Seguito da una nutrita schiera di membri del Congresso e di imprenditori Obama, ormai in chiusura di mandato, è arrivato a L’Avana forte degli ultimi sondaggi che vedono un 56% dei cubano-statunitensi a favore della riapertura delle relazioni con Cuba e invece il 36% contro. A dicembre 2014 il sondaggio di Bendixen&Amandi International era di 44 a 48. Stanno cambiando infatti negli Stati uniti le geografie degli schieramenti pro o contro Cuba, ed il principale sostenitore di un disegno di legge contro l’embargo è oggi un repubblicano, Tom Emmer del Minnesota. Chi spinge di più per la riapertura delle relazioni commerciali sono le imprese e tutto ciò dà da pensare. Già in un articolo dell’estate scorsa Foreign Policy In Focus s’interrogava sull’eventuale cambiamento di linea della politica estera americana verso Cuba.
Concludendo che in realtà l’obiettivo finale resta il cambio di regime. In un paese che per decenni ha rappresentato l’esempio per le varie esperienze di sinistra che si sono avvicendate nel continente latinoamericano. Esperienze che oggi per cause congenite o per la «longa manus» di interessi e finanziatori statunitensi sono in grande affanno, se non in crisi conclamata, a fronte di un preoccupante avanzata delle destre. È poco probabile che Obama riconoscerà l’importanza della rivoluzione cubana appellandosi piuttosto all’urgenza di aiutare il «popolo cubano», giacché mai ha ammesso le responsabilità di Washington verso Cuba come ha fatto in altri casi in ossequio alla sua personale «Obama doctrine». Per Washington esistono due strategie, quella di allentare i lacci verso Cuba e di stringere il cappio al Venezuela, tentando di disarticolare i due riferimenti storici delle esperienze del socialismo del XXI secolo. Lo stesso Obama si attirò infatti dure critiche all’indomani dell’annuncio dell’ordine esecutivo che dichiarava il Venezuela un pericolo per la sicurezza nazionale. Eppoi fa riflettere il fatto che dietro i movimenti di piazza che oggi chiedono la destituzione di Dilma Rousseff e ieri manifestavano a Caracas, ci siano vecchie conoscenze dell’establishment conservatore e reazionario americano quali il Cato Institute.
Allora questo viaggio va senza dubbio valutato e letto in filigrana e due possono essere le cartine al tornasole di una vera svolta verso Cuba da parte di Washington, ovvero la rimozione dell’odioso embargo e la restituzione di Guantanamo alla sovranità cubana. Due obiettivi ben al di là del carattere simbolico del gesto. La rimozione totale e definitiva dell’embargo, finalmente aprirà le porte del mondo a Cuba. E Cuba potrà offrire al mondo – come diceva un altro articolo pubblicato su Foreign Policy In Focus – ben di più di sigari o rum, ma grande esperienza nel campo della prevenzione dei disastri naturali, nell’assistenza sanitaria e nelle arti. Forse a questo si arriverà visto il sostegno bipartisan a Washington (anche il Congresso è ormai «in scadenza»), più difficile sarà un atto definitivo di restituzione di Guantanamo a Cuba come richiesto anche di recente dai capi di stato e di governo latinoamericani al vertice della Celac in Ecuador. Anche se Obama poche settimane fa ha presentato al Congresso il piano della Casa Bianca e del Pentagono per la chiusura del carcere nella base americana.
E per Cuba quale sarà la sfida? Tenere dritta la barra e provare a «usare» la chiave della riattivazione delle relazioni commerciali e diplomatiche per aprire una stagione di rafforzamento e rinnovamento dell’esperienza della rivoluzione? Ed in tal caso finirebbe tale sfida per essere quella di «trasformare un processo ulteriore di espropriazione neoliberista, la cosiddetta normalizzazione delle relazioni tra Cuba e Stati uniti, in un appello a far valere una rivoluzione cittadina all’interno della rivoluzione cubana», in poche parole, a «socializzare il socialismo», come ebbe a dire il critico d’arte messicano Cuahtemoc Medina in occasione di una performance mai tenuta dall’artista cubana Tania Bruguera un paio di anni fa?