Per il Manifesto, 27 Aprile 2016
Il marzo scorso è stato il più caldo da quando si è iniziato a misurare la temperatura. Se ciò non bastasse, a poche ore dalla cerimonia di firma dell'Accordo di Parigi, avvenuta il 22 aprile scorso, la NASA ha informato che le emissioni di gas serra provocheranno un aumento della temperatura oltre i 1,5 gradi, soglia più o meno definita nell'Accordo adottato alla COP 21 del dicembre scorso. Benvenuti nell'era dell'Antropocene, una realtà di siccità, sconvolgimenti dei cicli della Terra, perdita di terra, biodiversità, cibo, acqua e rifugio. Una situazione che imporrebbe - attraverso una visione “decolonizzata” non certo “catastrofista” – di mettersi dalla parte di chi subisce gli effetti del “climate change”, considerando queste comunità e popoli non come vittime, ma come portatori di diritti fondamentali, alla sopravvivenza ed alla vita. Tuttavia a Parigi i governi hanno solo riconosciuto ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani lasciando aperto un fronte di lavoro ed iniziativa urgente per evitare che gli ingenti flussi di risorse finanziarie che verranno stanziati per programmi di adattamento e mitigazione non finiscano per aggravare ulteriormente la già tragica situazione di milioni di persone.
Il marzo scorso è stato il più caldo da quando si è iniziato a misurare la temperatura. Se ciò non bastasse, a poche ore dalla cerimonia di firma dell'Accordo di Parigi, avvenuta il 22 aprile scorso, la NASA ha informato che le emissioni di gas serra provocheranno un aumento della temperatura oltre i 1,5 gradi, soglia più o meno definita nell'Accordo adottato alla COP 21 del dicembre scorso. Benvenuti nell'era dell'Antropocene, una realtà di siccità, sconvolgimenti dei cicli della Terra, perdita di terra, biodiversità, cibo, acqua e rifugio. Una situazione che imporrebbe - attraverso una visione “decolonizzata” non certo “catastrofista” – di mettersi dalla parte di chi subisce gli effetti del “climate change”, considerando queste comunità e popoli non come vittime, ma come portatori di diritti fondamentali, alla sopravvivenza ed alla vita. Tuttavia a Parigi i governi hanno solo riconosciuto ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani lasciando aperto un fronte di lavoro ed iniziativa urgente per evitare che gli ingenti flussi di risorse finanziarie che verranno stanziati per programmi di adattamento e mitigazione non finiscano per aggravare ulteriormente la già tragica situazione di milioni di persone.
Basti pensare all’espansione della palma da olio per
biodiesel. O al BECCS (“Bioenergy
Energy Carbon Capture and Storage”), “escamotage” per aumentare la capacità
di assorbimento di carbonio della Terra coltivando biomasse per la produzione
di bioenergia con capacità di stoccaggio e cattura di carbonio. Il BECCS aprirebbe
una nuova ondata di “landgrabbing” su
almeno 700 milioni di ettari di terra. Il paradigma economico di mercato entra così
nuovamente in collisione con quello basato sui diritti umani, delle comunità e della Madre Terra. Un’ incompatibilità che caratterizzerà
i prossimi anni fino al 2020 quando l'Accordo di Parigi
entrerà in vigore. Eppoi, chi
implementerà gli accordi , e come? Parigi ha sancito il ruolo centrale del Fondo Verde per il Clima
(“Green Climate Fund”) istituzione che
assicura un ruolo cardine per imprese, banche pubbliche e private
nell’attuazione delle politiche climatiche. E tra queste, banche quali l'HSBC (che
dal 2010 ha erogato almeno 5.4 miliardi di dollari
solo nel settore carbonifero) o istituzioni come la Banca
Mondiale. Ai paesi ed alle comunità resta il compito di disegnare la cornice
nella quale spendere tali fondi, o accontentarsi delle briciole.
Per dare
un'iniezione di fiducia alla comunità internazionale, quest’anno il Fondo spenderà
circa 2,5 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale rispetto allo
scorso anno, senza disporre di strutture adeguate per la valutazione del
possibile impatto socio-ambientale dei progetti, né di politiche vincolanti sui
diritti umani o sul diritto alla terra. Per chi conosce la storia di una delle
più grandi Banche Multilaterali di Sviluppo, la Banca mondiale, questa “pressione all’esborso” è stata foriera
di grandi disastri e di un’altrettanto grave perdita di credibilità. Tra i
prossimi progetti a rischio del Fondo molti saranno nelle foreste tropicali o in
aree contigue.
Non è un caso, visto che Parigi ha
sottolineato con enfasi il ruolo delle
foreste nella mitigazione ai cambiamenti climatici, e l’urgenza di rilanciare
programmi di riduzione di emissioni da deforestazione, e immissione nei mercati
globali di certificati di carbonio. Così
il Fondo Verde, su pressione di alcuni tra i principali donatori quali la
Norvegia, ansiosa di poter neutralizzare le proprie emissioni da combustibili
fossili, potrebbe finanziare prima della COP22 di Marrakech del dicembre
prossimo - progetti forestali al fine di produrre certificati di carbonio per compensare
le emissioni altrui. Evidente il rischio di alimentare nuove bolle speculative
sui mercati di carbonio, proprio quando arriva la notizia di una nuova
imminente bolla speculativa collegata alle attività di “fracking” e la
produzione di gas e petrolio di scisto.
E’ questo il lato oscuro che la vulgata “mainstream” sul cambiamento climatico decide di occultare o sfumare secondo
convenienza, e che i movimenti globali per la giustizia climatica intendono
portare alla luce del sole, non solo opponendosi all’estrazione di gas e
petrolio, ma anche denunciando forme di nuovo colonialismo. Quello del
carbonio, che ridisegna geografie di inclusione ed esclusione, decide che territori
e comunità già impattate dai cambiamenti climatici vengano subordinate agli interessi delle imprese e dei
vari Nord del mondo. La strada verso la giustizia climatica e l’equità, il
riconoscimento dei diritti dei popoli e della Madre Terra resta lunga. L’altra,
quella delle ipotetiche buone
intenzioni, rischia di portarci dritto all’inferno.
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