In queste fasi concitate, anche dentro il mio partito, e non solo, penso spesso alle persone con le quali - per mia grande fortuna - passo da quattro anni gran parte del mio tempo. Molte di oggi sono in Guatemala a celebrare l'inizio del nuovo mondo. E guarda caso oggi riescono dietro i passamontagna, da Oventic a San Cristobal. Penso spesso a quello che mi hanno insegnato, e che ormai è parte di me da quando degli anziani sciamani Kuna mi hanno adottato, ed a quello che mi dicono spesso. Ad andare lentamente quando si ha fretta, a pensare sempre alle prossime sette generazioni, quando si decide di fare una cosa o intraprendere un'iniziativa politica. A capire quando stare zitto, piuttosto che parlare. A guardare oltre con dolcezza ma determinazione. Perchè sanno ascoltare i loro vecchi, ma i loro vecchi sanno come accompagnarli con saggezza verso il futuro. Perché si rispettano a vicenda. Si fermano, a volte si ritirano, riflettono, guardano dentro loro stessi o si confrontano con la loro comunità. Loro possono anche scazzare di brutto, essere in disaccordo, ma alla fine sono fratelli e sorelle, fumano, bevono assieme, e trovano il consenso per tutelare la loro comunità, proteggerla, perché l'essere fratelli e sorelle li aiuta a resistere da centinaia di anni. Quello manca in queste ore, e quello rischia di ammazzarci. Siamo ancora in tempo. La politica è soprattutto questo, non si esaurisce in un posto in Parlamento
uno spazio pubblico per attivisti/e che lavorano per la pace, il disarmo, i diritti umani, la giustizia sociale, economica ed ecologica globale, la resistenza alle politiche neoliberiste, il riconoscimento del debito ecologico e sociale.
venerdì 21 dicembre 2012
lunedì 10 dicembre 2012
Diritti umani e dignità, l'antidoto all'orrore
Dicembre 10, 2012 - giornata mondiale sui diritti umani. Non dev'essere una celebrazione rituale ma il ricordo che senza il riconoscimento della dignità delle persone, dell' universalità ed indivisibilità dei diritti umani, senza ragionare su modalità innovative per la loro promozione che rifuggano il rischio di quello che Slavoj Zizek chiamava "L'orrore dei diritti umani", (forse provocatoriamente come suo solito, ma con un fondo di verità), non ci sarà politica, impegno, trasformazione sociale che tenga. E che sia anche occasione per ragionare sul fatto che esistono anche diritti dei non-umani, diritti di nuova generazione, che si rendono necessari o si manifestano di fronte all'avanzata della frontiera della privatizzazione e colonizzazione dei mercati.
domenica 9 dicembre 2012
Doha, porta di entrata per un futuro infernale
Il Manifesto, 9 dicembre 2012
Doha:
porta di entrata per un futuro infernale.
Francesco
Martone (*), Alberto Zoratti (**)
Alla
fine ce l'hanno fatta. Dopo una serie di colpi di scena è stato
approvato a colpi d'ariete della presidenza qatariota e sul filo del
rasoio (nonostante la resistenza in zona Cesarini della Russia) il
“Doha Climate Gateway”. Una porta di entrata per il futuro
con l'estensione del protocollo di Kyoto, il riconoscimento del
risarcimento per danni causati dai cambiamenti climatici e l'impegno
dei paesi industrializzati di stanziare per lo meno una somma pari
alla media di quanto sborsato in aiuti climatici negli ultimi 3 anni.
Una proposta di minima visto che troppi
erano i gap da colmare. E' uno dei tanti paradossi di questa
Conferenza delle Parti sui mutamenti climatici che è conclusa sul
filo del precipizio a Doha, città simbolo di opulenza, immenso
cantiere a cielo aperto, sede un incontro che all'inizio si
annunciava come un appuntamento di transizione.
Così non è stato.
