lunedì 10 ottobre 2016

Masters of War





Come you masters of war
You that build all the guns
You that build the death planes
You that build the big bombs
You that hide behind walls
You that hide behind desks
I just want you to know
I can see through your masks
(B.Dylan, 1963)

Di Francesco Martone (*)
per Alternative per il Socialismo 
Ottobre 2016


15 anni sono passati dall’11 settembre 2001, dall’attacco alle Torri Gemelle che ha rappresentato un vero e proprio spartiacque nelle relazioni internazionali, con l’avvento della guerra globale permanente al terrorismo. Strategia elaborata per  riaffermare il dominio statunitense in un mondo che alla caduta del Muro di Berlino sembrava sempre più orientato verso una sorta di unipolarismo a stelle e strisce.  Erano i tempi nei quali l’ideologo neocon Robert Kagan beffeggiava l’Europa per la sua ritrosia nel sostenere la teoria e la dottrina della guerra preventiva, tranquilla com’era quella Venere nel vivere la pax kantiana sotto la copertura armata di Marte, del Pentagono. [1]
La stessa Europa che oggi si vuole trasformare in Marte nell’illusoria ricerca di un antidoto alla propria crisi di identità e “mission”. 

A Washington ci s'illudeva allora di poter plasmare con la guerra un’ intera regione, quella Medio-Orientale e di prossimità, disfacendo confini ed assetti statuali per ricomporli a seconda degli interessi delle potenze di turno.  Per poi risvegliarsi in uno stato di “sindrome da stress postcoloniale” che impedisce di leggere gli eventi in altra ottica, e pertanto determina risposte e reazioni a tali eventi e crisi che finiscono per perpetuarle queste crisi,  piuttosto che contribuire a risolverle. Un tragico effetto domino.
Insomma se una cosa l’onda lunga dell’11 settembre ha dimostrato, è stato che la storia non è certamente finita, per parafrasare Francis Fukuyama, anzi, si è nuovamente trasformata in storia di conflitti, corsa al riarmo convenzionale e nucleare, focolai di guerre latenti o guerreggiate, per procura o dall’alto dei cieli. Con l‘invio di truppe speciali, spesso sotto copertura, o l’addestramento di truppe altrui, con l’uso della forza aerea, bombardieri d’alta quota o drone, o con l’invio di armi. Con l’adozione di legislazione e strategie contro il “terrorismo” che hanno aperto pericolose crepe nello stato di diritto, e nella cornice di riferimento fissata dal diritto internazionale. Con l’avanzare di uno scenario da guerra fredda di confronto tra Russia e Stati Uniti che si pensava ormai relegato negli anfratti della storia passata. Ad un conflitto possibile i cui prodromi si stanno ripresentando con frequenza e continuità allarmante si accompagnano le guerre guerreggiate, quelle che mietono migliaia di vittime civili, sotto le macerie di Aleppo.  O insanguinano le periferie del Sud Sudan, nei deserti del Mali, o negli altopiani d’Afghanistan o nelle regioni del Nord Iraq.  Guerre d’occupazione, sapientemente mascherate da operazioni di ordine pubblico, come in Palestina,  o guerre che covano sotto le ceneri, come il conflitto mai sopito tra India e Pakistan in Kashmir, o quello tra popolo Sahrawi e Marocco.
Guerre di egemonia in un Medio Oriente squassato alle fondamenta, nei suo confini postcoloniali ed assetti statali e di governo. Guerre per il controllo di risorse strategiche o per riaffermare il proprio controllo su aree storicamente sotto il proprio cono di influenza, come le guerre francesi contro DAESH nel Sahel, o la guerra di Vladimir Putin a fianco di Assad  e del suo regime in Siria, chiave di volta per un rientro di Mosca in un Medio Oriente ormai marginale nelle priorità strategiche di Washington.
