In un suo scritto inedito del lontano 1939,
solo di recente reso pubblico, Albert Camus, ebbe a dire che:”in ogni
filosofia degna del suo nome, un precetto importante afferma che non si
dovrebbe mai indulgere in lamentele inutili circa uno stato di cose
inevitabile”. In virtù di tale precetto, ad un iniziale
valutazione estremamente negativa dell’esito della Conferenza di Rio +20, deve
seguire una disamina più accurata, volta ad identificare punti di forza e
debolezza sui quali insistere per riaffermare la centralità dell’imperativo
della trasformazione ecologica dell’economia, della giustizia ambientale, e dei
diritti umani e della natura, come chiavi di volta di una politica capace di
futuro.
La prima domanda è se sia possibile valutare
un processo così complesso secondo
gli esiti dello stesso in un dato momento nel tempo. Forse per nascondere la
sua forte delusione la presidente del brasile Dilma Rousseff ha tenuto a
sottolineare nel suo discorso ufficiale che Rio rappresenta solo una
piattaforma di partenza, l’inizio di un percorso, non il suo apice.
Le parole di Dilma in realtà si fondano su un dato di fatto proprio della
trasformazione dei processi di formazione del consenso a livello
internazionale, in virtù dei quali non esistono più tappe decisive, ma processi
dinamici di produzione di consenso e di aggiustamento progressivo delle varie
agende verso un obiettivo comune. Ogni negoziato complesso viene interpretato
come “rolling process”, processo
dinamico, nel quale ogni impegno preso e concordato dovrà rappresentare una
convergenza tra ciò che i paesi già stanno facendo a livello nazionale.
Indubbiamente questo è il segno della crisi di un modello multilaterale
classico, secondo il quale ogni paese avrebbe invece dovuto abdicare parte
della propria sovranità in nome del bene collettivo, e che oggi si traduce in
un insieme di accordi e mere dichiarazioni d’intenti, non vincolanti
nella forma.
Insomma,
un segno dei tempi, tempi di crisi o forse di profonda trasformazione dei
processi di governo globale che rischia di confinare la discussione sulla
trasformazione ecologica dell’economia in ambiti esclusivamente teorici, senza
invece offrire sponda e cittadinanza a quella miriade di esperienze concrete
che da tempo praticano vie alternative.
Se prendiamo invece come punto di partenza il
fatto che ormai gli stati hanno perso il monopolio nelle politiche globali,
ormai teatro di azione anche di attori non-statuali, quali il settore privato,
enti locali, società civile, movimenti transnazionali, allora il quadro di
valutazione si fa ben più complesso, sia per quanto riguarda i rischi che le
eventuali opportunità.
Quella che inizialmente era stata etichettata
a caldo come una grande occasione persa sulla strada verso la sostenibilità
ambientale e sociale, ha messo in evidenza processi la cui validità potrà
risultare solo dal combinato disposto di iniziativa dal basso e di
partecipazione attiva ai processi che da Rio si svilupperanno.
Il risultato di Rio+20 non può essere
elaborato esclusivamente secondo chiavi di analisi che mettono al centro la
volontà politica (o l’assenza della stessa) dei governi. Se così fosse,
indubbiamente il risultato di quelle giornate non lascia molto spazio ad
entusiasmi. Anzi. Non c’era da aspettarsi molto né in termini d’impegni
chiari dal punto di vista quantitativo, né in termini di scadenze temporali
verificabili, né tanto meno in termini di cassa, ossia di impegni di
stanziamento di risorse finanziarie per lo sviluppo sostenibile.
Il documento “The Future we want” ha rappresentato nei fatti un punto
minimo di convergenza tra agende differenti e contrapposte dei vari blocchi di
paesi che fino ad allora non erano riusciti a trovare accordo sui temi portanti
del negoziato. Era risultato evidente fin dall’inizio delle lunghe maratone
negoziali antecedenti l’incontro del Segmento di alto livello (ossia la
riunione dei capi di stato e di governo che avrebbe suggellato l’accordo
finale) che troppi erano i punti dirimenti ancora irrisolti, e che si faceva
sempre più evidente il rischio di un flop clamoroso che avrebbe fatto il pari
con quello di Cancun dal quale l’Organizzazione Mondiale del Commercio non si è
ancora ripresa, o quello della Conferenza del Clima di Copenhagen che tuttora
fa sentire con forza i suoi postumi sul negoziato post-Durban.
