Le
parole per plasmare pensieri e aprire opportunità e le parole
derelitte, marginali, come il suono sordo e abitudinario di una tastiera
consunta, dell’era in cui tutto quello che è falso è vero e tutto ciò
che è vero viene accuratamente rimosso. Si fa largo, dunque,
l’obsolescenza della parola, o forse la presa d’atto che le parole sono
finite. Sono i fatti che contano. Eppure i fatti sono là a dirci anche
che ci sono popoli, cui la parola non sarebbe concessa, che invece se la
prendono ogni giorno con atti di resistenza, con fatti straordinari di
sopravvivenza. Le nostre parole, purtroppo, li trasformano in vittime,
in oggetti dell’orrore. Per cambiare davvero, forse, bisognerebbe
“disimparare il privilegio”, vivendolo come una perdita. Se non
riusciremo a rendercene conto, le nostre parole continueranno a
raccontare qualcosa che non c’è, come l’arto fantasma di Kader Attia
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Kader Attia, foto tratta da http://www.artribune.com
di Francesco Martone
Le
parole hanno bisogno di maturare, di attraversare la mente, l’anima,
plasmare pensieri, ripercorrere ricordi, aprire opportunità. Devono
stare lì per un po’, acquattate, prima di prender forma, come vibrazioni
di un suono, o appese alla punta di un polpastrello.
Maggior
responsabilità ha chi usa le parole oggi, in quella che viene definita
l’era della “post-verità” nella quale tutto ciò che è falso è vero, e
tutto ciò che è vero viene accuratamente rimosso, nascosto, come un
ospite sgradito. O ignorato. Parole derelitte e
marginali, suoni sordi o abitudinari, frenetico ticchettio su una
tastiera consunta. E quando alzi gli occhi, sei travolto da un turbinìo
di parole, che rievocano ideali antichi, prospettano futuri migliori,
gravitano sospese nell’oggi, senza sapere come interpretarli,
scandagliarli, per aprire la porta alla speranza. Fatti, non parole,
recitava un Jingle pubblicitario di una nota casa di elettrodomestici,
nel lontano 1977, quando i fatti erano nutriti dalle parole, dal
pensiero critico, dall’agire quotidiano. Già ecco come le parole
lasciano il loro alveo e prendono altra forma: quei fatti di allora si
traducono – trasposti in un altro livello – nell’atto di raggiungere un
nuovo gradino nella scala gerarchica dei consumi. La stessa che altrove
in quegli anni si voleva sovvertire con i fatti e gli atti. Sono i fatti
che oggi contano, nell’età della post-verità.
Gli atti e i fatti.
Atti di insubordinazione come quelli di Cedric, mite contadino francese
che va alla sbarra, con dignità, per rivendicare il diritto sacrosanto
alla solidarietà umana.
Fa pensare
come oggi è in quegli atti e fatti quotidiani che si misura la nostra
capacità di immaginare l’altro, ed altro. Non nelle narrazioni epiche di
grandi migrazioni, nei fiumi di parole spese nell’attribuire
arbitrariamente significato a ciò che da sempre ha caratterizzato la
storia dell’umanità. Cosa spinge migliaia di esseri umani a muoversi? Eppure nell’antichità il
wanderlust
era privilegio di uomini, e assai poco spesso donne, nobili, colte, i
reietti giacevano negli antri nascosti, lontano dal potere e dalla falsa
opulenza. Oggi chi si muove con un atto collettivo ci mette di fronte
alla prova dei fatti. Sfida frontiere vere o simboliche, viene
attraversato dalle stesse. Ma le nostre parole restano sorde, i nostri
atti insufficienti, i fatti, quelli che parlano di tombe nel mare,
rischiano di essere l’unico elemento che dà significato, e che trasforma
quegli esseri umani in vittime fino a prova contraria.
L’obsolescenza
della parola. o forse la presa d’atto che le parole sono finite. Eppure
là fuori scorrono fiumi di parole, verbosità varie, retorica spicciola,
o altisonante. Senza che ci si interroghi, appesi a quello che eravamo
ieri, e incapaci di guardarci come saremo domani. Per questo oggi scrivo
di meno, e magari solo per raccontare di cose concrete. Per
provare
a tenere stretta la relazione tra parole e azione, prendendoci il
tempo per farle maturare le parole, provando a sbucciarle una ad una
della loro spessa coltre di ambiguità o opportunismo. Provare ad
arrivare al cuore della parola, quel cuore fatto di atti e fatti.
L’atto di cucire collettivamente una tela bianca impregnata di sangue
di donne uccise a Ciudad Juarez, dita che non parlano ma tessono,
raccontano la violenza subita da donne aymara in Bolivia, tessono fili
di sorellanza con quelle che cadono nella quotidiana sequela del
femminicidio. Fatti di generosità, di artigiane indigene che
collettivamente mettono la loro conoscenza tradizionale a disposizione
per raccontare una tragedia collettiva. Un atto ed un fatto di
generosità e insubordinazione alle regole, sangue raffermo, macchioline
brune tra ricami sfavillanti, di
paillettes e punto-croce.
