martedì 24 luglio 2012

Le guerre dimenticate dell'Africa


Secondo le statistiche dell'ultimo recentissimo Global Peace Index dell'Institute for Economics and Peace” l'Africa subsahariana sembrerebbe avviarsi verso un futuro di pace giacché per la prima volta dal 2007, quando venne lanciata l'iniziativa, la regione è stata superata dal Medio Oriente e dal Nord Africa in termini di livelli di conflittualità. Il rapporto – a scanso di equivoci - ci dice anche che il primo paese al mondo in termini di violenza e conflittualità è la Somalia, seguito da Afghanistan, Sudan, Iraq e Repubblica Democratica del Congo. Ciononostante nel nostro paese quando si parla di guerra il pensiero va all'Afghanistan o alla Libia o alla Siria, e ciò che avviene in Africa raramente fa notizia, suscita indignazione, chiama all'iniziativa. Forse perché il percorso per una rilettura in chiave post-coloniale delle relazioni con l'Africa non è ancora talmente sviluppato, o perché quei conflitti nascosti rifuggono una lettura tradizionale delle guerre. 

Basta prendere l'esempio della Repubblica Democratica del Congo ed in particolare la regione del Nord Kivu che vive oggi il rischio di un'escalation militare. In questa regione si muovono varie milizie tra cui l'M23 un gruppo insurgente tutsi (già National Congress for the Defense of the People) che, secondo un accordo stipulato con il governo il 23 marzo 2009, avrebbe dovuto essere integrato nell'esercito regolare. Secondo molti osservatori, la mancata attuazione dell'accordo, assieme alla decisione dei governo di Kinshasa di dar seguito al mandato di cattura spiccato dalla Corte Penale Internazionale contro il leader del M23 Generale Bosco Ntaganda sarebbe causa del recente ammutinamento del generale e dei suoi fedeli. Giovedi 13 luglio scorso per la prima volta alcuni elicotteri delle Nazioni Unite e della RDC hanno attaccato posizioni ribelli nei villaggi di Rumangabo e Bukuna. 

Tre giorni prima la Missione ONU MONUSCO aveva inviato nella zona truppe ghanesi, e forze speciali del Guatemala, Egitto e Giordania mentre a Goma veniva inviato un battaglione governativo addestrato dagli Stati Uniti, fino ad allora usato contro la Lord Resistance Army di Joseph Kony. Ciò segue ad un duro scambio di accuse tra Ruanda e RDC, all'indomani della pubblicazione di un dossier confidenziale delle Nazioni Unite fatto trapelare alla stampa a giugno, secondo il quale il governo ed i militari ruandesi avrebbero appoggiato l'M23 con armi e reclute. Denuncia poi amplificata da Human Rights Watch e Global Witness, che puntano il dito su due elementi in particolare: il reclutamento per procura di bambini soldato e il legame tra conflitto e risorse naturali. A metà Aprile Bosco ed i suoi (circa 600 miliziani) hanno iniziato una frenetica campagna di reclutamento, anche di minori. Secondo Global Witness, Ngaganda ed altri membri del M23 si sarebbero arricchiti contrabbandando attraverso il Ruanda minerali quali il coltan e lo stagno. 

La rivolta dell'M23 non è la sola ad essere fonte di destabilizzazione del paese. La città di Pinga è sotto il controllo di un'altra milizia l'APCLS, mentre ad ovest di Goma un gruppo ribelle Mai Mai del Sud Kivu, Raia Mutomboki, ha stretto alleanza con un altro gruppo i Mai Mai Kifuafua. Da allora sarebbero morte almeno 111 persone. C'è poi la caccia a Joseph Kony, capo della Lord Resistance Army. Da aprile a giugno l'LRA avrebbe compiuto almeno 9 attacchi armati nel'est della Repubblica Centrafricana e ben 62 nella RDC. Da alcuni mesi una task force di forze speciali di Washington (Special Forces A) sta operando assieme agli eserciti di Sud Sudan, Uganda e Repubblica Democratica del Congo alla caccia di Kony, suscitando qualche imbarazzo riguardo la presenza di soldati americani in Uganda, il cui presidente Museveni non è certamente esempio di integrità e democrazia o di rispetto dei diritti umani. 

Nonostante i ripetuti appelli e condanne da parte del Consiglio di Sicurezza, gli Stati Uniti non si sono mai impegnati a contribuire alla soluzione dei conflitti in RDC, perché sostengono il governo ruandese, vedendo nel presidente tutsi Kagame un elemento di stabilità nella regione e perché impegnati più a fondo con Africom nella lotta al terrorismo qaedista nel Sahel. Ciò lascia spazio alla soluzione panafricana. Solo di recente, ai margini del vertice dell'Unione Africana di Addis Abeba, che ha eletto per la prima volta una donna ai suoi vertici, Nkosazana Dlamini Zuma, i presidenti della RDC e del Ruanda si sono parlati trovando accordo sulla possibile soluzione. Gli stati membri della Conferenza Internazioale della Regione dei Grandi Laghi lavoreranno assieme alle Nazioni Unite ed all'Unione Africana per creare una forza internazionale con l'obiettivo di “sradicare l' M23, il FDLR e tutte le altre forze negative (sic!) nella regione est della RDC”. 

