mercoledì 29 luglio 2015

I colpevoli silenzi di Renzi in Israele e Palestina


In Israele e Palestina, nel corso del suo recente viaggio, il premier Matteo Renzi avrebbe avuto più volte occasione di riaffermare alcuni punti imprescindibili relativi all'occupazione, all'urgenza di riavviare un processo di negoziato per assicurare il rispetto del diritto internazionale e neppure riferito alla formula rituale dei due stati per due popoli, pur desueta e nei fatti resa oggi impraticabile dai cosiddetti “facts on the ground” ovvero la fitta espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Non è stato così, ed ha fatto bene Pax Christi in un suo comunicato (http://www.paxchristi.it/?p=10694) a stigmatizzare duramente le reticenze del premier ed il suo silenzio in risposta all'appello di Abu Mazen al rispetto della legalità internazionale. Avrebbe avuto dalla sua la forte presa di posizione del Consiglio dei Ministri degli Esteri Europei che proprio qualche giorno prima della sua missione in Medio Oriente, il 20 luglio, ha prodotto una dichiarazione nella quale si riaffermava la condanna dell'occupazione e degli insediamenti, e delle continue violazioni del diritto internazionale, attraverso la costruzione del muro, la demolizione di abitazioni palestinesi, i reinsediamenti forzati, e la violenza dei coloni. (http://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2015/07/20-fac-mepp-conclusions/)

I ministri degli esteri UE hanno poi ricordato la gravissima situazione a Gaza, e invitato Israele ad agevolare l'invio di aiuti umanitari, la ricostruzione e la ripresa economica. Insomma, una presa di posizione - seppur giustamente equilibrata da richieste chiare anche alla controparte palestinese – che non lasciava adito a fraintendimenti e che ribadiva la validità della formula dei due stati per due popoli. Tuttavia nelle dichiarazioni ufficiali del premier in Israele nulla di ciò sembra essere stato evocato. Solo parole di riconoscimento e amicizia con Israele, e un generico appello a non sostenere campagne di boicottaggio. “Chi pensa di boicottare Israele non si rende conto di boicottare se stesso, di tradire il proprio futuro”. E “L’Italia sarà sempre in prima linea nel forum europeo e internazionale contro ogni forma di boicottaggio sterile e stupido”.
A tal riguardo vale la pena di ricordare alcuni fatti. Il primo, è che per Israele qualsiasi strumento di pressione commerciale o finanziaria volto a richiamare il governo israeliano alle sue responsabilità riguardo alla violazione del diritto internazionale attraverso la costruzione di insediamenti è da considerare un boicottaggio, Anche le linee-guida dell'Unione Europea sulla collaborazione nei territori occupati, o le intenzioni più volte annunciate da parte della Commissione di emanare linee-guida sull'etichettatura dei prodotti provenienti dalle colonie.

Le parole del Presidente del Consiglio non sono state forse dette a caso. Nello stesso documento del Consiglio dei Ministri Europei del 20 luglio infatti si riafferma l'impegno della Commissione ad assicurare l'attuazione della legislazione esistente sui prodotti provenienti dalle colonie, in quella che vari osservatori hanno letto come un'accelerazione. Quella del “labeling” è una storia lunga, che da anni si discute a Bruxelles. Nei fatti null'altro si propone se non un'etichettatura differenziata per i prodotti delle colonie israeliani dei Territori Occupati, che al momento vengono vedute in Europa come Made in Israel. Con altra etichetta che ne chiarisca la provenienza da insediamenti illegali si darebbe l'opportunità ai consumatori di discriminare in negativo questi prodotti, e scegliere di non acquistarli per non contribuire economicamente all'occupazione. Nonostante ripetuti annunci, l'ultimo dei quali da parte di Lady Ashton, secondo il quale entro il 2014 si sarebbe provveduto all'emanazione di linee guida sull'etichettatura dei prodotti dalle colonie, le pressioni delle lobby ed il timore di essere accusati di antisemitismo dal governo israeliano hanno sempre rallentato l'adozione di tali linee guida. Nel frattempo però alcuni stati membri decisero di far da soli, iniziando con il Regno Unito nel 2009, seguito poi da Danimarca nel 2012 e Belgio nel 2014. Poi più di recente, ad aprile 2015 ben 16 ministri di stati membri, inclusa l'Italia, hanno scritto alla Commissione per chiedere con forza l'applicazione delle linee guida. Già nell'estate del 2014, alcuni stati membri tra cui l'Italia, avevano avvisato le proprie imprese rispetto alle possibili ricadute di eventuali attività di finanziamento o investimenti nelle colonie israeliane.  

