’entrata, accanto al Museo Metropolitano di Lima, sede di una esposizione su arte, estetica e sostenibilità è presidiata da poliziotti in tenuta antisommossa. Incontro Rosa Guillen della Marcha Mundial de las Mujeres e responsabile internazionale della Cumbre, conosciuta sei anni fa quando assieme organizzammo una sessione del Tribunale Permanente dei Popoli per giudicare le imprese europee in America Latina. “Dobbiamo risentirci presto e con calma, Rosa – le dico – l’Italia sta ratificando il trattato di libero commercio tra Ue, Perù e Colombia”.

Passata la cerimonia, l’odore dolce del pau santo nell’aria, riprendono i seminari, uno in particolare richiama la mia attenzione. È un seminario sui mutamenti climatici e le economie di transizione, con due oratori di eccezione, Eduardo Gudynas del Cleas Uruguay, che finalmente riesco ad ascoltare di persona, e l’amico di vecchia data ormai, Alberto Acosta, della Flacso, Ecuador. Si è parlato di come arrivare gradualmente alla costruzione di un’alternativa fondata sul buen vivir, sganciandosi progressivamente dalla dipendenza dall’estrazione di combustibili fossili, alla progressiva decarbonizzazione dell’economia, così necessaria per assicurare la sopravvivenza del pianeta.


Gudynas snocciola cifre, dice “ci troviamo come un paziente in stato grave al pronto soccorso, dobbiamo iniziare la cura, non possiamo aspettare ancora. Al massimo possiamo ancora immettere nell’atmosfera 1.800 gigaton di anidride carbonica. Le riserve fossili conosciute ad oggi ammontano a cinque volte tanto, e se si prendono in considerazione anche le fonti non-convenzionali la cifra sale. Per mantenerci in vita dobbiamo limitarci ad usare un terzo delle riserve conosciute. Non c’è via di scampo, o smettiamo gradualmente di pompare petrolio o è la fine. Ma proprio dall’America Latina può partire l’alternativa”.

Come fare? Si parte dalla riduzione delle emissioni, e si arriva alla riduzione della dipendenza dai mercati internazionali con un programma chiaro. Stop a nuove estrazioni petrolifere in zone a rischio, dove vivono popolazioni indigene.

Poi sostenere uso selettivo del petrolio, solo per scopi di trasporto collettivo, riducendo i sussidi, frenando la speculazione sui prezzi, e stimolando la mobilità sostenibile, Proteggere le foreste, e ridurre la dipendenza dai fertilizzanti, attraverso agricoltura organica. Pensarci insomma nella prospettiva delle sette generazioni, quella indigena. E prefiggerci di arrivare al buen vivir entro 175 anni. Gudynas mostra una agevole infografica , e ridendo dice:” si ma non ci vengano a proporre la Pachamama nucleare!”, in riferimento al sogno atomico di Evo Morales.

Alberto Acosta rincara la dose. “Siamo un paese che esporta quasi solo petrolio, ma poi lo reimporta come benzina perché non sappiamo raffinarlo. Il tema però è come usare il petrolio disponibile meno e aumentarne il prezzo. Non si deve reinventare la ruota – dice Acosta -, basta ascoltare la conoscenza indigena, quella del Sumak Kawsay, assicurando armonia con la natura e con la dignità umana. Noi in Ecuador dipendiamo dal petrolio , il petrolio rappresenta il 18 per cento del Pil, ma mica siamo Sstato, è anche prerogativa delle comunità, dei municipi, di un progetto di sovranità energetica a livello territoriale, decentrato. Non grandi dighe ma piccoli impianti di produzione di energia idroelettrica ad esempio. Sostegno al rinnovabile su piccola scala, il solare ed il geotermico in primis. Il significato della campagna ITT Yasuni – “Lasciare il petrolio sottoterra” è anche questo. “Peccato che poi questa è stata stravolta dalla decisione di Correa di archiviare il tutto” dice Acosta. La contraddizione propria del Socialismo del XXI secolo continua: per pagare un debito sociale per le generazioni attuali, attraverso l’aumento della spesa sociale, si accumula debito ecologico per quelle a venire.