Mentre Teresa Margolles, artista messicana ci raccontava delle sue
amiche trans uccise a Ciudad Juarez, e di come lei prova attraverso i
suoi atti a definire fatti veri – altro che post-verità! – a Roma si
sfilava in piazza per rivendicare un’altra Europa. C’ero stato anche io
prima, nello spezzone dei migranti, quello che chiudeva il corteo e che
invece rappresenta ciò che può riaprire la possibilità di dar senso alle
nostre parole.
Ho sfilato – per poco però forse affetto ormai da una sorta di “
fatigue”
da manifestazioni di piazza – che spesso mi pare rischino di finire per
essere rituali di autoassoluzione – accanto a chi con loro lavora
quotidianamente, perché
penso che oggi l’altra Europa sia non quella che riempie le nostre parole, ma quella che alza muri. In
verità non so neanche cosa sia l’Europa, visto che di un’Europa
possibile sembra possano parlare solo uomini e donne, di pelle bianca,
di grande cultura o esperienza politica. Bianchi, come
bianco era il colore della pelle di chi il giorno dopo al MAXXI
condivideva ipotesi di un’Europa possibile. Ad eccezione dell’artista
cubana Tania Bruguera che non a caso – ed è stata l’unica a dirlo – ha
speso parole per indicare che sul tema dei migranti, dei loro diritti di
cittadinanza, si gioca la dignità dell’Europa. L’atto di rivendicare
un’altra Europa si scontra così con il fatto che a rivendicarla sia un
pezzo di quell’Europa, che io immagino invece non definita, un insieme
di culture, storie, vicende, relazioni, storia e mito che si susseguono
lungo confini non stabiliti geograficamente.
C’è tanta Asia, tanto Medio Oriente in Europa, parafrasando Edward Said. E non sono solo parole,
è un dato di fatto che dovrebbe obbligarci a rivedere le nostre parole,
appunto andando al cuore, separando la paglia dal seme. Così non è.
Un’attivista algerina ospite in un dibattito promosso all’Università da
varie anime del movimento pacifista per discutere di Europa e
Mediterraneo ad un certo punto chiese ai presenti: “ ma mi spiegate
perché da voi in Italia non c’è più la capacità di indignarsi,
mobilitarsi contro la guerra?” Parole che evocano atti e fatti. Alle
quali non si sa rispondere, e se lo si prova a fare lo si fa con parole
di circostanza. Eppure i fatti sono là a dirci che stretti tra le parole
di chi condanna ipotetici imperialismi
d’antan o di chi
teorizza la guerra salvifica ci sono popoli che hanno parola, ai quali
la stessa non va “concessa”, popoli che se la prendono ogni giorno con
atti di resistenza , fatti straordinari di sopravvivenza. Le nostre
parole invece li trasformano in vittime, in oggetti dell’ orrore.
Parole
dei media, della politica o di chi si azzarda a provare a dare loro
rappresentazione, simbolica o meno attraverso linguaggi visuali. Persone alle quali non si offre altra possibilità che quella di diventare corpi morti in una messa in scena di bianche
body-bag lungo il Tevere. Bianche
body bag per richiamare l’attenzione sulla strage di migranti nel Mediterraneo, bianche come chi ha immaginato quella
performance. Siamo poi così sicuri di non rischiare di finire per contrastare la necropolitica con una sorta di necrofilia? Bianche
body bag
e un telo bianco impregnato di sangue di donne uccise a Ciudad Juarez
tessuto da donne aymara vittime anch’esse di violenza, un nesso di
sorellanza uscito dalla mano e dalla testa di un’ artista messicana,
amica intima di trans uccise.
Parole che in questo caso riprendono significato nella carne viva, non nella rappresentazione mediatica.
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Po(l)etical utopia, Kader Attia. Immagine tatta da: http://www.domusweb.it
Le parole sono anche ricettacoli di memoria,
visto che oggi sono il risultato dell’utilizzo frequente protratto nel
tempo e nella storia, Quindi si portano dietro anche un pezzo di
memoria. Si trasformano, riflettono memoria. La memoria è una parola che
ho ascoltato spesso di recente, in alcune occasioni apparentemente
lontane tra loro, ed in una terza nella quale la memoria veniva evocata,
riportata a nudo. Il filo parte da una bella rappresentazione teatrale
al Teatro India , “
Acqua di Colonia” si chiamava, ed era un
accorto e accurato excursus nelle parole, nelle immagini della colonia,
di una storia italiana che si tende spesso a rimuovere o ignorare.
Parole che andavano al cuore del problema.
Ossia
del mancato, ma necessario, passaggio del fare i conti con il nostro
passato coloniale, per provare a ridar senso alle parole. Non
a caso gran parte di chi prende il mare proviene da ex-colonie
italiane, o transita in una ex-colonia, oggi oggetto del desiderio di
Roma e delle principali capitali europee.