Ciònonostante, come denuncia la campagna italiana BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) nel dicembre 2013 ACEA aveva già firmato un accordo con la compagnia israeliana Mekrorot mentre l'impresa Pizzarotti partecipa alla costruzione del treno ad alta velocità tra Gerusalemme e Tel Aviv, attraversando per circa 6 kilometri la Cisgiordania. La Commissione aveva anche in passato - precisamente nel luglio 2013- emanato linee guida su finanziamenti e partecipazione in attività nei territori occupati. La Campagna BDS (http://bdsitalia.org) è una campagna nonviolenta che la società civile palestinese ha legittimamente proposto alla comunità internazionale come forma di pressione su Israele, per chiedere il semplice rispetto dei diritti umani e delle risoluzioni ONU.
Di recente il primo ministro israeliano Nethanyahu ha protestato energicamente contro l'Alto Commissario Federica Mogherini bollando come boicottaggio le misure della UE mirate essenzialmente ad assicurare il rispetto dei diritto internazionale violato attraverso l'occupazione dei territori e le politiche di espansione degli insediamenti. Non è una novità. ma  le parole di Matteo Renzi contro il boicottaggio sembrano accogliere questa linea. Ancora, proprio negli stessi giorni nei quali veniva pubblicata la dichiarazione del Consiglio dei Ministri degli Esteri della UE e Matteo Renzi si apprestava a suo viaggio in Medio Oriente, lo European Council for Foreign Relations, ha reso noto un nuovo documento a firma di Mattia Toaldo e Hugh Lovatt, dal titolo “EU differentiation and Israeli settlements” (http://www.ecfr.eu/publications/summary/eu_differentiation_and_israeli_settlements3076) che riprende il tema delle sanzioni, analizza le politiche europee al riguardo e giunge ad una serie di importanti conclusioni. La prima è che la UE, non avendo adottato una chiara posizione di differenziazione tra Israele e territori occupati, rischia di violare le sue stesse leggi, a fronte di un'obbligo legale di attuare tale distinzione. I due ricercatori propongono inoltre di allargare ulteriormente lo spettro di iniziative volte ad assicurare il rispetto del diritto internazionale, la coerenza con le proprie norme, ed esercitare pressione su Israele affinché sostenga convintamente la formula due Stati per due popoli. Insomma, le misure prese dalla UE sono mirate proprio a contribuire a sanare le inaccettabili e protratte violazioni del diritto internazionale. I due autori traggono le logiche conseguenze. La prima è quella di riconoscere il principio della differenziazione anche nel caso di attività di sostegno a banche ed enti di credito israeliani che rendono possibile la costruzione di insediamenti, la seconda è quella di prendere in considerazione anche le normative su prestiti e ipoteche. Ad esempio in caso di cittadini di uno stato membro aventi anche cittadinanza israeliana dovrebbe essere proibito utilizzare proprietà nei territori occupati a garanzia di eventuali prestiti di banche europee. Non dovrebbe essere possibile per la UE riconoscere titoli ed attestati di istituzioni mediche o accademiche israeliane con sede in Cisgiordania, visto che la UE non riconosce e la sovranità israeliana su quei territori. Eppoi per quanto riguarda Gerusalemme Est, visto che la UE non riconosce l'annessione e ritiene illegali gli insediamenti, andrebbe proibita ogni forma di cooperazione o riconoscimento di istituzioni israeliane di stanza a Gerusalemme Est tra cui il ministero di giustizia. 