E non solo visto l’effetto devastante delle attività di estrazione, e l’apertura delle infrastrutture necessarie. Una costante nelle vertenze e nelle denunce delle comunità indigene aggredite. La loro voce si è sentita il giorno prima, poco lontano l’accampamento verde della Cumbre nell’auditorium del museo di arte di Lima, Mali. All’apertura della Cumbre si è tenuta un’“udienza” dei popoli indigeni su deforestazione e cambio climatico, alla presenza della relatrice Speciale delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, la leader indigena Igorot delle Filippine Vicky Tauli Corpuz. Nel corso dell’udienza l’ong Forest Peoples Programme ha lanciato un rapporto globale sulla deforestazione ed i diritti dei popoli indigeni, il rapporto di Palanka Raya, dal nome della città nel Borneo in cui si è tenuto a marzo il primo seminario di lavoro collettivo che ha prodotto la dichiarazione di Palangka Raya sulla deforestazione ed i diritti dei popoli delle foreste, e poi il rapporto globale. Venti milioni di ettari di foresta tropicale sono scomparsi solo nel 2012, in alcuni paesi del bacino del Congo l’accelerazione è ancor più evidente, ed i popoli indigeni sono ormai sotto assedio,

Un assedio causato dall’espansione delle attività estrattive, piantagioni di palma da olio e biofuel, grandi infrastrutture, per alimentare il modello di sviluppo e consumo globale. Gli effetti sono aggravati dall’assenza di leggi per tutelare il diritto alla terra, al territorio ed alle risorse dei popoli indigeni, sempre più marginalizzati nei processi decisionali, e minacciati se non uccisi per il loro impegno in difesa della Madre Terra. L’udienza ha avuto momenti di grande emozione fin dall’apertura con il minuto di silenzio per ricordare il leader indigeno ecuadoriano Jose Isidro Tendetza Antun, poi citato nche dal presidente della Conaie José Herrera, e nelle parole rotte dal pianto della fiera leader indigena Sharon Atkinson, dell’Amerindian Peoples’ Association della Guyana.

Sempre dalla Guyana, Nicholas Frederick del popolo Wapichan, illustra le alternative alla deforestazione, programmi comunitari di mappatura partecipata e produzione di piani di sviluppo comunitario. La conoscenza tradizionale e il riconoscimento dell’autonomia e del diritto alla terra sono al centro degli interventi di Onel Masardule, Kuna di Panama che ricorda la lotta del suo popolo settant’anni fa contro lo stato centrale, e il rifiuto del congresso Kuna di ogni forma di commercializzazione delle proprie terre. O Simon Valencia Lopez della Colombia leader di uno dei più grandi territori indigeni “demarcati” dell’America Latina.

A fronte delle alternative restano però le minacce: i piani di sviluppo infrastrutturale dell’Iirsa denunciati da Robert Guimaraes Vazquez della regione di Ucayali, o le grandi miniere dall’impatto devastante come testimonia Rene Ngongo, della Repubblica Democratica del Congo, già insignito del prestigioso Goldman Environmental Award. Grida la sua indignazione e determinazione Ruth Buendia del popolo Ashaninka del Perù pronto alla resistenza ad oltranza, dopo aver perso alcuni suoi leader come Edwin Chota che si opponevano alle imprese del legname. O Josias Manhuary, capo dei guerrieri del popolo Mundurucu dell’Amazzonia Brasiliana in resistenza contro le grandi dighe portato all’udienza da Greenpeace Amazzonia. O ancora, il capo cinto da un copricapo piumato, il viso “pintado” con i colori del guerriero, Manari Ushiugua, del popolo Sapara dell’Ecuador, minacciati di estinzione dalle invasioni delle imprese petrolifere. Ecco il volto umano della Cop (Conferenza delle parti sul clima), quello che nel Pentagonito di Lima scompare dietro il linguaggio “onusiano”, asettico e ambiguo per non urtare la suscettibilità di nessuno.