In estrema sintesi lo snodo centrale era
rappresentato dal binomio sovranità-responsabilità, Da una parte i cosiddetti paesi in via di sviluppo (ormai paesi emergenti
quali Cina, India, Brasile) erano determinati a far valere le proprie ragioni
ed i propri diritti sovrani sulle scelte e la gestione delle proprie politiche
economiche, ambientali e produttive. Dall’altra i paesi industrializzati portavano
con se il carico di un enorme debito ecologico accumulato del corso della
storia, e l’urgenza di trarre dal cilindro della “green economy” l’artificio
che potesse offrire una soluzione alla crisi economica e sociale che li sta
attanagliando.
Questi ultimi chiedevano ai paesi in via di
sviluppo di prendersi carico delle proprie responsabilità , a pari livello,
nella dura strada verso un futuro sostenibile. Dal binomio
sovranità-responsabilità scaturivano quindi i concetti di equità e delle
responsabilità comuni e differenziate. Su questi due principi, consacrati a Rio
venti anni fa, si è sviluppato lo scontro, dapprima nel negoziato climatico e
poi a Rio. A Durban, a dicembre dello scorso anno pur di tenere in
piedi il negoziato multilaterale post-protocollo di Kyoto, Unione Europea ed
altri alleati riuscirono a far passare l’impegno per un processo negoziale
detto “Durban Platform for Enhanced
Action”. Questo processo negoziale, che tuttora stenta a decollare, dovrebbe
produrre una roadmap ed impegni di
riduzione delle emissioni per tutti i paesi entro il 2015. A Durban, Stati
Uniti ed altri paesi industrializzati si opposero duramente ad ogni richiamo ai
principi di equità e responsabilità comuni ma differenziate che rimasero quindi
non esplicitati. Un punto questo che ha rappresentato il principale casus belli alla ripresa del negoziato a
Bonn nel maggio scorso. Seppur all’ultimo minuto, dopo la forte
resistenza degli USA, a Rio il documento finale richiama i principi dell’equità
e delle responsabilità comuni ma differenziate per ogni impegno relativo ai
mutamenti climatici. Insomma, per alcuni osservatori non governativi
e think-tank vicine ai G77 come il South Centre, questo è un risultato di tutto
rilievo che influenzerà notevolmente il percorso della Durban platform, e non solo.
Il documento “The future we want”
quindi può essere anzitutto valutato secondo la misura in cui riafferma o introduce criteri e concetti chiave che
informeranno l’attività della comunità internazionale in futuro. Letto secondo
questa lente, i negoziatori brasiliani hanno fatto di tutto per assicurare la
messa in sicurezza di un documento da far approvare formalmente dai capi di
stato e di governo.
Indubbiamente mancano riferimenti chiari a principi come il
principio di precauzione e il “polluter pays”, ma il documento contiene
importanti riferimenti ai diritti umani e dei popoli indigeni, seppur senza dar
loro una connotazione operativa e sempre riconoscendo la centralità della
sovranità nazionale degli stati. Introduce
definitivamente il concetto di “green economy” nel dibattito globale,
mitigandone però gli aspetti più controversi, riconoscendo il diritto ad
ogni paese di perseguire la propria via, e specificando che tale “green economy”
dovrà essere indirizzata verso lo sradicamento della povertà e lo sviluppo
sostenibile. I paesi
industrializzati speravano di usare la “green economy” come opportunità per
rilanciare le proprie economie, e proteggerle dai prodotti dei paesi emergenti.
I paesi emergenti temevano che la “green economy” diventasse un elemento
prescrittivo e condizionante le proprie scelte economiche ed ambientali.
Si è così optato per una formulazione complessa che potesse accontentare
tutte le parti in causa, senza ulteriori implicazioni dal punto di vista
operativo o programmatico.
Altro elemento sul quale valutare l’esito di
Rio+20 riguarda i processi che da Rio verranno avviati, e che offrono
opportunità , ma anche rischi. I nodi centrali verso un accordo, ossia gli
obiettivi di sviluppo sostenibile, gli strumenti di attuazione (“means
of implementation”), e l’architettura istituzionale e della “governance”
ambientale sono stati “sciolti” in altrettanti processi intergovernativi sotto
l’egida dell’ONU, che dovrebbero in tempi relativamente stretti portare ad
accordi vincolanti e fornire opportunità per un rinnovato protagonismo della
società civile e dei movimenti.