Insomma, affinché la UE possa svolgere un ruolo di primo piano come attore di mediazione tra Palestina ed Israele, sarà necessario assicurare anzitutto il rispetto delle proprie regole e norme, e poi contribuire a riequilibrare le asimmetrie esistenti nei rapporti di forza tra Tel Aviv e Ramallah. Riconoscere non solo a parole ma anche nei fatti che una cosa è Israele e l'altra sono i territori occupati in violazione del diritto internazionale sarebbe un importante passo in avanti. Non cadere nella trappola mediatica e propagandistica del governo israeliano che invece confonde i livelli sarebbe invece un atto di responsabilità politica, come un atto conseguente sarebbe quello di rappresentare ai più alti livelli le prese di posizione e le decisioni dell'Unione Europea. Elementi evidentemente assenti o latenti nelle dichiarazioni del premier. A questo punto, senza farsi alcuna illusione sulla possibilità di un'adesione del governo italiano o della Commissione alla Campagna BDS, la domanda da porsi è “chi boicotta chi?”

mercoledì 22 luglio 2015

Le bombe atomiche ed il Califfo

La stampa italiana riporta oggi la notizia dell'arresto di due presunti terroristi che progettavano un attacco alla base militare di Ghedi. Nel farlo trascurano un dettaglio non irrilevante. Non è una base militare qualunque Ghedi, è la base dell'Aeronautica Militare dove sono stoccate decine di bombe atomiche tattiche USA. Finora dei ferri vecchi ma in un futuro prossimo micidiali ordigni riconfigurati per attacchi tattici di grande precisione. A Ghedi ci sono ora i Tornado - alcuni dei quali proprio in questi mesi in fase di riconfigurazione del proprio software (un'operazione che richiederà un paio di anni) per trasportare le nuove bombe B61-3 e 4 a gravità ma con un sistema di orientamento nella coda che gli USA stanno rimodernando a costi elevatissimi. SI parla di almeno 1 miliardo di dollari mentre per la messa in sicurezza se ne spenderanno altri 154 milioni circa, dopo che un'indagine interna dell'US Air Force effettuata nel 2014 mostrò gravi carenze.  Altri 100 milioni di dollari verranno poi spesi ogni anno dagli USA per il dispiegamento delle nuove bombe. Parte dei costi della riconfigurazione dei sistemi di sicurezza, nuovi bunker e nuovi automezzi di trasporto ad esempio, saranno sulle nostre spalle. Eppoi in un futuro più o meno prossimo i Tornado verranno sostituiti dagli F35. Intanto però in barba agli accordi internazionali sul disarmo nucleare e la non-proliferazione l'Italia aumenta la sua capacità nucleare in quanto firmataria dell'accordo di condivisione nucleare NATO con gli Stati Uniti. E contribuisce ad alimentare la corsa agli armamenti in uno scenario di Guerra Fredda 2.0 nei confronti della Russia. Ma si parlano o non si parlano tra ministri degli esteri e della difesa? Ora anche il rischio che Ghedi diventi o sia considerata obiettivo militare per sedicenti seguaci del Califfo. Che sia o non sia una minaccia veritiera resta il fatto che a Ghedi l'Italia ha deciso di continuare ad essere seppur alle dipendenze di Washington, una potenza nucleare. Infatti quelle bombe atomiche verrebbero sganciate da aerei italiani pilotati da piloti italiani che continuano ad addestrarsi all'uso della bomba atomica. Solo qualche mese fa le esercitazioni Steadfast Noon proprio a Ghedi dove per la prima volta hanno partecipato anche caccia polacchi.  Il tema del disarmo nucleare debba essere al centro del programma pacifista di qualsiasi formazione uscirà dall'attuale processo di costruzione di un eventuale soggetto politico della sinistra. Cosa che ad oggi non  pare sia tra le priorità programmatiche o di iniziativa politica.