Spostandosi verso est, lungo quello che viene definito “ arc of instability” troviamo di nuovo il mix di tensioni etniche, interessi geopolitici “esterni”, controllo ed utilizzo di risorse naturali strategiche, povertà indotta e commercio di armi. E' il caso del Sudan e del neonato stato del Sud Sudan, un parto difficile sempre sull'orlo di una nuova guerra. Molti sono stati infatti gli episodi di conflitto armato tra i due paesi nel corso dell'ultimo anno, a seguito della difficoltà nel definire i dettagli dell'accordo di pace, ed in particolare lo status della città di Abyei, zona ricca di quel petrolio Sud Sudanese che rappresentava i 2/3 del petrolio prodotto in tutto il Sudan. Nei mesi scorsi, il governo di Khartoum decise di intercettare il petrolio sudsudanese in transito attraverso gli oleodotti posti sul suo territorio, di fatto privando il governo del Sud Sudan del 98% delle sue entrate e facendo precipitare il paese in una grave crisi. A questo si aggiunge l'emergenza umanitaria causata al afflusso di migliaia e migliaia di profughi che dal Sudan entrano in Sud Sudan (almeno 170mila). 

Nell'aprile di quest'anno il Sud Sudan ha ripreso il controllo dei giacimenti di petrolio di Heglig scatendando furiosi combattimenti. L'Unione Africana condannò la mossa come occupazione illegale, e le Nazioni Unite hanno minacciato sanzioni se i due Sudan non riusciranno a accordarsi sui dossier più caldi relativi alla frontiera ed il petrolio entro il 2 agosto prossimo. Nei giorni passati sempre ad Addis Abeba i leader di Sudan e Sud Sudan si sono incontrati per riaprire un dialogo diretto dopo le violenze dei mesi scorsi, senza però giungere ad un accordo che possa risolvere definitivamente le tensioni. Nel frattempo si è riacceso il conflitto intertribale in Darfur, dove 60 persone sono morte in scontri tra gruppi etnici del Darfur Orientale ed il Sud Kordofan. 

E poi c'è la Somalia. Paese dilaniato dalla guerra tra le milizie di Al Shaabab e l'esercito del governo di transizione, una guerra che ha coinvolto, direttamente ed indirettamente Eritrea ed Etiopia ed ora vede sempre più impegnato il Kenya, e di riflesso gli Stati Uniti. Insomma, dalla Nigeria, al Mali, al Niger, attraverso la Repubblica Democratica del Congo, la regione dei Grandi Laghi, fino al Sudan ed al Corno d'Africa l'Africa continua ad essere attraversata da una faglia di conflitti irrisolti, legati l'uno all'altro in un increccio mortale e che sfuggono ad un'analisi convenzionale. 

A fronte di un certo protagonismo dell'Unione Africana fa riscontro l'inadeguatezza della risposta europea. Nel corso dell'ultima riunione del maggio scorso dell'iniziativa UE-Africa per la prevenzione dei conflitti si discusse di Somalia, di Sahel, di Sudan, ma la Repubblica Democratica del Congo era assente dall'agenda. Qualche giorno dopo le armi iniziarono a sparare. Sul fronte antiterrorismo-antipirateria invece il quadro cambia. A maggio di quest'anno per la prima volta le forze della task force anti-pirateria europea che stazionano al largo della Somalia hanno bombardato l'entroterra contro supposte posizioni di pirati, di fatto marcando un'escalation nel conflitto. E nei giorni scorsi il Consiglio dei Ministri ha approvato l'invio di un contingente civile europeo di 50 unità per l'addestramento delle forze di sicurezza del Niger contro il terrorismo e la criminalità nella regione del Sahel. La missione, inizialmente prevista per due anni, al costo di 87 milioni di euro, potrebbe poi essere estesa a Mauritania e Mali. Paese quest'ultimo nel quale si sta prospettando un intervento militare internazionale contro l'insurrezione tuareg. 

Attanagliata nella sua crisi, nei suoi Fiscal Compact ed affini, l'Unione Europea pare ingessata in una approccio alla gestione delle crisi essenzialmente “securitario”. Anche in questo andrà misurata la costruzione di un'Europa politica da contrapporre a quella dei mercati, che sia in grado di svolgere un ruolo responsabile ed all'altezza delle sfide globali.  

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