Per quanto riguarda gli obiettivi di sviluppo
sostenibile, da Rio prende vita un gruppo di lavoro di 30 membri sotto l’egida
dell’Assemblea Generale, che dovrà sciogliere i punti principali relativi alla
definizione degli obiettivi, un approccio equilibrato tra i cosiddetti tre pilastri
dello sviluppo sostenibile (ambientale, sociale, economico), la relazione con
gli obiettivi di sviluppo del millennio, ed un processo di negoziato
intergovernativo. Sulla questione relativa al quadro di
riferimento istituzionale per lo sviluppo sostenibile (IFSD) viene costituito
un forum politico di alto livello per lo sviluppo sostenibile da definire con
un processo intergovernativo e di è trovato accordo sulla necessità di
rafforzare il Programma ONU sull’ambiente, (UNEP). Per i cosiddetti “Means of implementation”ovverossia, il trasferimento di
tecnologie, la riforma dei termini di scambio e delle politiche commerciali,
l’aiuto pubblico allo sviluppo, è stato lanciato un processo intergovernativo
sempre sotto l’egida delle Nazioni Unite, per produrre una strategia per il
finanziamento dello sviluppo sostenibile con un insieme di azioni da
intraprendere allo scopo. Certamente un risultato non all’altezza della sfida e
delle richieste dei paesi G77 - Cina in testa - per un fondo per lo sviluppo
sostenibile di 100 miliardi di dollari.
Insomma a livello di governi la partita è
ancora tutta da giocare. Sullo sfondo però si stanno muovendo altri processi ed
altre dinamiche che potranno definire in corso d’opera i criteri e precedenti
ai quali ispirare le regole comuni.
Accanto alla diluizione dei processi
decisionali in “rolling processes”, ed
alla riaffermazione della sovranità nazionale, il terzo elemento cardine dei processi di elaborazione del
consenso nella “governance” globale è
quello delle regole che derivano dalla pratica. Sono le pratiche , le buone
pratiche, che ispirerebbero le regole e non viceversa. Al vuoto della
politica ufficiale, incapace di tener testa alla sfide globali, per le ragioni
espresse in precedenza, si sostituisce così l’attivismo di soggetti
non-statuali.
Il sito della Conferenza rimanda ad una lista
di ben 700 azioni e programmi lanciati a Rio per un valore di 513 miliardi di
dollari, da soggetti che spaziano da imprese multinazionali, alla Banca
mondiale, ad amministrazioni locali, ad ONG, a centri di ricerca e agenzie
specializzate ONU. Un proliferare di iniziative pilota quasi sempre senza
obiettivi definiti e quantificabili, che spesso nascondono strategie di “greenwashing” o maquillage verde. Così
a Rio +20 il settore privato ha annunciato oltre 220 programmi e progetti in
settori quali l’acqua, la biodiversità, la mobilità sostenibile, l’energia, i
diritti umani, l’educazione. Spiccano tra gli altril Eskom, Suez, BASF,
ABB, ENI (con un progetto su diritti umani, trasparenza ed anticorruzione),
UNILEVER, Santander, Sumitomo, NIKE, Procter and Gamble, Dow Chemicals, Walt
Disney, Lockeed martin, Rio Tinto. Tutto senza regole vincolanti, nel quadro
del Global Compact o del programma SE4ALL (Sustainable Energy for All) lanciato
da Ban Ki Mun alla vigilia del vertice.
Al rischio correlato al rilancio dei
partenariati pubblico-privati a di fuori di una cornice normativa vincolante
sugli obblighi delle imprese o di capacità di monitoraggio dal basso, fa da contraltare l’opportunità fornita
dalle iniziative dei soggetti non-governativi, ONG , movimenti sociali ed
indigeni, società civile organizzata.
I movimenti indigeni si sono riuniti in tre
iniziative centrate su una serie di parole d’ordine condivise: rispetto dei diritti
internazionalmente riconosciuti, (ad esempio nella Dichiarazione ONU sui
diritti dei popoli indigeni), il riconoscimento della conoscenza tradizionale e
della cultura come quarto pilastro dello sviluppo sostenibile (tema sostenuto
anche dalle reti di amministrazioni locali), la piena ed effettiva
partecipazione ai processi decisionali, il riconoscimento del ruolo delle
pratiche di autosviluppo.
Chi si è riunito nell’incontro di Karioka II
ha privilegiato la riaffermazione del diritto all’autodeterminazione, e il
rigetto di ogni possibile “finanziarizzazione”
della natura, assieme alla riaffermazione dei diritti della Madre Terra e la
critica radicale al capitalismo. Chi invece, (latinoamericani e centramericani)
si è incontrato all’interno del controvertice della Cupula de los Povos nell’”Accampamento per la vita piena e la terra
libera” ha dato maggior enfasi al tema dei diritti alla terra ed alla
resistenza contro le politiche sviluppiste ed estrattiviste, la cui icona
principale è rappresentata dalla megadiga di Belo Monte nello stato brasiliano
di Parà.
Altri rappresentanti indigeni di Asia, Africa,
Americhe si sono invece incontrati nella Conferenza dei popoli indigeni per lo sviluppo e l’autodeterminazione.
