In Israele e Palestina, nel corso del suo recente viaggio, il premier Matteo Renzi avrebbe avuto più volte occasione di riaffermare alcuni punti imprescindibili relativi all'occupazione, all'urgenza di riavviare un processo di negoziato per assicurare il rispetto del diritto internazionale e neppure riferito alla formula rituale dei due stati per due popoli, pur desueta e nei fatti resa oggi impraticabile dai cosiddetti “facts on the ground” ovvero la fitta espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.
Non è stato così, ed ha fatto
bene Pax Christi in un suo comunicato
(http://www.paxchristi.it/?p=
I ministri degli esteri UE hanno poi ricordato la gravissima situazione a Gaza, e invitato Israele ad agevolare l'invio di aiuti umanitari, la ricostruzione e la ripresa economica. Insomma, una presa di posizione - seppur giustamente equilibrata da richieste chiare anche alla controparte palestinese – che non lasciava adito a fraintendimenti e che ribadiva la validità della formula dei due stati per due popoli. Tuttavia nelle dichiarazioni ufficiali del premier in Israele nulla di ciò sembra essere stato evocato. Solo parole di riconoscimento e amicizia con Israele, e un generico appello a non sostenere campagne di boicottaggio. “Chi pensa di boicottare Israele non si rende conto di boicottare se stesso, di tradire il proprio futuro”. E “L’Italia sarà sempre in prima linea nel forum europeo e internazionale contro ogni forma di boicottaggio sterile e stupido”.
A tal riguardo vale la pena di ricordare alcuni fatti. Il
primo, è che per Israele qualsiasi strumento di pressione
commerciale o finanziaria volto a richiamare il governo israeliano
alle sue responsabilità riguardo alla violazione del diritto
internazionale attraverso la costruzione di insediamenti è da
considerare un boicottaggio, Anche le linee-guida dell'Unione Europea
sulla collaborazione nei territori occupati, o le intenzioni più
volte annunciate da parte della Commissione di emanare linee-guida
sull'etichettatura dei prodotti provenienti dalle colonie. 
Le parole del Presidente del Consiglio non sono state forse dette a caso. Nello stesso documento del Consiglio dei Ministri Europei del 20 luglio infatti si riafferma l'impegno della Commissione ad assicurare l'attuazione della legislazione esistente sui prodotti provenienti dalle colonie, in quella che vari osservatori hanno letto come un'accelerazione. Quella del “labeling” è una storia lunga, che da anni si discute a Bruxelles. Nei fatti null'altro si propone se non un'etichettatura differenziata per i prodotti delle colonie israeliani dei Territori Occupati, che al momento vengono vedute in Europa come Made in Israel. Con altra etichetta che ne chiarisca la provenienza da insediamenti illegali si darebbe l'opportunità ai consumatori di discriminare in negativo questi prodotti, e scegliere di non acquistarli per non contribuire economicamente all'occupazione. Nonostante ripetuti annunci, l'ultimo dei quali da parte di Lady Ashton, secondo il quale entro il 2014 si sarebbe provveduto all'emanazione di linee guida sull'etichettatura dei prodotti dalle colonie, le pressioni delle lobby ed il timore di essere accusati di antisemitismo dal governo israeliano hanno sempre rallentato l'adozione di tali linee guida. Nel frattempo però alcuni stati membri decisero di far da soli, iniziando con il Regno Unito nel 2009, seguito poi da Danimarca nel 2012 e Belgio nel 2014. Poi più di recente, ad aprile 2015 ben 16 ministri di stati membri, inclusa l'Italia, hanno scritto alla Commissione per chiedere con forza l'applicazione delle linee guida. Già nell'estate del 2014, alcuni stati membri tra cui l'Italia, avevano avvisato le proprie imprese rispetto alle possibili ricadute di eventuali attività di finanziamento o investimenti nelle colonie israeliane.
