Editoriale de il Manifesto, 10 aprile 2016
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“Keep
the oil under the soil”. Lasciamo il petrolio sottoterra, urlavano gli attivisti di mezzo
mondo a Parigi poco prima dell’inizio
della Ventunesima Conferenza delle Parti sui Cambiamenti Climatici, la COP21. E’ un movimento globale per la giustizia
climatica, una realtà reticolare, che
lega comunità e organizzazioni del Nord e del Sud del mondo. L’idea di
mantenere il petrolio sottoterra nacque in Ecuador, paese assai dipendente
dall’oro nero.
“Yasunizzare”, dal nome del parco Yasuni, riserva biologica
sotto la quale si trovano importanti giacimenti petroliferi, significava
lasciare il petrolio sottoterra, optare per un’altra via, quella del
riconoscimento del debito ecologico, e della promozione di energie alternative.
Quel petrolio non estratto avrebbe rappresentato un patrimonio in termini di
emissioni evitate e protezione della biodiversità, in cambio del quale la
comunità internazionale si sarebbe impegnata creare un fondo internazionale per
la tutela di Yasuni e la promozione di energie rinnovabili. Non se ne fece
nulla, ed oggi le compagnie petrolifere straniere stanno accaparrandosi quelle
concessioni ed altre nelle terre dei Sarayaku, o del popolo Sapara, che difenderanno con i denti la loro terra. Dall’Amazzonia
all’azione di disobbedienza civile contro la megaminiera di carbone di Ende
Gelaende, alle mobilitazioni dei Mohawk a Montreal contro la Transcanada
Pipeline, è un susseguirsi di azioni,
iniziative, mobilitazioni. Era stato detto a Parigi e fatto seppur
simbolicamente: tracciare una linea rossa, oltre la quale sarebbe scattata la
disobbedienza civile di massa, per tutelare un bene prezioso, l’equilibrio
dell’ecosistema, e la salute delle generazioni a venire.
E’ il riconoscimento
dei diritto alla resistenza civile nonviolenta per tutelare i “commons” che
ispirerà migliaia e migliaia di attivisti che in ogni parte del mondo si
mobiliteranno per un’intera settimana ai primi di maggio nell’azione globale “Break Free from Fossil Fuel”. Sono
previste azioni dirette nonviolente presso siti di estrazione ed infrastrutture
petrolifere ed in sostegno a fonti energetiche pulite in Australia, Brasile,
Canada, Germania, Indonesia, Israele/Palestina, Nigeria, Filippine, Sudafrica,
Spagna, Turchia, e Stati Uniti. Lasciare il petrolio sottoterra significa mettere
sé stessi tra la Terra ed il cielo, prendere posizione dalla parte del cielo e
della Terra, e produrre “dal basso” uno shock necessario per invertire la rotta.
Come sottolinea in un importante articolo la rivista Nature, per provare a contenere l’aumento della
temperatura globale entro 2 gradi centigradi ai livelli preindustriali sarebbe
urgente rinunciare ad un terzo delle riserve petrolifere, la metà di quelle di
gas e l’80 per cento del carbone entro il 2050. (si noti bene che a Parigi ci
si è impegnati “in linea di massima” a contenere l’aumento della temperatura a
1,5 gradi). Invece
le imprese transnazionali del settore continuano a investire cifre ingenti
nella ricerca e prospezione, spendendo ogni anno qualcosa come 800 miliardi di
dollari alla ricerca di nuovi giacimenti contro i 100 miliardi impegnati dalla
comunità internazionale in sostegno al Fondo Verde per il Clima. Non tutte
però: accanto alla disobbedienza civile dei movimenti è cresciuto
progressivamente il movimento per il disinvestimento, al quale di recente si è
unita anche la potente famiglia Rockefeller, magnati del petrolio per eccellenza.
Ed a casa nostra? La crescita del
movimento globale per la giustizia climatica, la settimana di azione contro i
combustibili fossili di maggio, le campagne di disinvestimento dimostrano che
anche in Italia ci potrà essere vita dopo il referendum contro le trivelle. Un
sì deciso significa quindi non solo un no alla distruzione della bellezza, o
delle coste, è un sì alla necessaria ed urgente transizione ecologica, un
piccolo passo verso la progressiva uscita dal petrolio, un tassello in più per
connettere le vertenze locali in un movimento globale che si fa sempre più
forte.
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