Eppure nonostante le
quattro guerre fatte alla Libia quella presa d’atto tarda ad arrivare,
non solo da parte dell’establishment ma anche dal “basso” a parte
lodevoli eccezioni principalmente dal mondo accademico. Come ad esempio
il convegno tenutosi un paio di settimane fa all’Orientale di Napoli,
altra trama di quel filo che lega pensiero critico, ricerca accademica,
azione. Nelle sale barocche di Palazzo du Vesnil si è parlato tanto e
bene di cartografie, memoricidio, confini e storia. Quella storia
coloniale della quale non si fanno ancora i conti nelle stanze del
potere e spesso anche nelle piazze di chi si mobilita e magari o si
innamora delle rivoluzioni altrui o cade nella trappola della
necrologio. E non si fanno i conti perché a differenza di altri paesi,
qua da noi la decolonizzazione non è stata risultato di movimenti di liberazione, ma della sconfitta nella guerra. Al punto che anche l’Italia repubblicana, quella della Costituzione antifascista per anni cercò di tenersele quelle colonie.
Così in una sorta di riflesso incondizionato continuiamo a parlare di un “
ambaradam”
come sinonimo di “caos” quando all’Amba Aradam si consumò una delle più
grandi stragi fasciste del periodo delle colonie. Dettaglio forse
sfuggito al Comune di Roma che chiamerà una delle stazioni della nuova
metro proprio Amba Aradam dalla strada omonima.
Altrettanto interessante una
lecture
sulla correlazione tra mito fondativo della colonia nostrana, quel mito
degli “italiani brava gente” che portano civiltà e progresso, scienza e
conoscenza (ieri ed oggi eh, oggi magari con una grande diga o imprese
ingegneristiche di alto pregio) e quello dei coloni sionisti che vanno a
fertilizzare la terra promessa. Chissà come questo convegno è sfuggito
all’attento sguardo censore di qualche solerte impiegato d’ambasciata
del governo di Tel Aviv che di recente spesso e volentieri si è
adoperata per togliere diritto di parola a chi criticasse le politiche
del governo israeliano.
Togliere
la parola, in ossequi al principio della nondiscriminazione, un
controsenso che la dice lunga sullo svuotamento delle parole. Restano
gli atti ed i fatti: atti di repressione del diritto alla libertà di
espressione e i fatti. Quelli del memoricidio
sistematico praticato contro il popolo palestinese, anche attraverso la
ricostruzione delle parole e della storia.
Quando si distrugge o si ignora la memoria si uccide la politica. Questa
mi è parsa anche la traccia ricorrente dell’opera dell’artista franco-algerino Kader Attia, “Reflecting memories”
, nella quale l’artista affronta nuovamente il tema della
ricostruzione, della riparazione, di ferite di guerra come di memoria
omessa, più o meno colpevolmente rimossa. Lo fa attraverso la rappresentazione simbolica dell’arto fantasma, il “
phantom limb”
fenomeno che in medicina sta a raccontare la sensazione di avere ancora
un arto invece amputato. Sembra che hai due gambe o due braccia ma in
realtà una è il riflesso della memoria di quell’arto che vorresti ancora
attaccato. E’ la rimozione del dolore, o del passato, personale, o
storico, politico o emozionale. Che magari riesci in parte a risarcire
ma che resta nel profondo.
C’è molta politica nell’arte di Attia, che con mano sapiente e delicata ha saputo rappresentare il dramma dei “
desaparecidos”
nel Mediterraneo ed ora lavora assieme a tanti artisti ed attivisti
alla proposta di una “costituente migrante” , al tentativo di proporre i
migranti come un popolo, una comunità di destino con i suoi diritti
sacrosanti, in quanto soggetti e non oggetti di rappresentazione, carità
o soccorso, di disputa politica, di studio o di lucro.
Tutte queste parole per dire che
per poter provare a cogliere il senso del nostro agire politico, oggi dovremmo “disimparare il nostro privilegio” come ebbe a dire una grande studiosa postcoloniale, Gayatri Chakravorty Spivak in una splendida intervista al
manifesto
di quasi un anno fa. Lei dice: “Credo sia fondamentale focalizzarsi sui
privilegi, ma invece di disapprenderli, o prima ancora di imparare a
disapprenderli è necessario vedere dove essi si situano, riconoscerli e “
to use them”:vedere
ed usare il privilegio i maniera funzionale, per volgersi a nuove
pratiche di apprendimento e comunicazione”. Insomma per la Spivak
disapprendere
il privilegio deve trasformarsi in “imparare ad imparare dal basso”, e
considerare tale disapprendimento come una perdita. Noi
in realtà abbiamo perso qualcosa ma continuiamo a pensare che sia lì.
Finché non ce ne renderemo conto … le parole continueranno a narrare di
quell’arto che non c’è, l’arto fantasma di Kader Attia, ignorando ciò
che fa o potrebbe fare l’arto che c’è.