Le ultime fasi del negoziato del livello “ministeriale” si sono
protratte ben oltre i tempi previsti, tra mancanza di volontà
politica di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, (Stati
Uniti in particolare) e richieste insoddisfatte di un aumento dei
fondi per sostenere i paesi in via di sviluppo o rapida
industrializzazione verso un'economia a basso contenuto di carbonio,
– la Cina nello specifico, ma non solo. Ed un ultimo colpo basso
della Polonia con dietro le spalle Russia ed Ucraina intenzionate a
proteggere il loro diritto di vendere alte quote di permessi di
emissione fino al 2020, anche se ciò avrebbe portato al fallimento
totale della Conferenza. Così nella “land of plenty” del
Qatar, l' occasione per l'Emiro Hamad bin
Khalifa al Thani di proporsi al mondo come paladino
dell'ambiente rischiava di sfumare per una questione di quattrini, e
per manifesta incapacità dei suoi diplomatici. Se non fosse bastata
la condanna all'ergastolo per Mohammed
al-Ajami, un poeta giudicato colpevole di "sovversione del
sistema di governo" e "offesa all'emiro" per una sua
poesia dedicata alla “Tunisia dei gelsomini”.
Anche qui a
Doha si riverberano gli effetti della “crisi” finanziaria in
Europa, che a Durban aveva messo assieme paesi poveri ed insulari
salvando il negoziato , e che poco dopo, vista l'incapacità di
tener fede alle promesse di aiuti finanziari, ha visto indebolirsi il
suo potere di trattativa. La morsa del Fiscal Compact, e delle
politiche di austerità sostenute dalla BuBa e dalla Cancelliera
Angela Merkel stanno così avendo un effetto devastante anche sul
profilo internazionale dell'Unione già compromesso dalla posizione
oltranzista di Varsavia. A Doha c'era da concludere il Piano di
Azione di Bali su temi quali adattamento, mitigazione, foreste,
trasferimenti di tecnologie, finanziamenti, strumenti di attuazione,
il prossimo regime di riduzione delle emissioni globali. Si è
faticato fino all'ultimo secondo per poter passare la palla al gruppo
di lavoro creato a Durban che dovrà trattare un accordo globale
vincolante per tutti entro il 2015, per entrare in vigore nel 2020.
Fumo negli occhi di Todd Stern, negoziatore di Washington.
Un
passo in avanti però c'è stato, si riconosce per la prima volta il
diritto dei paesi insulari al risarcimento per le “perdite e
danni”” per i danni subiti a causa dei cambiamenti climatici.
Fino all'ultimo è rimasta aperta la questione finanziaria, ovvero
come reperire quel che resta dei 30 miliardi di dollari promessi a
Copenhagen per il 2010-2012, e arrivare ai 100 miliardi l'anno entro
il 2020. A poco è servito che l'Inghilterra annunciasse lo
stanziamento di 2,2 miliardi di dollari, seguito a ruota da altri
paesi europei, (Germania, Francia, Olanda, Svezia, Svizzera e UE) per
un totale di 6,85 miliardi di dollari per i prossimi due anni, un'
aumento rispetto al biennio 2011-2012. Inoltre i paesi donatori
chiedevano di verificare come quei soldi verranno spesi nei paesi in
via di sviluppo, questi ultimi chiedono invece che si faccia un
verifica degli impegni di spesa dei primi.
L'onda lunga di questo
gioco al rimpiattino si è fatta sentire anche nel negoziato sulle
foreste, che ha prodotto un risultato inferiore alle aspettative. Se
ciò non bastasse. nonostante le decine di
morti causate nelle Filippine dal tifone Bopha, i governi non sono
riusciti ad accordarsi su come colmare quel differenziale di 6-15
gigaton di emissioni che marcano l’inadeguatezza degli attuali
impegni di riduzione. O il cosiddetto “ambition deficit”, ossia
il differenziale tra la percentuale attuale delle riduzioni di
emissioni: 11-16% attuali rispetto a quelle necessarie entro il 2020,
ovvero il 25-40% sui livelli di emissione del 1990. Temi che
riemergeranno con virulenza nei prossimi anni.
La
COP18 riesce nonostante tutto a rimettere faticosamente in
carreggiata il Protocollo di Kyoto confermando il "Second
commitment period" cioè il secondo periodo di impegni di taglio
delle emissioni di gas climalteranti che i Paesi industrializzati
avrebbero dovuto assumersi dopo il 2012. Un obiettivo di basso
profilo, visti i molti tentativi di far deragliare l'unico
Protocollo realmente vincolante assieme a quello di Montreal. Dal 1
gennaio 2013 inizierà Kyoto 2, ma vedrà li paesi parecipanti, quali
Unione Europea, la Svizzera, l'Australia e la Norvegia rappresentano
solo il 15% delle emissioni globali. La loro adesione a Kyoto, gli
permetterà di consolidare il mercato del carbonio (come il sistema
ETS europeo o quello australiano, che nei prossimi anni andranno a
convergere) , uno dei meccanismi flessibili di Kyoto particolarmente
voluto dai Paesi industrializzati, perchè permette una mitigazione a
basso costo. Il rimanente 85% delle emissioni, provenienti da
Stati Uniti (con 17 tonnellate e passa procapite all'anno di CO2) e
Cina (con poco più di 7 tonnellate procapite allo stesso livello
dell'UE) verranno gestite all'interno del percorso negoziale nato a
Durban un anno fa, verso un regime non vincolante ma di "pledge
and review", impegni volontari da verificare collettivamente.
