La tormenta infuria ma nelle pieghe della società c’è vita. Una vita complicata, spesso non riconosciuta, di resistenza quotidiana, di paziente e tenace costruzione di altri mondi possibili. Una vita, una miriade di vite, che sfuggono all’occhio e non possono essere rilevate da un’analisi che non riesce a liberarsi di un’impronta di colonialità segnata profondamente dalla presunzione di poter dirigere e classificare i movimenti e le “masse”. Si tratta di soggetti che praticano il “comune” e che non possono certo essere definiti facilmente, meno che mai come “società civile”. Come possiamo contribuire a far luce su una potenza diffusa, capillare, sotterranea, a tenere accesa la forza che alimenta i gesti di rivolta favorendone le connessioni e la condivisione di iniziative e analisi?
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L’enorme sciopero di milioni e milioni di indiani contro le politiche antipopolari, foto: angryarabscommentsection.blogspot.com
Non so a voi ma a me guardando la settimana scorsa le immagini delle imponenti e diffuse mobilitazioni tenutesi negli Stati Uniti all’indomani della cerimonia di investitura di Donald Trump, è venuto assai da pensare. Da una parte sul rischio di cadere nella ricorrente e rituale constatazione della fine dei movimenti di massa nel nostro paese ed altrove. Dall’altra invece sulla possibilità di cogliere l’occasione per sperimentare un approccio ed un percorso differente, che parta dalla constatazione di ciò che esiste, e che così facendo si provi a delineare in sommi capi ciò che dovrebbe o potrebbe già essere, non solo oltreconfine ma anche a casa nostra. Partiamo allora da ciò che esiste.
Il rallentamento della conclusione del negoziato TTIP, mobilitazioni di piazza che hanno portato a Seul alla destituzione del presidente Park Heun Hye, in India il più grande sciopero di massa che la storia ricordi, le mobilitazioni a Standing Rock che hanno portato al blocco della costruzione della Dakota Access Pipeline, mobilitazioni di donne in Polonia contro la legge antiaborto, l’ascesa di Black Lives Matter, una costituzione adottata con il sistema “crowdsource” in Islanda. Queste alcune delle storie di successo riportate dal Transnational Institute di Amsterdam delle mobilitazioni che hanno attraversato il mondo nel 2016. A queste vanno aggiunti mille e mille altri atti di rivolta, confronto, insubordinazione. Manifestazioni di donne a Roma come a Washington, marce, blocchi, campagne reali o virtuali. Con uno sguardo obliquo, che prova a spostare l’asse dal nostro Nord una volta opulento, oggi in grande crisi di identità, nel quale volenti o nolenti si vive la nostra quotidianità, si sgrana davanti agli occhi un’altra realtà. Una realtà fatta di atti e gesti, di movimenti che cercano di intersecare le loro vertenze. Lo ha detto chiaramente nel suo splendido “speech” alla marcia di Washington, Angela Davis, quando ha ribadito la necessità e l’urgenza di riconoscere la trasversalità e l’interconnessione delle lotte. Da quelle dei nativi, a quelle GLBQT, a quelle dei migranti, dei latinos, a quelle degli afroamericani, a quelle per i diritti civili, e l’ambiente. Uno sguardo trasversale, presuppone uno sforzo di “decolonizzazione” nella nostra analisi dell’esistente, di quel “sensibile comune” di cui si è molto discusso nei giorni scorsi in splendide iniziative sul comunismo, dalla Galleria Nazionale all’ESC.
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Manifestazione in difesa della dignità delle donne a Padova
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marcia antirazzista contro Trump
Su quali basi ad esempio poter sviluppare anche qua da noi relazioni tra chi oggi lotta contro il patriarcato e chi si adopera per la protezione della Madre Terra? Chi pratica forme di mutualismo dal basso e chi sfida le leggi del capitalismo estrattivista? Chi rivendica il diritto alla conoscenza, al reddito, al “comune” ed ai beni comuni, e chi già pratica innovazione? C’è poi il terzo elemento, quello della speranza. Il mondo andrà avanti anche senza di noi, forse in peggio o forse in meglio , a prescindere dai tentativi di capire cosa accade a quei movimenti sociali, forse continuando con una certa nostalgia a categorizzarli rifacendosi ad un articolo del New York Times, che definì i movimenti la seconda potenza globale. Forse il punto sul quale fare luce riguarda proprio il concetto di potenza, diffusa, capillare, sotterranea, piuttosto che evidente, leggibile, “di massa”, o catalogabile secondo i nostri criteri o bisogni. Giacché sempre ci sarà un Antigone, e magari anche una Ippazia, ce ne saranno mille e mille.
Che non chiedono rappresentanza, anzi si autorappresentano, e che rivendicheranno anzi la loro autonomia dalla “politica”. A maggior ragione da quella “politica” che si vorrebbe più prossima, e che oggi come il potere che si vuole sfidare, è un “muro” con tutta la sua incapacità di cogliere le trasformazioni epocali non solo nella cosiddetta “fase” storica, ma anche nella capacità di azione e iniziativa dei soggetti sociali. Come contribuire a tenere accesa la forza che alimenta quei gesti di rivolta verso l’esistente, come metterli in connessione, questo potrebbe essere il nostro compito. Se non ora, quando?
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