mercoledì 23 dicembre 2015

I corsi e ricorsi del governo Renzi in Iraq


L'eco mediatica, condita con un pizzico di propaganda,  della recente offensiva delle forze regolari irachene contro il DAESH a Ramadi, culminata con la conquista dell'importante roccaforte irachena del Califfato ha fatto cadere nel dimenticatoio, almeno per ora, l'ennesima boutade del governo Renzi, riguardo quel tormentato paese. Indubbiamente la conquista di Ramadi potrebbe segnare un cambio di passo nella strategia della comunità internazionale contro il DAESH, ma da qua a conclamarne l'imminente sconfitta militare ce ne passa eccome. Semmai il rischio è quello di rialimentare le passioni di coloro che vorrebbero più “scarponi sul terreno”, come si sono affrettate a rilanciare varie testate giornalistiche nostrane, spesso intrise di interventismo bellicista. Nel mentre dietro le quinte continuano a filtrare indiscrezioni riguardo la composizione del contingente di soldati italiani che secondo quanto annunciato dal premier Renzi prima di Natale verrebbero inviati nei prossimi mesi a presidiare la diga di Mosul, altra roccaforte chiave del DAESH. 

Sarà forse l'eccessiva disinvoltura nell'uso dello strumento mediatico, o la fretta di volersi attribuire un qualche ruolo negli scacchieri di crisi e nella lotta contro il DAESH, o l'assenza di una qualsiasi prospettiva strategica, ma ogni volta che nella bocca dei rappresentanti del governo Renzi spunta la parola Iraq dietro c'è sempre qualcosa di confuso, poco chiaro, azzardato. Eppure quella parola, e quel paese, hanno una storia che ne obbligherebbe un uso assai più cauto, una storia che ha aperto il vaso di Pandora del Califfato, ha sconvolto - in pieno delirio di guerra globale permanente e di rifondazione neocon del Grande Medio Oriente - assetti già di per sé fragili. Equilibri ora saltati, e le cui ripercussioni vanno a fondo, in antichi e nuovi conflitti tra sciiti e sunniti, ed al loro stesso interno. L'Iraq è Falluja, l'Irak è Nassirya, e non solo la strage di soldati italiani, ma la battaglia del ponte, dove decine di civili iracheni caddero, è la gestione “italiana” di quel governatorato di Nassirya, zona di grande interesse per l'ENI, è la vicenda tragica di Giuliana Sgrena e Nicola Calipari. 



Insomma un passato che obbliga chi agisce ora nel presente ad usare massima cura e cautela. Invece non è così. L'annuncio dato per via mediatica da parte del premier Renzi della decisione di inviare 450 soldati italiani a difesa dei cantieri di un'impresa italiana che verrebbe incaricata di ristrutturare la diga di Mosul, è azzardato a dire il meno. Anzitutto si fa gioco del ruolo centrale del Parlamento, che in ultima istanza dovrebbe essere l'organo principale di decisione sulle missioni all'estero. Almeno nella forma, giacché nella sostanza sembra prevalere l'opposto. E' sempre quella parola che inizia con la “I” a svelarlo. 



Già, perché la storia inizia un'estate di due anni fa quando le Commissioni Esteri e Difesa vennero convocate di fretta e furia per comunicazioni urgenti riguardo la decisione di inviare armi ai Peshmerga curdi per sostenere la loro guerra contro ISIS. A suo tempo si trattava di residui di stock di armi sequestrate a suo tempo ad un mercante d'armi e stoccate nei sotterranei de la Maddalena. A suo tempo si disse che tale opzione avrebbe creato un grave problema nelle relazioni tra curdi iracheni e governo di Baghdad, messo ancor più benzina sul fuoco di una regione già piena zeppa di armi di ogni origine e foggia. Insomma una miopia strategica dettata dalla fretta più che dalla ragione. Non a caso , proprio mentre le Commissioni parlamentari discutevano, il premier Renzi si affrettava ad andare a Baghdad per ottenere il beneplacito del governo iracheno, sul filo di lana o del rasoio, com'è il suo stile. Le Commissioni poi approvarono le comunicazioni del governo che fanno riferimento a iniziative di ogni tipo volte a sostenere in Irak la guerra al DAESH. 



A quel nucleo iniziale, fatto dell'invio di armi - arrivate comunque mesi dopo e date chissà a chi nel caos delle milizie curde irachene in perenne conflitto tra loro - si aggiunse poi l'invio di Tornado da ricognizione e drone di stanza in Kuwait, e di un centinaio di addestratori italiani di stanza ad Erbil. Un mandato interpretato come un elastico. Di punto in bianco comparvero sulla stampa italiana indiscrezioni secondo le quali l'Italia sarebbe pronta ad armare i Tornado per bombardare DAESH. Indiscrezioni poi smentite a mezza bocca, o riprese in fasi alterne per sfatare il tabù dei bombardamenti. Insomma la cosa poi cadde là, ma a onor del vero va detto che il governo nonostante queste sbavature, anche gravi da punto di vista della forma e della strategia politica, aveva mantenuto una posizione netta contro l'invio di “scarponi sul terreno”, i “boots on the ground”. Ed ecco invece la “sparata” nel salotto di Bruno Vespa. 