venerdì 17 luglio 2015

Diritti e rovesci nell'Europa del liberismo

  
Per uno paradosso od una significativa coincidenza lo stesso giorno nel quale processava Alexis Tsipras, il Parlamento Europeo avrebbe votato il rapporto Lange sul Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP). Raffigurazioni plastiche ed evidenti di come il progetto europeo di spazio di cittadinanza comune abbia ceduto il passo a quello elitario dell'austerity, e dell'ordoliberismo a tutti i costi, ed agli interessi delle imprese e dei mercati anche a costo della sopravvivenza di uomini e donne in carne ed ossa. Il tema centrale del rapporto Lange riguardava la cosiddetta “Investor to State Dispute Resolution”, l'ISDS. La sua approvazione è stata giustamente condannata dagli attivisti delle campagne internazionali contro il TTIP essendo potenzialmente lesiva dei diritti umani, dell'ambiente e del lavoro. L'ISDS è infatti un meccanismo che - seppur nelle correzioni addotte come compromesso al ribasso dal gruppo socialista - subordina tuttora il “corpus” dei diritti umani alla prevalenza degli interessi delle imprese e del mercato. Insomma con quella norma si crea uno stato di eccezione che può essere di volta in volta invocato dalle imprese per far valere i propri diritti rispetto a normative ritenute pregiudizievoli. Una progressiva erosione della sovranità e del diritto all'autodeterminazione. A parte la casualità dettata dall'agenda e dagli eventi, esiste un filo rosso che lega il dibattito mattutino a quello pomeridiano, ed è quello dei diritti umani. A suo tempo il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla promozione di un ordine internazionale equo e democratico, Alfred de Zayas puntò il dito contro la segretezza ed antidemocraticità con la quale viene negoziato il TTIP e contro la clausola ISDS. Ai primi di giugno De Zayas assieme ad altri relatori speciali dell'Alto Commissario ONU sui Diritti Umani aveva pubblicato un appello pubblico nel quale si denunciava di nuovo la mancanza di trasparenza dei negoziati, e l'impatto “negativo che questi trattati potranno avere sul godimento dei diritti umani, definiti in accordi internazionali vincolanti, che siano diritti civili, culturali, economici, politici o sociali, quali il diritto alla vita, al cibo, all'acqua, alla salute, alla casa, alla cultura, i diritti dei lavoratori”. La clausola ISDS inoltre è considerata “anomala” nel senso di assicurare protezione agli investitori ma non agli stati ed alle popolazioni, “permettendo agli investitori di portare in giudizio gli stati e non viceversa” . I relatori speciali inoltre denunciano i rischi derivanti dai trattati internazionali sugli investimenti rispetto alla capacità dei paesi indebitati di poter rinegoziare il proprio debito estero. Non a caso tra i firmatari figura anche Juan Bohoslavsky, esperto indipendente delle Nazioni Unite sugli effetti del debito estero sui diritti umani, in particolare i diritti economici, sociali e culturali. Bohoslavsky, che ha svolto missioni in Grecia ed in Islanda, sta lavorando ad una serie di dossier importanti sul debito estero, seguendo le tracce del suo predecessore che stilò le linee guida sul debito estero ed i diritti umani approvate a suo tempo dal Consiglio ONU sui diritti umani, con l'astensione dell'Italia. A quel tempo c'era il governo Monti. Tra le raccomandazioni quella di riconoscere il diritto al default ed alla rinegoziazione del debito da parte dei governi ,qualora il pagamento del debito comportasse la violazione dei diritti umani fondamentali dei propri cittadini e cittadine. Nè più e né meno di ciò che chiede la Commissione di Audit del debito promossa dal Parlamento greco nel suo rapporto preliminare pubblicato di recente. Ora Bohoslavsky, sulla scorta del caso legale che sta contrapponendo l'Argentina ed un fondo avvoltoio di proprietà di un tale Paul Singer - primo finanziatore dei repubblicani USA e che già partecipò a processi di ristrutturazione del debito greco - sta elaborando una proposta di procedura indipendente di arbitrato sul debito che permetta a creditori e debitori di sedere al tavolo negoziale a pari diritto. E che consenta appunto di capovolgere la piramide mettendo al centro i diritti rispetto agli imperativi della finanza. Nel loro appello sul TTIP i relatori speciali si riferiscono poi alle norme ONU sulle imprese ed i diritti umani secondo le quali gli Stati hanno l'obbligo di assicurare il rispetto dei diritti dei propri cittadini. Dà da pensare che proprio nella stessa sede delle Nazioni Unite a Ginevra di lì a poco si sarebbe discussa la proposta avanzata dall'Ecuador e da altri stati per un accordo vincolante per le imprese transnazionali ed i diritti umani. Questa tappa del negoziato ha portato ad un importante passo in avanti verso un regime vincolante di responsabilizzazione delle imprese multinazionali , invocato anche da dozzine di movimenti sociai di tutto il mondo attraverso l'elaborazione e la proposta di un trattato dei popoli sulle imprese multinazionali ed i diritti. Ebbene, proprio mentre la Commissione si sta adoperando per addolcire la pillola amara dell'ISDS, dall'altra decide di disertare quel consesso. Dopo aver tentato invano di contestare l'oggetto del negoziato, adducendo il pretesto - seppur legittimo - che tale trattato dovesse essere vincolante per tutte le imprese non solo quelle multinazionali, a fronte della resistenza di alcuni paesi, il rappresentante UE decise di abbandonare la seduta. Disertare la discussione sui diritti umani e sugli obblighi delle imprese va di pari passo con la determinazione con la quale la stessa Commissione spinge sull'acceleratore del negoziato TTIP, e con la quale impone alla Grecia misure draconiane che rischiano di aggravare ulteriormente la situazione dei diritti del popolo greco. Un segnale ulteriore della crisi dell'Europa che si compie lungo le sue frontiere, da quella atlantica, a quella del suo Sud, dal Mediterraneo, all'Ucraina.