Kyoto 2, sebbene rimanga in piedi legalmente, dovrà essere riempito
di significato, di numeri e di percentuali.
La rigidità di Stati
Uniti, che non hanno mai ratificato Kyoto, del Giappone o del Canada,
che dal Protocollo è uscito un anno fa a causa degli interessi
economici ingenti legati alle sabbie bituminose in Alberta ed al loro
sfruttamento, è stato uno degli elementi di blocco di un negoziato
che, secondo le regole mutualmente decise nel corso degli anni,
sarebbe dovuto arrivare naturalmente ad adottare un regime
vincolante. D'altra parte la Cina, che nasconde dietro al gruppo del
G77 i suoi interessi di potenza mondiale ormai emersa, non accetta
alcun vincolo multilaterale che metta in discussione il suo sviluppo
impetuoso ancora fondato sullo sfruttamento del carbone e del
nucleare. Kyoto è necessario, ma non è assolutamente sufficiente.
Non lo era prima, tanto meno lo sarà oggi. Il picco di emissioni di
C02, dice il Panel di scienziati dell'IPCC, dovrà essere raggiunto
nel 2015 per poi decrescere. Questo poter sperare di far
rimanere la concentrazione di C02 sotto i 450 ppm e l'aumento della
temperatura media globale sotto i 2°C, che però può
significare +4°C - +6°C in altre parti del mondo, basti pensare
all'Africa subsahariana che rischia di perdere in pochi anni buona
parte dei suoi raccolti agricoli (con buona pace della sovranità
alimentare) e alla Groenlandia, che ha visto scomparire quasi del
tutto la sua calotta glaciale durante l'ultima estate boreale. Cosa
che, ironia della sorte renderebbe assai meno costoso lo sfruttamento
delle proprie risorse petrolifere.
La prossima Conferenza delle Parti
che si terrà a Varsavia lascia poche speranze, vista l'ostinazione
con la quale la Polonia ha cercato di affossare il protocollo di
Kyoto e con esso tutto il negoziato. In molti stanno già guardando
alla COP20 che si terrà a Parigi, quando - si spera - l'Europa avrà
un'altra guida ed altre ambizioni.
(*)
Sinistra Ecologia Libertà (**) Fairwatch
sabato 8 dicembre 2012
Kyoto 2 la vendetta
E' stata dura ma alla fine ce l'hanno fatta. Nonostante la Polonia, l'Unione Europea ha consegnato tutte le firme necessarie per far entrare in vigore il secondo periodo di impegno per il Protocollo di Kyoto, Il negoziato a Doha potrebbe sbloccarsi da un momento all'altro. Mancano a questo punto solo due punti per adottare il Doha Climate Gateway, la porta verso il futuro: soldi e risarcimento dei danni sofferti dai paesi poveri, cosa osteggiata fino all'ultimo dagli Stati Uniti. Il Qatar propone che i paesi ricchi si impegnino qua a Doha a stanziare aiuti climatici pari alla media di quanto stanziato negli ultimi tre anni. La Conferenza delle Parti continua, per chiudersi probabilmente tra stanotte e domani.
giovedì 6 dicembre 2012
Il ragno ed il buco nero di Doha
“Se
non ora quando? Se non noi, chi? Se non qua, dove?” Con queste
parole si rivolge alla platea,Yeb Samo, il negoziatore capo delle
Filippine, paese in queste ore colpito da un tifone che sta seminando
distruzione e morte, Sono ormai giorni che il negoziato sul clima, in
corso a Doha si è avvitato in un'impasse. Forse stanno venendo al
pettine le fragilità del compromesso raggiunto lo scorso anno a
Durban, ovvero di diluire l'impegno-chiave dell'accordo globale sulle
riduzioni di emissioni, in un nuovo processo negoziale, (la
Piattaforma di Durban), e sussumere all'interno di quest'ipotesi di
accordo globale il secondo periodo di applicazione del protocollo di
Kyoto.