Guerre che vengono combattute dagli altri, e quindi spesso rimosse dalla percezione e dall’attenzione dell’opinione pubblica. Certamente i fallimenti derivanti dalle operazioni in Iraq ed Afghanistan hanno portato ad una certa cautela nel mandare repentinamente “boots on the ground”, si veda ad esempio il caso della Libia. In questo caso però le esitazioni sono state superate con un ipocrita ricorso al operazioni di forze di sicurezza “undercover”, o con la retorica “umanitaria” alla quale il governo di Matteo Renzi in particolare ha fatto ricorso per giustificare l’invio di un contingente di paracadutisti a Misurata.[2]
Retorica “umanitaria” o della lotta al “terrorismo” a parte, la logica della guerra rimane la stessa: al venir meno delle ragioni della politica si fa avanti la logica delle armi. Come spiegare altrimenti le proposte fatte dall’Alto Rappresentante dell’Unione Europea Federica Mogherini, riprese in certa maniera da Francia e Germania, di un rilancio dell’industria della difesa europea, di un comando unificato, di investimenti massicci e una più forte presenza di truppe europee nei teatri di guerra come possibile antidoto alla crisi di identità e legittimità dell’Europa politica?  Va a tal riguardo rammentato come  la strategia di sicurezza europea ed il portato del trattato di Lisbona sulla politica europea di sicurezza e difesa siano state determinate dalla forte pressione delle lobby delle industrie degli armamenti. [3] 
Già il rapporto “Lobbying warfare: the arms industry role in building a military Europe” del Corporate Europe Observatory del settembre 2011 [4]  dimostra come le lobby dell’industria della difesa europea non solo determinano le linee di politica industriale ma anche le strategie di politica estera e di difesa.  Per non parlare del recentissimo rapporto del Transnational Institute di Amsterdam intitolato “Border Wars” che documenta  come l’industria europea della difesa si sta riadattando alla domanda di sistemi di sorveglianza e monitoraggio delle frontiere. [5]  Nel 2015 solamente l’Unione Europea ha speso ben 203.143 miliardi di euro nel comparto difesa.  Un trend destinato a crescere anche attraverso nuovi corposi sussidi pubblici .[6] Insomma si assiste al passaggio da “welfare europeo” a “warfare europeo” di cui parlava a suo tempo Christian Marazzi. [7] Altro che “quantitative easing for the people”, [8]soluzione possibile e necessaria da contrapporre al modello di austerità al quale l’industria militare sembra essere immune ed immunizzata.
Gli elementi e i fattori critici si incrociano, si sovrappongono. E’ quella che Jean Baudrillard ha definito assai argutamente nel suo saggio “Power Inferno, requiem per le Torri Gemelle”, scritto all’indomani delle Torri Gemelle, [9] guerra come “continuazione dell’inesistenza della politica con altri mezzi”. Eppure ad un certo punto pareva che i movimenti pacifisti potessero rappresentare un contropotere, forti com’erano nello sfidare il potere della menzogna e della prevaricazione unilaterale che permeava l’avventurismo neocoloniale delle “potenze” occidentali in Iraq ed Afghanistan.  La terza potenza mondiale la chiamò il New York Times, assimilando alla politica di potenza di chi faceva la guerra, il potere, la puissance, dei movimenti, due elementi assai distinti. E’ la distinzione fra “potere” e “potenza” che va messa a nudo? O forse  è il termine stesso “guerra” che non aiuta a leggere le tracce, e identificare le modalità con le quali la politica estera di potenza si esplicita e pertanto ad individuarne e mettere in campo i necessari anticorpi?
Le guerre sono economiche, commerciali, telematiche e nel cyberspazio, guerre al terrore o al terrorismo, guerre sotterranee, guerre di posizionamento e guerre per le risorse. Guerre alimentate dalle risorse e dal loro sfruttamento e commercio illegale, o per controllare risorse scarse. Qualche anno fa le Nazioni Unite calcolavano che almeno 1/5 dei conflitti armati nel mondo avessero a che fare con le risorse naturali. O per assicurare il proprio controllo, o perché alimentate dal loro contrabbando (Repubblica Democratica del Congo, il Ruanda e la regione dei Grandi Laghi ne sono l’esempio più evidente), o perché il loro sfruttamento indiscriminato ha portato ad un reazione armata da parte delle popolazioni impattate. Il caso del MEND prima e dei Niger Delta Avenger nel Delta del Niger, gruppi armati che si opponevano alle attività di imprese petrolifere, inclusa l’AGIP, a causa del devastante impatto socio-ambientale delle loro attività, sono lì a dimostrarlo. Le prossime guerre saranno per il controllo di risorse scarse, quali l’acqua o scatenate dagli effetti nefasti dei mutamenti climatici.  Guerre “paradigmatiche” insomma, strettamente connesse ai costi sociali ed ecologici del modello dominante di sviluppo, quello del capitalismo “estrattivo”.