martedì 14 luglio 2015

Il piano C per la Grecia: oltre l'austerity per il mutualismo, i beni comuni, la resistenza dal basso


Allora, la Grecia. Ne stiamo parlando da settimane, mesi. Giustamente ci si indigna per i modi ed i contenuti dell’accordo imposto a Tsipras, ci si indigna della mancanza di democrazia in quei luoghi “ibridi” della governance economica della UE, la Trojka, l’Eurogruppo, il semestre europeo. Si fa a gara a chi riconosce meriti ad Alexis Tsipras e chi invece lo bolla da traditore, in un gioco al rimpallo che pare tutto strumentale a discussioni di casa nostra.

Invece di ingegnarsi in questo gioco al rimpiattino, andrebbero tentate alcune vie. La prima, sostenere Syriza, o meglio perpetuare l’atto di rottura, il tentativo che Tsipras ha fatto per aprire una falla nel modello dominante, per smascherare l’elefante che è nella stanza, ossia il fatto che l’Europa di oggi   altro non sia che quella del rigore e della finanza. Il re è nudo, ma non sappiamo ancora come ucciderlo. O forse come cambiargli l’abito. Mentre quindi ci si attarda a alimentare le proprie convinzioni sull’ euro, o contro l’euro, sull’uscita dall’Europa o meno, ci si gingilla su paralleli fuori luogo - anzi inaccettabili - tra Germania e nazismo, il popolo greco comunque pagherà un salatissimo prezzo.

Quindi, il primo elemento è quello di evidenziare l’enorme debito sociale che la Grecia dovrà pagare, e portare la questione alle estreme conseguenze, ossia immaginare iniziative legali contro la Troika e le istituzioni europee, per provare a trasformare questo momento di estrema crisi, quasi catartico in una opportunità costituente e fondativa. Secondo, liberarsi dalle catene del debito. Per farlo si dovrà lavorare per convocare una conferenza europea sul debito o per lo meno una sede indipendente di arbitrato nella quale tutte le parti in causa siedano a pari livello e dignità. Il Consiglio ONU sui Diritti Umani sta lavorando a questa ipotesi. Forse è prematuro auspicare lo svolgimento di tale iniziativa ora. Ma se da Bruxelles dicono che rinegoziare il debito non è possibile nei parametri di compatibilità si veda intanto se questo è compatibile o meno con l’obbligo delle istituzioni comunitarie e della UE di rispettare le convenzioni internazionali sui diritti umani, e capovolgiamo i termini di riferimento. E si pensi ad azioni legali collettive presso gli organismi per i diritti umani che siano europei o internazionali per chiedere la sospensione delle misure imposte dalla UE attraverso l’adozione di misure di precauzione atte a prevenire la violazione di diritti umani.

