"let us not forget the impact of Tahrir Square and the Occupy movement all over the world. And (...) let us not forget the Taksim Gezi Park protesters. Oftentimes people argue that in these more recent movements there were no leaders, there was no manifesto, no agenda, no demands, so therefore the movements failed. But (...) There is a difference between outcome and impact. Many people assume that because the encampments are gone and nothing tangible was produced, that there was no outcome. But when we thin about the impact of these imaginative and innovative actions, and these moments when people learned how to be together without the scaffolding of the state, when they learned to solve problems without succumbing to the impulse of calling the police, that should server as a true inspiration for the work that we will do in the future to build these transnational solidarities. Don't we want to be able to imagine the expansion of freedom and justice in the world (...) in Turkey, in Palestine, in South Africa, in Germany, in Colombia, in Brazil, in the Philippines, in the US?
If this is the case, we will have to do something quite extraordinary. We will have to go at great lengths. We cannot go on as usual. We cannot pivot the center. We will have to be willing to stand up and say no with our combined spirits, our collective intellects, and our many bodies"
Angela Y. Davis, Transnational Solidarities" Speech as Bogazici University, Istanbul, Turkey, (January 9, 2015) su A. Y Davis, "Freedom is a constant struggle - Ferguson, Palestine and the foundations of a movement", 2016.
NOTA: Quella che segue è l'introduzione che ho scritto per il libro "Rivoluzioni violate. Cinque anni dopo: attivismo e diritti umani in Medio Oriente e Nord Africa" a cura di Osservatorio Iraq e Un Ponte Per.. che verrà presentato il 30 ottobre a Roma al salone dell'Editoria Sociale.
I dati e i casi presentati in questa
pubblicazione forniscono ulteriore riprova che nei Paesi del Medio Oriente e
del Nord Africa qui analizzati lo spazio per
la società civile si sta restringendo, o forse in alcuni non si è mai davvero aperto.
Uno spazio materiale ed immateriale di agibilità democratica ed iniziativa
politica che intercorre tra il demos e
chi governa. Una crepa aperta nel sistema dell’autoritarismo e della
cleptocrazia, del malgoverno popolato da tortura, arresti arbitrari, persecuzioni di
varia foggia. Il quadro globale è allarmante, e fa il pari con quello che si
registra in questa regione attraversata 5 anni or sono dalle rivolte arabe, e
15 anni fa, in parte, dall’irrompere della guerra globale al terrorismo. Primo
intento di questa nostra pubblicazione è pertanto quello di offrire un quadro
ed una mappa della situazione relativa ai difensori dei diritti umani in alcuni
Paesi della regione, prioritari per le relazioni internazionali dell’Italia ma
anche per l’azione dell’associazione “Un ponte per…” che da 25 anni opera per
costruire ponti di solidarietà con popolazioni vittime di guerra o di occupazione
militare. Pensiamo ad esempio all’Iraq
di oggi, che con i suoi conflitti inter-religiosi manovrati ad arte da chi
governa, le violazioni dei diritti umani, l’appropriazione delle leve del
potere da parte di élites vecchie e
nuove, stride con la mission che giustificò la guerra dopo l’attacco alle Torri Gemelle.
Una mission inizialmente mirata a
evitare l’uso di armi di distruzione di massa - mai trovate - da parte di
Saddam Hussein, e poi , in pieno delirio neo-con,
a disarticolare il tessuto sociale e politico per ricostruire un modello di
democrazia di stampo occidentale. Il tutto condito con la retorica del rispetto
e della tutela dei diritti umani, come
se fosse possibile garantirla manu
militari. In alcuni dei Paesi della regione la guerra è stata ed è tuttora
il leitmotiv con il quale confrontarsi,
con le sue conseguenze immediate o di lungo periodo. Lo sanno gli attivisti
iracheni che guardano oltre, attraverso il lavoro paziente di costruzione di
reti quali il Forum sociale iracheno, e lo sanno le associazioni internazionali
che con noi li sostengono nell’Iniziativa di solidarietà con la società civile irachena
(Icssi). Questa guerra è combattuta dagli eserciti o - giorno per giorno - dalle polizie, dai servizi di sicurezza degli
stati, dalle organizzazioni terroristiche o dai gruppi paramilitari. Restringe
gli spazi di agibilità, li comprime in un permanente stato di eccezione, spoglia le persone della propria dignità e dei
propri diritti con legislazioni di emergenza, securizzazione di ogni spazio, militarizzazione dell’ordine
pubblico.