La dichiarazione finale adottata riafferma il valore centrale della cultura,
l’obbligo di rispetto dei diritti umani e collettivi e l’urgenza di rafforzare
le economie locali ed i processi di gestione collettiva dei territori. Rigetta anch’essa il modello
neoliberista, e propone un rilancio della cooperazione tra popoli indigeni e
della resistenza a progetti distruttivi, assieme a regole vincolanti per le
imprese.
Prossima tappa del movimento indigeno globale
sarà la preparazione della Conferenza Mondiale dei Popoli Indigeni che si terrà
a New York nel 2014.
Lungo questo percorso si snoderà anche
l’agenda di lavoro adottata dai partecipanti alla “Cupula de los Povos” , l’incontro dei movimenti sociali “per la giustizia sociale ed ambientale – in
difesa dei beni comuni, contro la mercantilizzazione della vita”. Dopo
alcune giornate di lavoro i movimenti sociali hanno adottato una dichiarazione
che condanna il capitalismo verde della “green economy” e l’operato di governi,
imprese transnazionali ed organizzazioni finanziarie internazionali
riaffermando il ruolo centrale delle alternative praticate dal basso.
Alternative che sono nelle mani dei popoli, delle comunità, nelle pratiche e
nei sistemi produttivi tradizionali, e che devono essere ancorate alla tutela
degli spazi pubblici e dei bei comuni. Dandosi appuntamento ad uno sciopero
generale globale, i movimenti sociali ribadiscono l’ importanza del
riconoscimento dei diritti dei popoli alla terra, dei diritti umani, del
necessario cambiamento di paradigma energetico, il riconoscimento del debito
storico ed ecologico, la sovranità alimentare. Insomma un manifesto per la
giustizia ambientale e sociale che ispirerà le iniziative del dopo Rio.
Accanto a questo processo se ne sono
sviluppati altri, uno, quello più istituzionale dello “stakeholder
forum” e dei “dialoghi” promossi dal governo brasiliano, che sono risultati
ingessati nelle procedure, e di poca rilevanza in termini di proposta politica
innovativa, al limite della cooptazione.
Da tenere a mente invece quello messo in campo
da una rete di ONG e società civile che hanno ripreso il testimone di quei
Trattati alternativi adottati al Global Forum 20 anni fa. Un processo largo di
consultazione on-line su temi chiave quali il cibo, il debito, l’economia
ecologica, le imprese, il clima, l’energia, i modelli di consumo, che ha
portato a Rio all’adozione di un manifesto ne quale i firmatari si impegnano ad
una serie di azioni ed una piattaforma comune di intenti . Temi che spaziano dall’equità
intergenerazionale e nelle relazioni tra umani e natura, alla rilocalizzazione
dei sistemi economico-produttivi, al decentramento dei processi decisionali ed
il sostegno a stili di vita sostenibili, dalla protezione dei diritti della
Madre Terra, alla democrazia ecologica radicale, alla costruzione di un
movimento globale che sia in grado di localizzare vertenze ed alternative
possibili, sempre con uno sguardo globale.
A Rio sono stati finalizzati 14
trattati dei popoli sulla sostenibilità, tra cui quello sulla Madre Terra, sui
valori etici e spirituali dello sviluppo sostenibile, sulla democrazia ambienale,
i diritti, i modelli di consumo e produzione, il trattato sulla transizione
verso un mondo senza combustibili fossili.
Insomma, portando lo sguardo fuori dai palazzi
“istituzionali” e dai negoziati ufficiali, emerge una molteplicità di processi di elaborazione
collettiva, alcuni dei quali indubbiamente con limiti dovuti sia a carenze
organizzative che a dinamiche politiche interne, ma che nel loro insieme rappresentano una agenda multiforme
alternativa rispetto a quella dominante.
Per questi soggetti Rio è stata soprattutto
occasione di incontro, costruzione di rete, e di prodotti “immateriali” che
sortiranno effetti nel corso degli anni, a seconda della capacità e volontà di
far derivare dagli stessi progetti politici comuni di trasformazione della
società e dell’economia globale.
Tra tutti i limiti che Rio ha evidenziato, uno
su tutti: quello della forte carenza di “politica”, schiacciata tra gli
imperativi della “realpolitik” e l’assenza
di attori capaci di dare rappresentanza e sostegno alle istanze dei movimenti e
dei soggetti sociali transnazionali. Una carenza sottolineata anche da molti
partecipanti alla Cupula de los Povos e che senz’altro sarà la cifra delle
iniziative e delle proposte che seguiranno all’appuntamento di Rio, a livello
istituzionale e non.