E' innegabile che oggi non sarà possibile pensare ad un'altra Europa senza lanciare un processo costituente, dal basso, di riscrittura e revisione dei Trattati. In questo contesto, sollevando la contraddizione tra lettera dei Trattati, illegittimità del debito e violazione dei diritti umani, si potrà aprire un processo di rottura, che avrà caratteristiche costituenti. Si pensi al caso dell'Ecuador dove il ripudio del debito attraverso l'audit, andava di pari passo con l'attuazione della costituzione di Montecristi. Era insomma parte integrante di un processo di ricostruzione delle società, la revolucion ciudadana. Cosa nei sia rimasto oggi dello spirito originario è da discutere, in particolare quanto la società ecuadoriana o il modello di sviluppo sia andato oltre il capitalismo (lì si è chiuso con il neoliberismo ma si è in una fase di capitalismo estrattivista) ma quello è stato l'inizio. Una costituente dal basso. Ora, se proviamo a leggere con questa lente il tema del debito, della Grecia e dell'Europa, ci troviamo di fronte ad un momento costituente. Nel senso che il referendum greco ha portato a maturazione le contraddizioni di questo progetto di Europa, messo a nudo le carenze, il carattere antidemocratico, e la propria illegittimità. Questa mi pare la fase più interessante per rilanciare un processo di revisione dei Trattati, e creando precedenti giurisprudenziali si può mettere in contraddizione la lex mercatoria e della finanza rispetto allo ius gentium. Lo si potrebbe fare intanto con una serie di azioni presso la Corte Europa dei Diritti. e poi  una "Ventotene" dal basso, un processo di elaborazione di un Trattato dei Popoli per l'altra Europa, 

Ecco, capovolgere i termini di riferimento. Sembra invece che la discussione, a sinistra o meno, sia viziata da un punto, quello di svolgersi dentro quel paradigma e quel modello o accettandolo o rigettandolo. Tertium non datur. Al contrario sarebbe forse necessario immaginare un’altra via. Quella che da alcuni in Grecia viene proposta come il piano C. Un piano che immagina altri percorsi, di riappropriazione della cosa pubblica, di recupero di sovranità dal basso, non nazionale ma popolare, di autogestione e mutualismo. Insomma praticare resistenza e attuare pratiche di sopravvivenza, riscoprire il comune, i commons.

Cosa significa questo in termini concreti?

Significa che se si vuole aiutare la Grecia e non solo, ma anche possibili esperimenti di rottura con il dogma dell’austerity, si deve passare dalla sua negazione alla costruzione di altro. E questo altro passa attraverso il ripudio del debito da una parte, e la costruzione di relazioni di mutuo soccorso e solidarietà dall’altra. Eppoi, perché non pensare che questa crisi non possa rappresentare un’opportunità? Ad esempio costruendo una proposta dal basso per un Green new Deal per la Grecia che faccia da esempio per tutti i paesi del Sud dell’Europa? Un Green new Deal che preveda un piano pubblico di conversione dei sistemi produttivi, la creazione di reti di produzione energetica rinnovabile e su piccola scala, rispettando la vocazione territoriale e la possibilità di costruire modalità di autogestione ed autoproduzione. Eppoi come suggerisce la rivista the Ecologist, sostenere un piano di riforestazione e rimessa a dimora dei territori e dei paesaggi. Invece di rimanere ingabbiati nella logica dell’austerity, seppur negandola, spostare l’asse su altri concetti ed ipotesi. Quello dei diritti e dell’autodeterminazione, quello del mutualismo e dell’altra economia, quello della giustizia ecologica. Altro che boicottaggio della Germania, se in quel paese si sono sviluppate le migliori pratiche di produzione di energia rinnovabile e su piccola scala, si dovrebbero creare opportunità di scambio e cooperazione! Sviluppare capacità e trasferire tecnologia pulita, non tecnologia per estrarre minerali o petrolio o per centrali a carbone. 