I
numeri però parlano chiaro: oggi, a 24 giorni dalla scadenza del
primo periodo di Kyoto ancora non c'è accordo su come continuare.
Oggi, con le decine di morti causate dal tifone Bopha, i governi non
riescono ad accordarsi su come colmare quel “gigaton
gap”
di 6-15 gigaton di emissioni che marcano l'inadeguatezza degli
attuali impegni di riduzione. O quello che gli esperti navigati di
negoziati climatici denominano “ambition
deficit”,
ossia il differenziale che passa tra la percentuale attuale delle
riduzioni di emissioni: 11-16% attuali rispetto a quelle necessarie
entro il 2020, ovvero il 25-40% sui livelli di emissione del 1990.
Eppoi
le cifre degli impegni finanziari: l'accordo a Copenhagen si era
chiuso su un impegno globale di finanziamento per politiche e
programmi climatici pari a 30 miliardi di dollari di “finanziamento
iniziale” per poi arrivare a un volume di 100 miliardi di dollari
l'anno fino al 2020. Dei 30 miliardi di dollari finora se ne sono
visti pochi, spesso fondi riciclati da quelli della lotta alla
povertà. Ed il Fondo Verde per il Clima, struttura dedicata alla
gestione e concessione dei finanziamenti finora fatica a
raggranellare i fondi necessari per essere pienamente operativa.
Insomma,
mai come quest'anno, il tema del clima si trasforma in una tragica
pedina di scambio su scacchiere che poco o nulla hanno a che vedere
con l'oggetto del contendere. Non può essere altrimenti se il quadro
di riferimento resta quello del modello di crescita e
liberalizzazione spinta con una crisi economico-finanziaria che
continua a incombere non solo sui paesi di quello che a suo tempo si
definiva “nord” del mondo, ma inizia ad avere effetto anche su
Cina, Brasile ed altri paesi in rapida industrializzazione,
contraendone le capacità produttive e di crescita.
Tutto
il negoziato, quello dei governi, si compone e scompone continuamente
in mille rivoli, tavoli informali, gruppi di lavoro, sessioni
parallele, cosa che rende impossibile ogni forma di monitoraggio e
partecipazione effettiva dei non-addetti. Parole chiave come equità,
giustizia climatica, responsabilità comuni e differenziate si
dissolvono un una zona grigia, virtuale, un buco nero definito dai i
gap di ambizione, quelli degli impegni finanziari, i gap di
responsabilità e quelli di democrazia. Un negoziato sempre più a
porte chiuse, dove la decisione di portare a zero l'uso di carta per
salvare (si dice 150 alberi circa, che sarà mai in un paese come il
Qatar con il più alto livello di emissioni procapite, e la benzina a
25 centesimi di euro ogni 4 litri) rende assai arduo lavorare su
proposte di testi alternativi, e diffondere le proprie proposte ai
delegati ed alla stampa.
In
quel buco nero, vischioso come una pozza di petrolio che inghiotte
ogni possibile aspettativa, i delegati continuano a rincorrersi, tra
appelli drammatici, parole dure, bracci di ferro, offerte
dell'ultim'ora.
Il
quadro che ne risulta è desolante, ma da Doha non ci si aspettava un
granché. Fin dall'inizio era chiaro che solo a ridosso della data
del 2015 (entro la quale andrà concluso un accordo globale sulla
riduzione delle emissioni che entrerà in vigore - si badi bene -
solo nel 2020) si potranno delineare i contorni di un possibile
accordo. A Doha la posta in gioco è altra: come chiudere i due
processi negoziali, quello relativo al protocollo di Kyoto e quello
del gruppo di lavoro sugli impegni di lungo termine che finora ha
dibattuto di questioni quali visione di lungo periodo, adattamento,
mitigazione, foreste, trasferimenti di tecnologie, strumenti di
attuazione.
Da
una parte i paesi “ricchi”, che vorrebbero eludere nuovi impegni
su questi temi, cercando di chiudere alla svelta il negoziato e
passare oltre, affermando che tutti quei temi o sono stati già
affrontati o lo saranno in commissioni e comitati costituiti
all'uopo. Dall'altra i paesi in via di sviluppo - definizione ormai
vecchia perché non aiuta a differenziare tra paesi quali Brasile,
Cina, Sudafrica, India, paesi poveri e paesi insulari, ognuno con le
proprie urgenze e specificità. Già perchè a seconda di come lo
leggi questo negoziato sul clima, con le sue “sottotracce”, da
quella commerciale a quella scientifica a quella “politica”, a
quella della sopravvivenza, a quella del debito ecologico, a quella
dei diritti umani, la geografia di chi vince e chi perde, o forse la
mappa geopolitica, cambia.
