sabato 13 febbraio 2016

Nel labirinto di sabbia della Libia

articolo per Mosaico di Pace, marzo  2016

L’annuncio dell’accordo per un governo unitario in Libia potrebbe, a cinque anni dall'intervento internazionale che portò alla caduta del regime di Gheddafi, dare il via libera ad una nuova avventura militare in Libia, in un contesto caratterizzato dalle difficoltà di raggiungere una soluzione politica tra le varie fazioni e dalla presenza crescente del Califfato islamico (DAESH). Di fronte alla prospettiva di una nuova guerra alle nostre porte, dei rischi che questo potrebbe comportare per una soluzione politica e diplomatica alla crisi che attraversa tutto il Medio Oriente ed il Maghreb, all'incolumità di migliaia di persone in cerca di rifugio o asilo politico, è urgente uno sforzo comune per la pace. 
 La Libia racchiude molti aspetti legati tra loro e se non si fanno i conti una volta per tutte con il passato e la storia coloniale dell’Italia non ci sarà soluzione politica che tenga in Libia, come nelle crisi nel Corno D'Africa o nei tentativi di governare i flussi migratori da quella tormentata regione. La Libia di oggi è  risultato  del fallimento della dottrina dell'ingerenza umanitaria. Odyssey Dawn, sulla carta sferrata  per proteggere la popolazione civile, si dimostrò essere  pretesto per un cambio eterodiretto di regime. Senza nulla condonare allo spietato regime di Muhammad Gheddafi, resta un bilancio fallimentare, conseguenza della scelta di smantellare ogni residuo di “architettura” di governo del paese, quell'ossatura sulla quale ricostruire semmai un tessuto connettivo sociale e politico di dialogo e condivisione.  Così la Libia si è spaccata in due, tra governo e parlamento di Tripoli, più vicina alla Fratellanza Musulmana, e Tobruk, sostenuto dall'Egitto e dalle potenze “occidentali” preoccupate di prevenire l'islamizzazione del paese.   
 Questa segmentazione “verticale” della Libia   non rende giustizia della complessità della questione, testimoniata dalle grandi difficoltà incontrate nel tentativo dell'inviato speciale delle Nazioni Unite Martin Kobler di costituire un governo unitario nelle mani di un premier, Al Serraj,  fino a poco tempo fa “esiliato” in Tunisia e che nonostante l'accordo raggiunto sulla carta a febbraio non gode di tutta la legittimità necessaria né a Tobruk che Tripoli. Una soluzione eterodiretta fondata su basi fragili quindi ulteriormente pregiudicata dall'altro fronte di instabilità, oltre al DAESH, delle tribù, numerosissime in Libia, che rappresentano un potere territoriale di grande rilevanza, e che rischiano di sentirsi escluse dalla partita della ricostruzione dell'assetto di governo del paese.  Ciononostante, si è rinunciato a perseguire una via alternativa che mettesse attorno allo stesso tavolo tutti gli attori politici e sociali in Libia, incluse le tribù e le autorità di governo locali.  Una situazione nella quale la fretta di sferrare un colpo micidiale al DAESH, che   in Libia sta  consolidando la sua presa dopo varie battute d'arresto in Siria ed Iraq, è pessima consigliera. 
La fragilità della soluzione politica condizione necessaria per un’intervento militare, verrebbe aggravata da un intervento militare internazionale che potrebbe trasformare la Libia nell'ennesimo teatro di una guerra “santa” del DAESH contro l’Occidente, nella quale si innesta una guerra per procura tra potenze regionali e non. Basta leggere la trama dietro il generale Khalida Haftar, signore della guerra già gheddafiano, fortemente sostenuto dal Cairo, reo di crimini di guerra nella sua operazione “Dignità” volta a reprimere assieme al DAESH ogni formazione islamica organizzata. Dietro Haftar  soffiano gli interessi geopolitici e strategici del Cairo che vorrebbe maggior controllo, fino a prefigurare la sua annessione,  sulla regione della Cirenaica, chiave per le rotte energetiche. Quelle del gas naturale, che per Roma rappresentano una partita di tutto rilievo, in particolare nella strategia ENI di creare un hub per la redistribuzione del gas proveniente da Egitto, Libia e Israele. Il prezzo da pagare per Roma è il silenzio sulle violazioni dei diriti umani in Egitto, paese tornato alla ribalta con l’efferato assassinio di Giulio Regeni, o sui diritti del popolo palestinese.   
Dai pozzi dell'ENI di Mellitah   già sotto attacco da parte delle milizie del DAESH, al gasdotto Greenstream, alla partecipazione del Fondo Sovrano Libico (il LIS) con quote azionarie in varie imprese e banche italiane, risultano evidenti le ragioni dell'insistenza di Palazzo Chigi per un ruolo guida nella ricostruzione e stabilizzazione del paese. Che  si tratti o meno di mettere a disposizione assetti aerei o truppe speciali, addestratori o carabinieri incaricati di assicurare l'ordine pubblico a Tripoli,   ci si sta preparando ai vari scenari, ognuno con i suoi rischi evidenti di trascinarci in un Vietnam tricolore, pena l'essere anticipati da altri alleati, quali gli Stati Uniti, o l'Inghilterra o la Francia, che già spinsero sull'acceleratore dell'intervento militare a suo tempo. Per non parlare infine della questione migranti e di una nuova possible ecatombe dopo quella che nel corso degli anni ha trasformato il Mediterraneo in una fossa comune, e che potrebbe riattivarsi qualora in Libia esploda un conflitto sanguinoso e senza prospettive di pacificazione effettiva. Con persone che spingono per entrare in un'Europa nella quale rischia di saltare tutto il sistema Schengen. 
In questo quadro quale sarebbe il compito di chi ha a cuore la pace? Anzitutto quello di mettere in crisi il ricorso allo strumento militare, evidenziarne le contraddizioni ed i rischi per la pace e la stabilità e rilanciare su ipotesi di lavoro che mettano al centro la politica ed il dialogo per la Libia e di polizia internazionale rigorodamente sotto l’egida ed il comando dell’ONU, intelligence e prevenzione per quanto riguarda il DAESH. Andrà poi svelata senza mezzi termini la vera posta in gioco nella  politica italiana in Medio Oriente, tra cui gli interessi d'impresa dell'ENI rilanciando e chiedendo con forza una strategia energetica che preveda l'uscita dalla trappola dei combustibili fossili . Infine, andrebbero lanciate nuove iniziative per l'accoglienza, la “smilitarizzazione” delle politiche migratorie, e la  creazione di canali umanitari . Tre cardini di un'agenda di lavoro che può rappresentare un'occasione di importante e necessario rilancio delle iniziative di movimenti e società civile nel nostro paese e far si che dal no alla nuova guerra in Libia nascano proposte concrete di costruzione della pace, di giustizia ambientale e di rispetto e tutela della dignità e dei diritti delle persone.


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