Mentre si discute in Parlamento il decreto missioni , e
come da tempo si sospettava, arriva la conferma sulle pagine de La
Repubblica , della presenza di militari italiani in Libia. Una
quarantina, pare, con compito di supporto e assistenza. Si penserebbe
per la ricostruzione di una forza armata e di polizia "unitaria", almeno
secondo logica - che sia chiaro non condivido. Ed invece risulta che
alcuni di loro stiano consigliando le milizie di Heftar, lo stesso
signore della guerra che sta ora marciando verso le roccaforti del
Daesh, e che vorrebbe far fuori con gli adepti del Califfato anche i
Fratelli Musulmani. Del resto è legato mani e piedi al
generale-presidente egiziano Al Sisi. Un gioco ad incastro, nel quale
l'Italia pur di poter poi avere un ruolo in Libia si sta giocando tutte
le carte, scoperte, e sotto il tavolo. Ma il rischio di far saltare il
tavolo è forte. Mentre alcuni giornali italiani la scorsa settimana
narravano della crescente tensione tra il premier Renzi e la ministra
della Difesa Pinotti, culminata a suo tempo con la smentita da parte del
primo, dell'annuncio della decisione di inviare 5000 soldati italiani
da parte della seconda. Alla quale fece immediatamente eco - al punto da
far pensare ad una "combine", il plauso dell'ambasciatore a stelle e
strisce. La Libia preoccupa e non poco, ma non aspettiamoci di vedere
contingenti in partenza per il "bel suol d'amor". Sarà una presenza
sottotraccia, semiclandestina, magari con qualche forza speciale a
presidiare obiettivi sensibili per gli "Interessi nazionali" - magari
qualche contractor o superman dei servizi già a fare la guardia agli
impianti ENI. Al limite si allenterà l'embargo sulle armi chiesto dal
primo ministro insediato Serraj, con evidenti rischi di alimentare la
guerra tra bande piuttosto che contribuire alla "stabilizzazione".
Oppure addestrare milizie libiche, un "dejà-vu" visto che già negli anni
scorsi l'Italia lo fece (operazioni Coorte e Cirene) con i risultati
che si vedono sul terreno. Stesso mandato per le forze navali europee
dell'operazione "Sophia" passata alla nuova fase che prevede l'entrata
nelle acque territoriali libiche e l'addestramento della guardia
costiera al fine di prevenire il futuro - presumibilmente assai
consistente - flusso di rifugiati e migranti. Il gioco delle carte
prevede anche di giocare su un altro tavolo però. Da una parte il primo
ministro Renzi , sondaggi alla mano, appare assai recalcitrante ad
avventurarsi in un possibile "pantano" libico, almeno pubblicamente, e
punta sulla carta della politica e della diplomazia, e dello strumento
militare "undercover". Cosa possibile grazie all'approvazione di una norma che mette nelle sue mani i comando diretto delle forze speciali
, che vale la pena di ricordare godranno della stessa immunità concessa
agli agenti segreti. Eppure di possibili approcci alternativi fondati
sul principio della neutralità attiva, la diplomazia e prevenzione
politica del conflitto, la polizia internazionale ce ne sarebbero, come
spiegato in un documento pubblicato a suo tempo da Un Ponte Per.
Dall'altra in Iraq, l'Italia si appresta ad inviare un contingente di
bersaglieri, con artiglieria e elicotteri di attacco, a presidiare la
diga di Mosul. Una presenza poco digerita dagli irakeni, giustificata
con l'obiettivo di proteggere il cantiere dell'impresa Trevi vincitrice
dell'appalto per la messa in sicurezza dell'impianto. In realtà quel
contingente è frutto dell'accordo con gli alti comandi USA, che stanno
da tempo pianificando l'offensiva finale contro DAESH a Falluja e Mosul,
ed avevano bisogno di un presidio in quella zona. Il rischio di vedere i
soldati italiani coinvolti più o meno direttamente in operazioni
belliche o di diventare bersaglio di attacchi "terroristici" è assai
elevato. Pochi giorni fa un'autobomba ha ucciso un americano a una
manciata di kilometri dalla diga.
uno spazio pubblico per attivisti/e che lavorano per la pace, il disarmo, i diritti umani, la giustizia sociale, economica ed ecologica globale, la resistenza alle politiche neoliberiste, il riconoscimento del debito ecologico e sociale.
martedì 24 maggio 2016
venerdì 20 maggio 2016
A Milano, Roma, Napoli, Torino, che caldo ma che caldo fa
Senza
voler fare il catastrofista, ma davvero è sconcertante notare come il
tema dei mutamenti climatici sia talmente marginale nelle discussioni e
nelle priorità della politica. Ogni mese che passa è il più caldo della
storia, in mezzo mondo si sono tenute ondate di azioni di disobbedienza
civile contro i fossili, quella che qualcuno ha definito la più grande
campagna di disobbedienza civile della storia. Ed invece? Ci si perde
nella quotidianità, nell'immediato, nel contingente,
mentre il pianeta, la base della nostra esistenza stessa ci si sta
squagliando sotto i piedi. In questi giorni si riunisce a Bonn il gruppo
di lavoro che ora dovrà negoziare l'attuazione degli accordi di Parigi.
Ricordate quel gioco di cifre tra gli 1,5 e i 2 gradi di aumento della
temperatura? Beh ad oggi pare siamo ben oltre quei livelli. Insomma, se
aspettiamo i governi e le imprese siamo fritti. Allora c'è ben altro da
fare. Dobbiamo farlo noi, dovrebbe farlo la cosiddetta società civile,
dovrebbe farlo chi lavora nell'altraeconomia, nelle imprese che fanno
innovazione, le comunità che resistono alle trivelle, chi disobbedisce
al petrolio e suoi derivati, le amministrazioni comunali. Per la
miseria, sono io che sono diventato pedante o un pò insofferente verso
la "politica" o è vero che non si è sentito da nessuna parte o letto
sotto i faccioni che stanno popolando strade reali o virtuali di questa
ennesima campagna elettorale un impegno per la giustizia climatica e per
una "rivoluzione ecologica"? Si, si parla di mobilità sostenibile,
parcheggi di scambio, riciclaggio di rifiuti, di transizione e
conversione ecologica (il tema però non è se ma quando ed in che tempi
che altrimenti ci si mena il naso) tutto ok, sono cose che ci stanno
sempre bene, danno un pò di "verde" che non guasta, ma il punto riguarda
quello che potrebbe essere chiamato "metabolismo urbano" ossia il
flusso di risorse che entrano ed escono nel sistema città. Non ho
sentito da nessuna parte l'impegno ad andare verso le zero emissioni, o
sganciarsi progressivamente dai combustibili fossili. O disinvestire da
banche che investono sui combustibili fossili. O allearsi con altre
città che già lo fanno, impegnarsi per sostenere chi protegge gli
ecosistemi o chi prova a fare innovazione, start-up verdi, green jobs.
Non è mai troppo tardi. (PS: per chi "a sinistra" pensasse che questo
sia tema per pochi irriducibili ecologisti, vale la pena di rammentare
che forse oggì proprio attraverso il tema del "climate change" si può
mettere in crisi il modello capitalista attuale, e proporre
un'alternativa possibile)
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