Lontano anni luce. Sono all’aeroporto per rientrare in Italia, sento parlare due delegati, un africano ed un’indonesiana. “Ecco anche stavolta ci proporranno l’ennesimo piano di azione, per tenere tutti intorno al tavolo prima di Parigi, A Doha hanno parlato di via d’entrata, a Cancun di accordo, a Durban di piattaforma. Che si inventeranno ora?”. Lo sapremo il 12 dicembre.

lunedì 8 dicembre 2014

L'AGIP ed i diritti della Madre Terra


LIMA – Josè Isidro Tendetza Antun doveva venire a Lima per testimoniare davanti ad un Tribunale di opinione sui diritti della natura. Era scomparso dal 28 novembre, il suo corpo è stato ritrovato con segni di tortura dopo una soffiata. Tendetza era un leader indigeno shuar che si opponeva alle attività di un’impresa mineraria sino-ecuadoriana ed aveva già subito gravi intimidazioni. Il suo omicidio è ulteriore riprova della violenza verso gli attivisti ambientalisti e indigeni in Ecuador.

L' avevo già potuto constatare in agosto quando ero a Quito e ho incontrato vari rappresentanti di organizzazioni ambientaliste e contadine, per una ricerca sull’industria della palma da olio. Domenica 7 dicembre, mentre partecipavo alla catena umana organizzata da AmazonWatch sulla spiaggia di Miraflores, incontro una leader indigena ecuadoriana, amica di vecchia data. “Francesco, è il caso che ci sentiamo presto. L’Agip sta riprendendo a trivellare, sta allargando il campo delle sue attività nelle nostre terre”.
Ricordo quando anni or sono andai a Puyo, ospite dell’Organizzazione dei Popoli Indigeni del Pastaza. Mi fecero sorvolare campo Villano per farmi vedere la contaminazione, feci un’assemblea nella quale mi diedero il testo di un contratto tra i Huaroani e l’Agip con cui in cambio di petrolio si regalavano tra l’altro magliette e palloni da calcio, e si impegnavano i Huaorani ad assicurare il corretto svolgimento delle attività di estrazione. Qualche anno dopo li rividi, a Quito, negli uffici di Fundacion Pachamama (chiusa d’autorità poco meno di un anno fa dal governo Correa), venivano da Puyo e da Sarayaku, la comunità di origine di Paty Gualinga, leader indigena presente qua a Lima.

Ricordo che ogni volta che presentavo un’interrogazione parlamentare sul caso Agip in Ecuador ed in Nigeria la risposta pareva una velina dell’ufficio stampa del cane a sei zampe. Certamente con il clima che si respira ora in Ecuador, l’impresa avrà vita facile. Non sarà così per le comunità minacciate dall’avanzata della frontiera estrattivista e petrolifera. Tra queste i Sapara – è qui a Lima una loro agguerritissima leader Gloria Ishugua Santi  in prima linea per difendere il suo popolo dalle imprese petrolifere. Pati mi dice con un velo di tristezza, se non le fermano i Sapara spariranno, ne sono rimaste poche centinaia.