Le parole del Presidente del Consiglio non sono state forse dette a caso. Nello stesso documento del Consiglio dei Ministri Europei del 20 luglio infatti si riafferma l'impegno della Commissione ad assicurare l'attuazione della legislazione esistente sui prodotti provenienti dalle colonie, in quella che vari osservatori hanno letto come un'accelerazione. Quella del “labeling” è una storia lunga, che da anni si discute a Bruxelles. Nei fatti null'altro si propone se non un'etichettatura differenziata per i prodotti delle colonie israeliani dei Territori Occupati, che al momento vengono vedute in Europa come Made in Israel. Con altra etichetta che ne chiarisca la provenienza da insediamenti illegali si darebbe l'opportunità ai consumatori di discriminare in negativo questi prodotti, e scegliere di non acquistarli per non contribuire economicamente all'occupazione. Nonostante ripetuti annunci, l'ultimo dei quali da parte di Lady Ashton, secondo il quale entro il 2014 si sarebbe provveduto all'emanazione di linee guida sull'etichettatura dei prodotti dalle colonie, le pressioni delle lobby ed il timore di essere accusati di antisemitismo dal governo israeliano hanno sempre rallentato l'adozione di tali linee guida. Nel frattempo però alcuni stati membri decisero di far da soli, iniziando con il Regno Unito nel 2009, seguito poi da Danimarca nel 2012 e Belgio nel 2014. Poi più di recente, ad aprile 2015 ben 16 ministri di stati membri, inclusa l'Italia, hanno scritto alla Commissione per chiedere con forza l'applicazione delle linee guida. Già nell'estate del 2014, alcuni stati membri tra cui l'Italia, avevano avvisato le proprie imprese rispetto alle possibili ricadute di eventuali attività di finanziamento o investimenti nelle colonie israeliane.
Ciònonostante, come denuncia la
campagna italiana BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) nel
dicembre 2013 ACEA aveva già firmato un accordo con la compagnia
israeliana Mekrorot mentre l'impresa Pizzarotti partecipa alla
costruzione del treno ad alta velocità tra Gerusalemme e Tel Aviv,
attraversando per circa 6 kilometri la Cisgiordania. La Commissione
aveva anche in passato - precisamente nel luglio 2013- emanato linee
guida su finanziamenti e partecipazione in attività nei territori
occupati. La Campagna BDS (http://bdsitalia.org)
è una campagna nonviolenta che la società civile palestinese ha
legittimamente proposto alla comunità internazionale come forma di
pressione su Israele, per chiedere il semplice rispetto dei diritti
umani e delle risoluzioni ONU. 
Di recente il primo ministro israeliano
Nethanyahu ha protestato energicamente contro l'Alto Commissario
Federica Mogherini bollando come boicottaggio le misure della UE
mirate essenzialmente ad assicurare il rispetto dei diritto
internazionale violato attraverso l'occupazione dei territori e le
politiche di espansione degli insediamenti. Non è una novità. ma 
le parole di Matteo Renzi contro il boicottaggio sembrano accogliere
questa linea. Ancora, proprio negli stessi giorni nei quali veniva
pubblicata la dichiarazione del Consiglio dei Ministri degli Esteri
della UE e Matteo Renzi si apprestava a suo viaggio in Medio Oriente,
lo European Council for Foreign Relations, ha reso noto un nuovo
documento a firma di Mattia Toaldo e Hugh Lovatt, dal titolo “EU
differentiation and Israeli settlements”
(http://www.ecfr.eu/
Insomma, affinché la UE possa svolgere
un ruolo di primo piano come attore di mediazione tra Palestina ed
Israele, sarà necessario assicurare anzitutto il rispetto delle
proprie regole e norme, e poi contribuire a riequilibrare le
asimmetrie esistenti nei rapporti di forza tra Tel Aviv e Ramallah.
Riconoscere non solo a parole ma anche nei fatti che una cosa è
Israele e l'altra sono i territori occupati in violazione del diritto
internazionale sarebbe un importante passo in avanti. Non cadere
nella trappola mediatica e propagandistica del governo israeliano che
invece confonde i livelli sarebbe invece un atto di responsabilità
politica, come un atto conseguente sarebbe quello di rappresentare ai
più alti livelli le prese di posizione e le decisioni dell'Unione
Europea. Elementi evidentemente assenti o latenti nelle dichiarazioni
del premier. A questo punto, senza farsi alcuna illusione sulla
possibilità di un'adesione del governo italiano o della Commissione
alla Campagna BDS, la domanda da porsi è “chi boicotta chi?” 