L'Italia manderà soldati (saranno a quanto pare bersaglieri con tutto l'apparato di blindati e supporto aereo) per proteggere il persone e le strutture della ditta Trevi che dovrebbe rimettere a dimora la diga di Mosul seriamente danneggiata e che nei fatti potrebbe essere un'arma di distruzione di massa se caduta nuovamente nelle mani di DAESH. La sua distruzione comporterebbe un'ecatombe. E DAESH aveva già usato come arma le acque della diga di Falluja un anno fa. 
Vale la pena di ricordare che a diga di Mosul, o inizialmente chiamata diga Saddam, venne costruita negli anni '80 da Impregilo-Salini e che l'Italia non si fece grandi scrupoli a vendere armi e mine antiuomo all'esercito saddamita a suo tempo. La diga sostenuta da un consorzio italo-tedesco con a capo la società per azioni Hochtier, con capitali sauditi era un simbolo del sostegno all'Irak nella guerra contro l'Iran, e dopo la caduta di Saddam venne già sottoposta senza successo a lavori di consolidamento da parte del genio militare USA per una spesa di circa 30 milioni di dollari. 



Guardando tutta la vicenda in filigrana restano grandi interrogativi. 



Il primo, l'uso di effettivi delle forze armate a difesa di operazioni o interessi di imprese private, come se il caso dei marò contrattati in virtù di un convegno tra forze armate e società di armatori, per difesa contro attacchi di pirati, non avesse già posto un punto di dubbio su tale commistione.



Inoltre, all'indomani dell'annuncio del Premier emerse che il governo iracheno non ne sarebbe stato informato in anticipo, e che comunque parlamentari di alto rango, quali il presidente della Commissione difesa del Parlamento iracheno , o il Ministro dele risorse idriche, e lo stesso Moqtada Al Sadr, si sarebbero espressi duramente contro l'invio di soldati italiani a Mosul, uno dei focolai più sanguinosi della guerra al DAESH. Quasi contemporaneamente alle parole di Renzi partiva nella regione di Mosul una grande offensiva del DAESH alla quale si è risposto con bombardamenti da parte dell'aviazione USA, con l'ennesima sequela di “vittime collaterali” nella già martoriata Falluja. Lo scenario nel quale interverrebbero le nostre truppe, presumibilmente a maggio del prossimo anno, è in continuo movimento, con sviluppi imprevedibili, come dimostra la battaglia per la riconquista di Ramadi, iniziata proprio nei giorni dell'annuncio di Renzi.  E poco conta che le presunte regole d'ingaggio per il contingente italiano non contemplerebbero l'uso “offensivo” della forza: nella guerra guerreggiata ed asimmetrica queste distinzioni saltano. 

A ciò si aggiunge il continuo uso disinvolto di un presunto mandato parlamentare, che risale appunto alla riunione delle commissioni di quella torrida estate, al quale si applicano come una cipolla a strati, nuovi ruoli, impegni ed attribuzioni. “Mission creep” in gergo. Quel contingente verrebbe agganciato alla missione “Prima Parthica” quella degli addestratori ad Erbil, Già il nome è tutto un programma, “Prima Parthica” era una legione romana composta da soldati siriani basata nel II secolo a Sinjar, in prossimità di una area yazida. 



Se ciò non bastasse, va ricordato che la ditta Trevi non si è ancora aggiudicata l'appalto, questione licenziata dalla ministra della difesa con un semplice “si va bene ma è l'unica ditta in gara”, appunto, di che gara stiamo parlando?  E che alla levata di scudi di Baghdad è seguito più recentemente l'appello dei peshmerga curdi, che invece di soldati italiani chiedono ancora più armi per difendere la diga di Mosul situata a pochi chilometri dal fronte. Delle due l'una, allora a che è servito addestrarli dopo aver mandato loro armi suo tempo, eppoi non è che forse ci si sta cacciando dentro un conflitto interno tra curdi iracheni (in quella regione la situazione certo non è calma, vista la forte opposizione al governo centrale di Barzani) e tra loro e Baghdad, e così facendo rendendo ancor più arduo il compito della ricostruzione di un assetto statuale del paese? 



Forse questi punti li ha ben chiari chi ci rappresenta a Baghdad, pronto a cercare nei giorni seguenti l'annuncio di ricomporre una possibile crisi diplomatica, riaffermando il diritto del governo di Baghdad di autorizzare o meno la presenta di truppe straniere, ma non chi sta a Palazzo Chigi, o alla Farnesina, o a Via XX Settembre. Fatto sta che oggi pare essere tornati indietro nel tempo, a quel tempo nel quale l'Italia combatteva in Irak, una guerra sbagliata, illegale ed illegittima. E non solo in Irak ma anche in Afghanistan dove restano 900 soldati italiani – con compiti di mentoring ed addestramento – nella regione di Herat, un Afghanistan ora teatro di una forte offensiva taleban, nella regione dell'Helmand. Ramadi, Mosul, Falluja, Helmand, “back to square one”.


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