Una guerra che per il popolo palestinese, in
realtà, c’è sempre stata. L’attacco sistematico ai difensori dei diritti umani
in Palestina ed Israele permea ormai la politica di stato, si fa legge. Basti
pensare alle decisioni del Parlamento israeliano volte a perseguire le
organizzazioni che si occupano di diritti umani e delle violazioni che
conseguono all’occupazione, utilizzando anche il pretesto della lotta al
terrorismo. Guerra e terrorismo, allora, sono i due poli tra
i quali si comprime oggi lo spazio di agibilità delle società civili. Lo sa
bene la Siria, teatro di un
conflitto agghiacciante che si protrae da anni scalzando un moto legittimo di
libertà e democrazia, nel quale si è inserito Daesh .Lo spazio che occorre tenere aperto, in questo caso, è anche
nelle nostre menti, per permetterci di leggere gli eventi e di cogliere gli
sforzi e le pratiche di autodeterminazione e rivendicazione di diritti e
dignità oltre la visione mainstream.
Il caso siriano è emblematico dell’urgenza di un cambio di passo nella visione
del mondo e delle cose, uno sguardo che sia finalmente ‘decolonizzato’. Che
riconosca cioè quella che la sociologa Judith Butler definisce come “agency”, la capacità dei soggetti di
essere artefici dei propri processi di liberazione ed emancipazione. All’immagine
della Siria in frantumi si contrappongono allora le migliaia di organizzazioni,
associazioni, cooperative locali, iniziative per la difesa dei diritti umani e
radio comunitarie che resistono, e tentano di tenere aperto un altro spazio:
quello che andrà popolato nella Siria del domani. Un luogo di comunità,
dialogo, rispetto, convivenza.
E poi, quale spazio possibile nella Libia di oggi? Le cronache ci raccontano
di un paese sull’orlo della spartizione, attraversato da mille rivoli di
violenza e sopraffazione, da Daesh,
dai disegni strategici contrapposti delle fazioni politico-militari di Tripoli
e Tobruk. Quali spazi si possono tenere aperti allora per i difensori dei
diritti umani in un paese verso il quale il solo interesse delle cancellerie
mondiali sembra essere la sicurezza delle frontiere per prevenire nuovi flussi
di migranti o l’approvvigionamento di petrolio? La realpolitik sfrutta ad arte
– con le ambiguità e gli opportunismi del caso - la retorica dei diritti umani.
Come si spiegherebbe altrimenti l’uso
strumentale fatto in Libia del principio della “responsabilità di protezione”
dei civili, preso a pretesto per un’operazione militare volta a rimuovere con
la forza il regime? Il vulnus
persiste, e dimostra la fallacia di qualsiasi dottrina mirata a costruire la
democrazia dall’alto, a tavolino o per mano armata, come se la società fosse un
luogo asettico, un laboratorio di sperimentazione. Che però riguarda persone in
carne ed ossa, come quelle che 5 anni fa hanno occupato piazza Tahrir al Cairo, scintilla di un sussulto di
rivolta che ha attraversato in varie intensità tutta la regione. Per un po’ i
media e la vulgata ufficiale pareva si fossero dimenticati di quel fermento, di
quella legittima aspirazione di libertà. Non per errore, ma per deliberata
decisione, si è deciso di chiudere uno spazio di visibilità per interesse o
calcolo. Oggi il regime egiziano di Al-Sisi è un fido alleato dell’Occidente nella
lotta al terrorismo, nella tutela della “pax
americana” di Camp David, nella guardia alle immense risorse petrolifere. E
poco conta la sistematica persecuzione di attivisti, sindacalisti, intellettuali, giornalisti, avvocati. Uno spaccato che la vicenda
di Giulio Regeni ha riportato all’attenzione, ma che rischia di sparire nuovamente
nei meandri degli opportunismi di rito. Nella vicina Tunisia l’onda lunga delle rivolte arabe sembrava avesse attecchito
più che altrove. Ma la navigazione nelle acque dell’autodeterminazione è una domanda infinita, per parafrasare
uno splendido saggio del filosofo inglese Simon Critchley. La crepa che si apre
è come un rompighiaccio, ma si rischia di restare schiacciati come il vascello
di Schackleton. E su quel vascello ci siamo anche noi. “Freedom is a constant struggle”, questo il titolo di una raccolta
di interviste e saggi di Angela Davis, che spiega i paralleli tra la recente
rivolta degli afroamericani di Ferguson, negli Stati Uniti, e la Palestina. Una lotta costante. Anche per tante
associazioni che in Italia, assieme a “Un ponte per…”, stanno lanciando una
campagna per la protezione dei difensori dei diritti umani sulla scia di quanto
chiesto dalle Nazioni Unite ai Paesi
dell’Unione Europea. Per provare a tenere aperto uno spazio di visibilità e
protezione, e permettere loro di lasciare i propri Paesi se minacciati. Questa pubblicazione è dunque uno
strumento di informazione e mobilitazione che vogliamo offrire a chi si adopera
per sperimentare percorsi di lavoro comune,
giacché se quello spazio si chiude non lo fa solo per i cittadini e le
cittadine del Medio Oriente e del Nord Africa. Rischia di chiudersi anche per
noi.