Ci sono le guerre contro Al Qaeda prima ed il DAESH ora. Guerre in regioni già provate da forti trasformazioni, o che si sono definite nelle crepe aperte dagli interventi unilaterale del dopo 11 settembre.  A differenza del passato, però, quella che pareva essere una maledizione o una salvezza per altri popoli, oggi entra dentro la nostra quotidianità. Lo fa attraverso legislazioni di emergenza, la militarizzazione dell’ordine pubblico, la securitizzazione di sempre più ampi spazi pubblici e privati.
Varie sono state nel corso della storia le analisi e le strategie che si sono sviluppate intorno alla guerra, “una forza che ci dà significato” diceva nel 2004 in un suo saggio il giornalista investigativo Chris Hedges. [10] Analisi volte a giustificarne il ricorso, che fossero “sante” o giuste”, a scagionare talune potenze rispetto alla tragedia di taluni popoli, a cercare di disinnescare il potenziale di nuove guerre, o portare a termine quelle in corso. Antagonisti della guerra e fautori della guerra in un modo o nell’altro hanno adottato schemi di analisi equivalente, che siano quelli della geopolitica o della realpolitik, della primazia dei diritti umani e dell’esportazione della democrazia, con o senza armi. Forse il punto centrale nel tentare di proporre un quadro di riferimento politico e concettuale per disinnescare la miccia della guerra va trovato altrove, in una nuova prospettiva strategica e concettuale.  Identificando dapprima i nessi e le correlazioni, a partire dal nostro “punto di enunciazione”, e del ruolo che l’Italia svolge nella logica e nella pratica della guerra. Ed in seguito elaborando un quadro di riferimento teorico, politico e concettuale che possa rappresentare un valido paradigma alternativo per la politica estera del paese, ispirato al rifiuto netto della guerra ed al concetto ed alla pratica della “neutralità attiva”.     
Oggi l’Italia, il sistema Italia, derubricato come pura formalità il ripudio costituzionale alla guerra, la guerra la fa per interposta persona o partecipando direttamente, si attrezza per la guerra, si adatta alle nuove modalità di guerra, con uso di drone armati e forze speciali.
Vende armi in giro per il mondo, e aumenta la propria spesa militare: secondo il Documento di Programmazione Economica per il 2016-2018 solo nel 2016 l spesa militare italiana ammonterà a 13.36 miliardi di euro, che, considerate anche le spese per le missioni e lo sviluppo e produzione di sistemi d’arma, arrivano ad un totale di 17,7 miliardi. Le vendite ed esportazioni di armi italiane [11] sono triplicate nel 2015 raggiungendo un valore totale di 54 miliardi di euro.
Accettando  il dispiegamento sul suolo nazionale di bombe atomiche americane di ultima generazione si offre  una volta ancora come la portaerei della NATO, nella nuova allarmante fase di   un confronto con la Russia di Vladimir Putin che sta portando ad una ripresa del riarmo nucleare. [12]
Come strappare quindi  la maschera dei “mercanti della guerra”?
Dal punto di vista della strategia necessaria per resistere alla guerra, andrà anzitutto riconosciuto che la guerra non si può fare senza armi. Pertanto è nell’industria delle armi, con il suo volume impressionante di fatturato globale che va cercata la soluzione, ossia nel disvelare l’intreccio tra la stessa e le scelte di politica estera. Ed avviare un’iniziativa globale per la riduzione delle spese militari (che secondo le stime del SIPRI per il 2015 ammontano oggi a oltre 1.7 trilioni di dollari[13]) assieme alla conversione dell’industria bellica ed  il disarmo, come proposto in un importante conferenza su Disarmo e pace tenutasi a settembre scorso a Berlino ed organizzata dall’International Peace Bureau. [14]
Uno degli ambiti da quali partire per evidenziare tali nessi e immaginare possibili vie d’uscita riguarda la relazione tra produzione e vendita di armi e politica estera.  Premessa essenziale è il riconoscimento del fatto che la politica estera oggi ha un carattere multidimensionale, riguarda non solo relazioni tra paesi, tramite alleanze, o la cessione di sovranità ad ambiti multilaterali , ma anche ed in misura crescente le relazioni commerciali, industriali, la commistione tra interessi di impresa,  economici, strategici- geopolitici. 
A ciò va aggiunto che nella genesi della politica estera, da quella tradizionalmente improntata sulla realpolitik, a quella di potenza, a quella “etica” dell’ingerenza umanitaria  e dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani, si è andata ormai affermando una visione di politica estera  che “securitizza” ogni suo aspetto, dalla cooperazione allo sviluppo, alle relazioni diplomatiche, a quelle commerciali.  Questo punto appare ormai imprescindibile in ogni analisi relativa alla politica estera visto che ne è l’elemento centrale, e non solo per una scelta politica consapevole di abdicazione alle ragioni del diritto e della diplomazia.
