giovedì 21 giugno 2012

Rio mas niente

“Dov’é la politica? Mi chiedeva sconsolato Hildebrando Velez, un compagno di tante lotte ambientaliste, colombiano ora impegnato a lavorare con comunità afrodiscendenti nella regione di Cali. Ci siamo incrociati alla Cupula dos Povos, l’incontro alternativo dei movimenti sociali convocato in parallelo alla Conferenza ONU Rio+20. “Dove sono i partiti politici della sinistra, a parte le loro fondazioni?” Chi potrà tradurre in atti concreti le istanze di cambiamento dei movimenti sociali, indigeni, ambientalisti, uniti sotto la parola d’ordine della giustizia ambientale e della resistenza alla mercificazione della natura?


Questa domanda me la sono fatta spesso in questi giorni a Rio, dove sono tornato dopo venti anni, allora con Greenpeace ora ad accompagnare una delegazione di popoli indigeni. Era la stessa domanda che ci ponevamo anni addietro, a Cancun, quando si aprì la prima grande crepa nel modello multilaterale, con il fallimento della Conferenza della WTO. E più di recente a Copenhagen quando le istanze di giustizia climatica e riconoscimento del debito ecologico si sono dissolte nella realpolitik e nello scontro tra potenze vecchie e nuove.

Insomma, la politica, quella intesa come perseguimento del interesse collettivo, della democrazia reale, della centralità dei diritti fondamentali e della natura e della dignità umana e’ la grande assente nelle parole dei leader che affollano gli immensi padiglioni bianchi del Riocentro.

E’ assente in un documento “Il futuro che noi vogliamo” che fin dall’inizio mostrava l’impossibilita’ di un cambio di passo nell’attuazione degli impegni presi dalla comunità internazionale venti anni fa. E’ il segno dei tempi, di un mondo che gli analisti stentano a definire, se multipolare, policentrico, o il mondo del G-zero, dove il mantra della sovranità nazionale ha preso il sopravvento sulla solidarietà tra i popoli.

Pur di evitare un fallimento che avrebbe segnato forse la fine delle velleità di grandezza del Brasile i diplomatici di Itamaraty, su spinta della lady di ferro Dilma Rousseff, hanno lavorato alacremente per smussare ogni possibile contenzioso, tagliare rami e radici ad un documento che ora e’ senza anima ne’ sostanza. Dei risultati prefissati non rimane nulla. Nessun impegno chiaro e sostanziale sugli obiettivi di sviluppo sostenibile se non l’indicazione di un processo di negoziato futuro. Stessa sorte per i cosiddetti “Means of Implementation” ovvero le risorse finanziarie necessarie per lo sviluppo sostenibile. Neanche l’ipotesi di una Convenzione sugli Oceani ha trovato spazio nella bozza poi approvata all’unanimità dagli sherpa prima dell’arrivo dei capi di stato. Insomma, un documento senza ambizione che rinvia le decisioni di sostanza ad un tempo da destinarsi, diluisce conflitti latenti o esistenti in processi negoziali indefiniti nelle modalità e nella sostanza. Poi ci sono le dichiarazioni di principio, il riconoscimento della centralità dei diritti umani, delle responsabilità comuni ma differenziate (oggetto di un duro confronto nei negoziati preparatori), degli impegni per la lotta alla povertà , e della necessita’ di rafforzare l’impianto di governo globale del pianeta.

A leggere le sezioni sulla “green economy” sembra di trovarsi di fronte ad un Giano bifronte. Si potrebbero aprire spazi ed opportunità virtuose per una buona e piena occupazione e per la tutela dell'ambiente , ma si potrebbe anche rischiare di porgere il destro a chi vorrebbe continuare nel “business as usual” o peggio allargare i confini dei propri interessi economico-commerciali. Non e’ un caso che la parte relativa alle imprese reitera un approccio “soft” fatto di rendicontazioni volontarie e non di obblighi vincolanti. Se solo i delegati avessero ascoltato le testimonianze dei rappresentanti delle comunità impattate dalle attività della Thyssen Krupp nella baia di Guanabara a Rio, o ricordato il processo che ha condannato i vertici dell'impresa in Italia. Fatti che dimostrano l’urgenza di norme vincolanti per le imprese. Nell’indeterminatezza degli impegni, e nella giungla di mezze parole rischia invece di farsi largo la convinzione che a fronte dell’inadeguatezza dei governi debbano essere le imprese ed il mercato a segnare - per default - la via.

E’ qui che deve tornare con forza la politica, nel colmare quei vuoti e dare gambe e senso a concetti che i governi hanno voluto lasciare ambivalenti per convenienza o manifesta incapacità. Lo stanno dicendo le migliaia di persone che riempiono nelle plenarie e nei laboratori l’Aterro do Flamengo, gli indigeni che si sono incontrati allo spazio di Karioka II e nella Conferenza su sviluppo ed autodeterminazione. Chiedono alla politica di riprendere voce, di fronte a governi schiacciati tra l’emergenza della crisi e le aspirazioni di grandeur. Chiedono dignità, giustizia, equità, il rispetto dei diritti e la cura dei beni comuni, esigono che si ponga un freno all’espandersi del mercato fin nei minimi fattori essenziali per la sopravvivenza degli umani e della natura.

Le ore passano lentamente a Riocentro tra interventi di circostanza e trattative dell’ultim’ora per una sorta di dichiarazione "politica" che possa salvare la faccia ai governi. Un rituale surreale, svuotato di significato, giacche’ la decisione – quella di non decidere – era stata presa da tempo. Nei corridoi passano manifestazioni improvvisate dalle ONG, si svolgono cerimonie solenni di consegna di dichiarazioni dei popoli indigeni, i giornalisti vagano alla ricerca di qualche storia da raccontare. Domani è un altro giorno.


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