Nel frattempo le cancellerie di Quito e Berlino sono sull’orlo di una crisi di nervi e non solo. Il motivo? La decisione perentoria del governo ecuadoriano di vietare una missione di una delegazione di parlamentari della commissione ambiente del Bundestag che volevano visitare Yasuni e incontrare gil Yasunidos. Gli stessi che sono stati accolti come eroi dal Tribunale per i Diritti della Terra, svoltosi all-hotel Bolivar, dopo essere stati bloccati più volte dalla polizia ecuadoriana assieme ad una carovana climatica che dal Messico si stava dirigendo verso Lima per partecipare alla Cumbre de los Pueblos ed alla Marcia per la giustizia cimatica il prossimo 10 dicembre.

sabato 6 dicembre 2014

Il clima secondo il piccolo Pentagono

LIMA – Terzo giorno di negoziati qua al Pentagonito, nel quartiere di San Borja. I delegati stanno ora negoziando su vari fronti, finanze, mitigazione, metodologie tecniche, assetti istituzionali: il succo del negoziato sul clima è nella trattativa sulla Piattaforma di Durban. Ora si tratta paragrafo per paragrafo il programma di lavoro per l’avanzamento della Piattaforma, che contiene una serie di “desiderata” rispetto alle attività di mitigazione finanze, riduzione delle emissioni. Il risultato probabilmente verrà rinominato “Lima Action Plan”, Piano di Azione di Lima.
Intanto, le delegazioni non governative stanno elaborando le loro proposte di emendamento, paragrafo per paragrafo. Continuano anche le attività nell’area contigua al Pentagonito, quella delle “Voci del Clima” dove tra l’altro è collocata un’installazione sui popoli indigeni dell’Amazzonia, il “padiglione indigeno”.
Da fuori arrivvano notizie sulla Carovana Climatica che sta attraversando l’Ecuador per arrivare a Lima. Bloccata dalla polizia ecuadoriana, con giustificazioni pretestuose, ennesimo esempio di criminalizzazione dei movimenti sociali e ambientali, un tema che attraversa le discussioni sottotraccia. Qua in Perù una decina di leader indigeni sono ancora sotto processo per terrorismo dopo il “Baguazo”, i fatti di Bagua di qualche anno fa quando la polizia peruviana assaltò un blocco stradale indigeno, e dagli incidenti che ne conseguirono persero la vita indigeni e poliziotti. Stesse parole vengono dalle rappresentanze indigene indonesiane. Insomma il tema del cambio climatico è un tema che racchiude in sé tutte le contraddizioni del modello di stato e di sviluppo correnti.

La pressione continua su risorse naturali scarse e ecosistemi delicati porta con sé la repressione militare e poliziesca di chi lotta per proteggere le proprie terre. La catena logica, secondo Mayra dell’Ong colombiana Dedise, è questa: il tema della mitigazione riguarda anche il sostegno alle piantagioni di palma da olio per biofuel; il settore della palma da olio in Colombia è quasi tutto nelle mani degli ex-paramilitari, che si convertono in attori economici, e si stabiliscono nei territori dai quali l’esercito e i paramilitari avevano scacciato i contadini e le popolazioni autoctone. “Sai, forse non lo sapete che un’impresa italiana, con capitali italiani, opera nel settore dell’olio di palma e si sta stabilendo proprio in un territorio sotto il controllo degli ex-paramilitari?“.
Quelli di Dedise raccontano anche del legame stretto tra questo caso e l’Accordo di Libero Commercio tra Unione Europea, Perù e Colombia attualmente in fase di ratifica alla Commissione Esteri della Camera. E del rischio di landgrabbing. Il tema del cambiamento climatico sempre più diventa anche tema di interesse dei militari. Da qualche anno ormai nelle visioni strategiche degli stati maggiori il climate change è visto come una delle principali minacce alla sicurezza, se non la principale. Siccità, spostamenti forzati di popolazioni, ma principalmente necessità di proteggere tali risorse scarse anche con l’uso della forza. Il rischio di una “securitizzazione” del discorso ambientale quindi è evidente, con tutte le conseguenze che ne derivano. Mayra sorride: “Francesco ma pensaci su, mica è un caso che la conferenza COP il governo peruviano principale alleato di Washington ha deciso di farla nella basemilitare del Pentagonito” . Già il “Piccolo Pentagono”.