domenica 1 ottobre 2017

Politica dello spettacolo e le sottotracce della resistenza civile







Sono appena rientrato da due giorni intensi, prima a Ferrara, dietro le quinte del Festival di Internazionale, per condividere riflessioni e proposte di lavoro sul tema della criminalizzazione della solidarietà assieme a Medici senza Frontiere. E prima, incontrato i miei amici di Survival International, ed il loro “ospite”, un rappresentante di una comunità tribale indiana, minacciata, guarda caso, da progetti di conservazione della natura. Ho osservato con silenzio, cercato di capire cosa si stesse muovendo in quella città quei giorni. Uno scambio fertile di idee, di storie, di iniziative, da quelle ahimè inaccessibili per me arrivato all’ultimo momento, avrei ascoltato assai volentieri Erri de Luca ad esempio. Non tanto Varoufakis che tanto so già che dirà. 

La soluzione di ripiego non è stata meno intensa. Nei sotterranei del castello Estense era in programma un documentario sulle migranti latinoamericane negli States, e la violenza sessuale. Vado incuriosito, immagino di vedere un documentario, ed invece gli schermi neri, riportavano solo la traduzione del sonoro. Una sorta di audiodocumentario, con le voci spezzate delle donne violate, la voce narrante che offre informazioni di contesto. La scelta di non dar volto, per far sì che quelle storie non restino ancorate a persone specifiche ma raccontino la violenza e l’abuso cui sono sottoposte le donne, latinoamericane, in questo caso, (e non solo oltrefrontiera) ma non solo.  Dietro le quinte del potere e della violenza di sistema. Donne che vengono violate nei corridoi del potere, negli anfratti, una violenza che si insinua nei luoghi nascosti. E in un luogo nascosto, un sotterraneo, viene raccontata. 

Ho sempre amato seguire gli eventi che fossero Forum Sociali, o incontri del tipo di quello di Ferrara seguendo le sottotracce, cercando di immaginare un codice narrativo che non fosse necessariamente quello proposto dal programma “ufficiale”. Per me ultimo arrivato, non avvezzo all’evento, resta certo il rimpianto di non aver ascoltato Angela Davis, o altre star. Ma resta solo tale, un rimpianto che potrò superare facilmente. Invece è interessante esplorare il dietro le quinte. Ero molto incuriosito di ascoltare Amitav Gosh, intervistato da una grande giornalista ed amica di decenni, Marina Forti, ed invece sono rimasto fuori. Anche lì seppur fuori dal “pubblico” dalla “platea”, ad ascoltare parole importanti, senza che alle parole corrispondesse un volto. Ero solo, chi non è riuscito ad entrare se n’era andato, confondendo lo stare in platea con l’ascoltare. Tant’èm  Gosh ci ha regalato, mi ha regalato, seppur attraverso un altoparlante collocato fuori in cortile, parole importanti, giustizia climatica, migrazioni, decolonialità. Ci ha ricordato che i migranti nono sono vittime ma soggetti che si imbarcano con coraggio in un percorso migratorio, ed il paradosso della tecnologia moderna che estrae valore dalla terra, produce effetto serra, ed allo stesso tempo innesca in chi decide di lasciare il proprio paese una crisi del “desiderio”. Regala immagini artefatte di una realtà ambita e che in fin dei conti li tratterà come uomini e donne di scarto. Di questo ho sentito parlare nelle sottotracce, nei luoghi senza volto, o nei sotterranei dell’evento principale. 

Con MSF abbiamo discusso di come oggi chi soccorre esseri umani viene considerato un criminale, un’altra vita di scarto, tra legalità e legittimità di atti di disobbedienza. Judith Butler le chiama “disposable lives”, vite che possono essere scartate, usa e getta. Vite i cui diritti sono considerati scarto dalla realpolitik, dagli interessi geopolitici e strategici. Lo dice assai bene Naomi Klein nel suo intervento al congresso del Labour Party pubblicato oggi da Il Manifesto, la chiama “gig-economy” (che tratta gli esseri umani come fonti di ricchezza da esaurire per poi scartarli) e la connette giustamente alla “dig-economy quella che trivella, estrae combustibili fossili, e altera gli equilibri climatici. Nè più e né meno quel che ci diceva Amitav Gosh che si interroga sul perché il “climate change” non è un tema trattato da chi scrive e fa cultura. E resto convinto che sia in questi sottotraccia che si costruiscono le fondamenta della politica, e dell’impegno. Nel lavoro paziente, difficile, silenzioso di chi quotidianamente opera per i diritti umani, nello sforzo di comprendere, articolare, offrire una contronarrazione, a quella che vuole vederci ossessionati dalla paura dell’altro, dalla prevalenza del nostro interesse rispetto alla dignità delle persone. 

Questo il sottotraccia del workshop di Amnesty International al quale ho partecipato con il piacere e l’emozione di trovarmi a casa mia (il prossimo anno segnerà un trentennale, quello del mio inizio del percorso di attivismo che mi ha portato qua dove sono, tra Greenpeace ed Amnesty International appunto).  Persone, esseri umani, che mettono a disposizione il loro tempo e le loro energie migliori. 

Non posso non riflettere su un punto. E l’ispirazione me l’ha data un denso articolo che sto leggendo su La Linea del Fuego, un sito di politica e cultura latinoamericana, ed in particolare dell’Ecuador. L’articolo riguarda la teatralità del potere e della politica. La messa in scena, la spettacolarità della politica. Dice “ un progetto condannato al fallimento consiste nel montare una messa in scena, con la plasticità e forza sufficiente non solo per convincere ma anche per illudere gli spettatori”. Ed ho pensato alla noiosa e scontata pletora di dichiarazioni controdichiarazioni, passi avanti , passi indietro, teatri, assemblee, palchi e contropalchi, platee, pubblico, interviste, ritorni in scena, feste e iniziative che si susseguono nei mille rivoli di quella che ci si ostina a chiamare sinistra. Ed a pelle continuo a sentire uno scarto insopportabile, tra il mondo del sottotraccia, quella linfa vitale di resistenza e “ribellione”, orfana di rappresentanza, o forse ormai convinta di non averne bisogno , e la buccia esterna del dibattito politico. Spettacolare, anche se dice di non esserlo. O forse “immagine senza sostanza”, “imago sine re”.

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