C'è
un blocco di paesi che chiede impegni chiari su finanziamenti,
trasferimenti di tecnologie, conferma del secondo periodo di
attuazione del protocollo di Kyoto.
Ci
sono paesi poveri che sperano di accedere a fondi che possano essere
complementari rispetto a quelli sempre più scarsi per la lotta alla
povertà.
Lo
sanno bene gli africani, che tra una decina d'anni si troveranno di
fronte a un tremendo “crunch”:
La maggior parte dei fondi pubblici si concentreranno sulle politiche
climatiche e di questi la stragrande maggioranza in Asia e America
Latina, dove si devono rafforzare i programi di “mitigazione”
delle emissioni, mentre l'Africa rischia di restare a bocca asciutta.
Eppoi
il protocollo di Kyoto ormai in stato comatoso, che dovrebbe essere
ratificato per il secondo periodo,sul quale si prospetta un accordo
di compromesso: sulla carta si partirà dal 1 gennaio 2012, ma la
realtà sembra consegnarci una “imago
sine re,
“ un'immagine senza sostanza . E resta il rischio di ricorrere a
false soluzioni quali i meccanismi di mercato.
Questioni
non da poco, giacché a seconda dell'esito di questi due negoziati,
quello su Kyoto e quello sulla cooperazione di lungo periodo, si
definiranno direttamente o per “default”, l' agenda e la roadmap
della piattaforma di Durban. Questo pare essere l'unico negoziato che
procede con relativa tranquillità, visto che il tempo delle
decisioni vere è ancora lontano. Insomma, a meno di due giorni dalla
fine della Conferenza delle Parti numero 18 si assiste ad un copione
già visto, che lascia poco sperare per l'anno che viene. Un 2013 che
si concluderà con l'ennesima conferenza delle Parti, la numero 19,
stavolta non nel paese degli sceicchi ma in quello del carbone, la
Polonia. acerrimo nemico del Protocollo di Kyoto.
Nel
frattempo per tenere ancora vive le speranze, il Segretario Generale
delle Nazioni Unite annuncia una Conferenza d'alto livello di
Ministri per continuare a discutere sulle questioni climatiche e
sperare che la notte porti miglior consiglio. Nel frattempo le enormi
sale e corridoi del centro congressi del Qatar National Convention
Center (QNCC), si svuotano in attesa dell'ultimo giorno di trattative
all'ultimo sangue. Resta un 'enorme ragno di acciaio, animale sacro
qua in Qatar, visto che è l'unico che resiste al deserto. E' “Maman”
opera scultorea della grande artista contemporanea Louise Bourgeois,
che sta a simboleggiare il rinnovamento continuo dei cicli della
vita. Un'esortazione per il futuro.
domenica 2 dicembre 2012
il clima pesante di Doha
Inizia oggi la seconda settimana di negoziati della diciottesima conferenza delle parti della Convenzione ONU sui Cambiamenti Climatici, ospitata quest'anno dal Qatar. Finora i governi non sono riusciti a fare un passo in avanti nella definizione del quadro generale di lavoro per il dopo Kyoto. Né si sono trovati d'accordo su come chiudere il piano di lavori del cosiddetto Piano di Azione di Bali. Si sapeva che Doha non avrebbe certo rappresentato una tappa storica ma solo un'appuntamento nel quale definire la "transizione" tra una fase negoziale e la nuova, che dovrebbe portare ad un accordo generale sulle riduzioni delle emissioni entro il 2015 , per l'entrata in vigore entro il 2020. E' evidente che senza un chiaro impegno finanziario, né una volontà politica di colmare quel "gap" esistente tra realpolitik e urgenza dettata dai cambiamenti climatici (che in numeri si traduce in riduzione dell'aumento della temperatura rispettivamente di 2 o 1,5 gradi , oppure in un eccesso di emissioni ancora da ridurre pari a 6-12 gigatonnellate di carbonio equivalente) saranno esigue le chance di avviare un processo di negoziato che possa portare a risultati concreti. Ma anche in questo caso, possiamo permetterci di aspettare il 2020?
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