C’è poi un elemento che richiama quella che Seymour Melman a suo tempo definiva la  permanent war economy [15], o più semplicemente l’esistenza  di un apparato industrial-militare che determina le relazioni e i nessi causa effetto tra interessi del settore difesa e la definizione ed implementazione della politica estera di un paese.   .
In tale contesto, anzitutto va evidenziato il ruolo sempre crescente del Ministero della Difesa e dell’Industria nella definizione delle linee strategiche del paese e della proiezione del paese vero l’esterno ed allo stesso tempo depositario ed attore di primo piano nella diplomazia industrial-militare. A ciò va aggiunta la proliferazione  di accordi bilaterali di cooperazione tecnico-industriale nel settore militare, volàno per  la cooperazione nel settore degli armamenti e dell’industria.   
L’Italia così continua a vendere armi all’Egitto e ad altri paesi che violano di diritti umani, e ad inviare bombe all’Arabia Saudita, dove di recente si è recata in pompa magna il Ministro Pinotti [16],  impegnata in una guerra sanguinosa e brutale contro le milizie DAESH in Yemen con enormi costi in termini di vittime civili.  
Portando il discorso alle estreme conseguenze si potrebbe affermare che l’invio di armi in paesi in conflitto equivale a partecipare (seppur indirettamente) a quella guerra. E quindi ad essere corresponsabili dei crimini di guerra commessi.[17] Ad un aumento delle esportazioni di armi in zone di conflitto da una parte (quindi una sorta di guerra per procura, all’interno della coalizione contro il DAESH ad esempio, senza però l’invio di “scarponi sul terreno” visti gli alti rischi ed i possibili costi “politici” di un’eventuale operazione) corrisponde  l’aumento delle collaborazioni industriali con paesi che offrono maggiori opportunità di affari, dall’Asia, agli Emirati, all’Africa, all’America Latina.
A questo punto va detto  chiaramente che inviare armi in zone di conflitto è una scelta politica di guerra, seppur per procura,  implica il sostegno alla guerra come modalità per risolvere controversie internazionali, e per esteso violerebbe l’articolo 11 della Costituzione.
C’è poi la partecipazione diretta alle operazioni militari, alle guerre, sotto la guisa di operazioni di pace. Il nostro paese in particolare è attivo negli scacchieri dell’Iraq e dell’Afghanistan, oltre che in Libia, nel tentativo di mantenere in ruolo di partner in tavoli negoziali ed aree geostrategiche di grande rilevanza. In Iraq attraverso il sostegno alla coalizione anti-DAESH, sia con forze armate per l’addestramento di milizie peshmerga kurde, che più di recente con l’invio di un contingente di centinaia di militari a presidio del cantiere dell’impresa Trevi presso la diga di Mosul [18], in un’area di grande rilevanza tattica nell’offensiva finale conto DAESH da tempo annunciata. In  Iraq l’Italia è seconda solo agli Stati Uniti in termini di numero di truppe sul terreno. In Afghanistan il ritiro delle truppe italiane è stato via via rinviato, e ad oggi , a fronte di una situazione in continuo deterioramento per quanto concerne la sicurezza, la presenza è aumentata a 750 soldati  tra Kabul e Herat per compensare il ritiro degli effettivi spagnoli. Resteranno, secondo quanto deciso quest’anno al vertice NATO di Varsavia,  almeno fino al 2017 nel quadro della missione “Resolute Support”.  