Insomma, forse il punto vero è che oltre ad essere subordinata - volente o nolente - alla cultura dell’austerity, senza riuscire a immaginare un altro quadro di riferimento, tutta questa discussione resta imbrigliata in un conflitto tra pubblico e privato, tra finanza e politica. E così facendo viene tralasciata o messa in secondo piano la centralità di un approccio fondato sulla vita degna, sulla giustizia ecologica, sul recupero di pratiche mutualiste e dei “commons”. Temi che rischiano – ahinoi - di essere irrilevanti anche nel dibattito in corso sulla nuova sinistra nel nostro paese

Sul sito Roarmagazine un attivista e sociologo greco, Theodoros Karyotis,  la mette così ed io condivido lettera per lettera:

"The perceived loss of political power over their lives is turning many Europeans towards reactionary xenophobic parties that promise a return to the self-contained authoritarian nation-state. The European left looks on perplexed as its hopes of an EU based on solidarity and social justice vanish along with Syriza’s bid to negotiate a humane way out of the Greek debt crisis.
Now is the moment for a broad alliance of social forces to bring forward a ‘Plan C’, based on social collaboration, decentralized self-government and the stewardship of common goods. Without overlooking its significance, national electoral politics is not the privileged field of action when it comes to social transformation. The withering away of democracy in Europe should be complemented and challenged by the fortification of self-organized communities at a local level and the forging of strong bonds between them, along with a turn to a solidarity- and needs-based economy, and the collective management and defense of common goods. The social counter-power of the oppressed should confront the social power of capital directly in its privileged space: everyday life.
Within Greece, after a full circle, the debate on our future beyond austerity has only now started. The resounding 61% rejection of austerity serves to remind us that this debate is now urgent, and the reactivation of the social movements that envision new social relationships built from below is imminent, after some years of relative demobilization. We have ahead of us a new cycle of creative resistance, of forging collective subjects and of tireless experimentation for the bottom-up transformation of our reality."

mercoledì 1 luglio 2015

Le verità nascoste dell'FMI - Grecia ostaggio del debito fino al 2030. Conferenza Europea sul debito subito

Il Guardian rivela un documento interno della Troika, che nasconde dettagli interessanti. A parte la lista delle misure chieste ala Grecia tra cui l'equivalente di un taglio alle pensioni (e aveva un bel da argomentare il sottosegretario Gozi ieri a Ballarò) quello che colpisce è che la Troika è perfettamente al corrente del fatto che seppur la Grecia seguisse le dure prescrizioni il livello di indebitamento resterebbe insostenibile , con un livello equivalente al 118% del PIL nel 2030. Questo significa che o si decide una volta per tutte a ristrutturare il debito, magari con una Conferenza Europea, o una procedura di arbitrato in dipendente, e trasparente, e sulla base dei risultati dell'indagine fatta dalla Commissione di Audit del debito del Parlamento Greco, oppure sarà un gatto che s morde la coda. E' il tema annoso del debito eterno odioso, ed illegittimo. Se non si affronta questo nodo, nel quale la corresponsabilità di creditori e debitori andrà messa a fuoco, si determinerà il livello sotto il quale il debito non andrà pagato, pena la violazione dei diritti umani fondamentali, e si negozierà come ripagare quello definito "esigibile", permettendo l'afflusso di risorse finanziarie per la ripresa, la Grecia resterà in un vicolo cieco. O si decide una volta per tutte che c'è assoluto bisogno di un meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano, l'FMI lo aveva addirittura ipotizzato ai tempi della crisi finanziaria asiatica, ed ora la questione è all'ordine del giorno del Consiglio ONU dei Diritti Umani nientedimeno, oppure la Grecia sarà legata mani e piedi per i prossimi decenni. Parti del suo debito verranno comprate sui mercati secondari dagli hedge fund e vulture fund, e quello che sta succedendo ora all'Argentina succederà ad Atene. E guarda caso, uno dei fondi avvoltoio l'Elliott Associates, del plurimiliardario Paul Singer, che ha citato in giudizio l'Argentina presso un tribunale americano, detiene anche parti del debito greco, e si starà fregando le mani...Paul Singer è oggi il più importante finanziatore dei repubblicani USA, è forse un caso? Fa specie leggere che altri paesi indebitati, quali Irlanda, Portogallo, o Spagna oggi puntano i piedi, dicendo che avendo loro pagato anche la Grecia dovrà farlo. Fa specie perché nel caso della Grecia è il mandato popolare dato attraverso le elezioni politiche a definire come la Grecia si muove o meno. Quei governi che oggi puntano i piedi sono forse anch'essi governi zombie.