In Libia , a Misurata, prima dell’annuncio dell’invio di paracadutisti della Folgore a protezione di un ospedale da campo, per la prima volta sono state inviate truppe speciali senza il necessario voto in Parlamento. Ciò è stato possibile grazie ad un articolo inserito in un decreto missioni che lascia nelle mani del Presidente del Consiglio il potere di dare ordini a forze speciali per intervenire in operazioni di “lotta al terrorismo” concedendo  alle forze speciali (incursori, commandos etc) gli stessi poteri degli agenti dei servizi segreti. Quei corpi speciali, qualora autorizzati direttamente dal Presidente del Consiglio, potranno operare quindi  in condizioni di assoluta impunità da possibili reati commessi e segretezza sia in Italia che all’estero. Operazioni undercover quindi, che fanno il pari con la scelta di armare i drone italiani per uso in teatri di guerra. Dopo due anni il Congresso di Washington ha infatti approvato la configurazione di drone Reaper italiani di stanza a Sigonella e la vendita di armi che possono essere così installate ed usate dagli stessi. Secondo quanto reso noto si tratterebbe di  156 missili AGM-114R2 Hellfire II costruiti dalla Lockheed Martin, 20 GBU-12 (bombe a guida laser), 30 GBU-38 JDAM.[19][1]  Secondo   il sito KnowDrones  la decisione di armare drone italiani, oggetto di anni di dibattito negli Stati Uniti, rientrerebbe nella strategia USA in Africa.  [20]
La subalternità a Washington risulta evidente non solo per l’Iraq, l’Afghanistan o la Libia ma anche nel caso della partecipazione agli accordi di condivisione nucleare della NATO.  Con questo accordo di “nuclear sharing”  l’Italia permette la presenza di decine di testate nucleari USA sul territorio nazionale, nella base USA di Aviano e quella dell’Aeronautica Militare Italiana di Ghedi. Finora le bombe stoccate nei bunker sotterranei erano per lo più un pegno di fedeltà all’amicizia transatlantica, vecchie, obsolete e forse mai effettivamente utilizzabili. In virtù di un programma di ammodernamento degli arsenali nucleari americani a quelle bombe verranno sostituiti  micidiali ordigni riconfigurati per attacchi tattici di grande precisione, e non si dovrà aspettare la consegna degli F35 adatti allo scopo.   Una volta installate sugli F35, cacciabombardieri “invisibili” e rifornibili in volo e quindi con un raggio di azione che arriva fino a Mosca [21], queste bombe da tattiche diventerebbero strategiche, con una potenza di distruzione pari a 4 volte quella della bomba atomica di Hiroshima. Alcuni Tornado in dotazione sono ora in  fase di riconfigurazione del proprio software (un'operazione che richiederà un paio di anni) per trasportare le nuove bombe B61-3 e 4 a gravità  con un sistema di orientamento nella coda che gli USA stanno rimodernando a costi elevatissimi.  [22]Fece scalpore la notizia dei costi associati alla messa in sicurezza dei bunker dove verranno stoccate le bombe: si parla di almeno 1 miliardo di dollari mentre per la messa in sicurezza se ne spenderanno altri 154 milioni circa, dopo che un'indagine interna dell'US Air Force effettuata nel 2014 mostrò gravi carenze. Altri 100 milioni di dollari verranno poi spesi ogni anno dagli USA per il dispiegamento delle nuove bombe. Ignorando se non violando gli accordi internazionali sul disarmo nucleare e la non-proliferazione l'Italia aumenta così  la sua capacità nucleare in quanto firmataria dell'accordo di condivisione nucleare NATO con gli Stati Uniti. E  contribuisce ad alimentare la corsa agli armamenti in uno scenario di Guerra Fredda 2.0 nei confronti della Russia.
Ecco quindi che il tema del disarmo nucleare si accompagna all’urgenza di un’iniziativa globale per la riduzione delle spese militari ed il disarmo convenzionale.  La questione che rimane aperta però è se ciò sia possibile in un quadro nel quale il paese, e l’Europa sono inserite in un sistema di alleanze  e  patti di sicurezza collettiva, quali la NATO.
Si manifesta così l’esigenza di un approfondimento del possibile quadro di riferimento concettuale nel quale riprogrammare e rielaborare le pratiche e le proposte dei movimenti pacifisti ed antimilitaristi. Ciò potrebbe essere possibile recuperando e riadattando la proposta e la pratica di neutralità attiva.  [23]Un’utopia concreta che   può   essere presa a riferimento per   delineare un’ipotesi di politica estera  fondato su disarmo,  pace e nonviolenza.    Che faccia cioè tesoro della storia, quella non raccontata negli annali di guerra, o nei libri “mainstream”, assai avvezzi a rappresentare la politica estera e la storia come campi di battaglia armata o meno, tra deliri o strategie di potenza, di impero, di sfruttamento, e assai meno capaci di leggere la storia “altra”. Quella di paesi che invece avevano ed hanno rinunciato alla politica di potenza, alla guerra, alle armi, ma che non rinunciano a cercare di contribuire alla costruzione della pace. Insomma neutrali ma attivi, neutrali dagli schieramenti delle potenze vecchie e nuove, ad esempio la NATO,  ma attivi e partecipi con gli strumenti della diplomazia o della forza “disarmata” nella gestione,  prevenzione e risoluzione delle controversie internazionali. La proposta di neutralità attiva è stato rilanciata da Un Ponte per nel suo documento “L’opzione per una neutralità attiva in Libia”,[24][1] nel quale si propongono una serie di passi, quali la de-escalation della logica di guerra e di uso della forza , la neutralità  rispetto alle fazioni che si opponevano al governo di Al Serraj.  Neutralità attiva significa creare le condizioni per un ruolo terzo di mediazione che prevede l’abbandono di ogni opzione militare,  assieme al sostegno ad attività di peacebuilding.    Recuperare in questo contesto le ragioni di una pratica o un’idea di neutralità è cruciale per dimostrare come sia possibile  lavorare per la pace e la costruzione di relazioni pacifiche tra i popoli senza necessariamente provvedervi attraverso l’uso dello strumento militare o aderendo in tutto o in parte alle strategie delle alleanze o dei sistemi internazionali di sicurezza.  Facendo tesoro dell’esperienza, della storia e delle varie iniziative attivate dalle varie realtà e soggetti del movimento pacifista ed antimilitarista italiano potrà essere rielaborata una cultura della pace. Neutralità attiva significa non ritrarsi nella ridotta dell’isolazionalismo, bensì  adoperarsi per  una ridefinizione della neutralità come abbandono della politica di potenza e della guerra in favore di una politica estera attiva, disarmata, nonviolenta.    Ed è  proprio da questa prospettiva di neutralità  generata dal ‘basso” e che si alimenta  delle pratiche e delle iniziative della società civile e presuppone una sorta di “ingerenza” positiva e di taglio pacifico e nonviolento,  che vale la pena di partire. Con l’obiettivo elaborare proprio “dal basso” assieme a coloro che nel nostro paese lavorano per la pace, il disarmo, la nonviolenza, un approccio ed una proposta concreta, politica, di paradigma alternativo per la politica estera del nostro paese.  

 
 
(*) , già Senatore della Repubblica, membro del Comitato nazionale e responsabile advocacy di Un Ponte Per… www.sinistracosmopolita.blogspot.com




[1] http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/northamerica/usa/1423535/Americans-are-from-Mars-Europeans-from-Venus.html
[2] http://comune-info.net/2016/09/la-guerra-mediatica-del-carciofo/
[3] Per tornare a casa nostra,  si veda ad esempio anche in Italia la relazione stretta tra Finmeccanica e think tank quali lo IAI o l’ISPI  , o Aspen  nei cui  Board siedono rappresentanti di Finmeccanica,  o viceversa exviceministri degli esteri e autorevoli teste pensanti di Aspen Institute che vengono mandati nel board di Leonardo-Finmeccanica.
[6] http://www.disarmo.org/rete/a/43549.html
[9] http://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/baudrillard-jean/power-inferno-9788870788143-938.html
[10] “Chris Hedges, “Il Fascino oscuro della guerra”, Laterza, 2004
[11] http://www.disarmo.org/rete/a/42479.html
[12] http://foreignpolicy.com/2016/10/07/the-united-states-and-russia-are-inching-toward-doomsday-arms-weapons-nuclear/
[14] https://www.ipb2016.berlin/action-agenda-of-the-international-peace-bureau-october-2016/
[16] http://www.disarmo.org/rete/a/43629.html
[17] Lo spiega chiaramente un’eccellente pezzo di inchiesta del New Inquirer “Recoil operation” sul commercio legale ed illegale di armi leggere negli States. “Domestic distaste for “boots on the ground” dovetails with domestic commitments to arms-related manufacturing jobs making it even more attractive to arm foreign allies instead of doing the fighting ourselves”. http://thenewinquiry.com/essays/recoil-operation/
[18] http://www.huffingtonpost.it/francesco-martone/liraq-litalia-e-la-guerra-sbagliata_b_8893402.html

[20] http://www.huffingtonpost.it/francesco-martone/lelefante-nella-stanza-storia-di-droni-italiani-diritti-e-zone-grigie_b_8661726.html
[21] http://nukewatch.org/B61.html
[22] http://ilmanifesto.info/verso-litalia-le-nuove-atomiche-usa/
[23] Transform! Italia 2016, atti del Convegno su “Neutralità Attiva. Un possibile approccio per una politica di pace, disarmo e diplomazia popolare per l’Italia” Roma, 10 settembre 2015  https://neutralitaattiva.wordpress.com/concept/ - per la registrazione integrale del convegno:  https://neutralitaattiva.wordpress.com/tutto-il-convegno-in-video/


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