mercoledì 10 novembre 2010

Perché noi di SEL ci dobbiamo preoccupare per i Sahrawi ed i Birmani


Due importanti notizie hanno fatto il giro del mondo questi giorni ma non hanno attraversato neanche di striscio il dibattito politico nostrano, tutto focalizzato a vaticinare la fine imminente o meno dell’era berlusconiana, e il futuro prossimo del paese. Un paese sempre più ripiegato in se stesso, che non sa e non vuole guardare al mondo se non come fonte di minacce, da quella posta dalla crisi finanziaria, a quelle costruite ad arte dai media “mainstream” e certa propaganda che rasenta la xenofobia, delle invasioni di migranti. Sempre più distante la guerra in Afghanistan, il conflitto israelo-palestinese, il prossimo G20 di Seoul, che dovrebbe approntare le misure necessarie per affrontare la crisi finanziaria e prevenirne di nuove. Un paese ed una politica che leggono le situazioni che accadono al di là dei propri confini ripetendo la logica di schieramento, o comunque come eventi forse ineluttabili o semmai i cui destini restano in mano della volontà dei governi o della comunità internazionale. E di rado , se non mai, si prova a leggere gli eventi dalla parte di coloro che quegli eventi subiscono, e che pertanto devono essere il punto di partenza per prospettare qualsiasi ipotesi di soluzione politica. Sono drammatiche le notizie che provengono dal Sahara Occidentale , sulla repressione sanguinosa operata dal’esercito marocchino contro migliaia di Sahrawi accampati alla periferia della capitale Al Aayoun. Non quella fatta di tende in plastica azzurra e ricostruita nel mezzo del deserto algerino, ma quella”ufficiale” popolata da sahrawi d’importazione. Coloni fatti affluire da Rabat con la marcia verde poco dopo l’armistizio che nel 1975 pose fine alla guerra d’indipendenza, e di fatto consolidato l’occupazione militare marocchina e l’inizio di un incubo per un popolo senza stato. Da allora ogni anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha confermato il mandato ad un contingente di Caschi Blu per vigilare sul cessate il fuoco, e da allora ad oggi nessuno sforzo effettivo è stato fatto per organizzare il referendum che dovrebbe sancire il destino del vecchio Sahara spagnolo, colonia venuta meno con il venir meno del franchismo. Migliaia di soldati marocchini restano appostati lungo un muro di sabbia che separa il Sahara occidentale dagli insediamenti sahrawi quasi tutti in Algeria. Un popolo, i Sahrawi, che ha deciso la linea della nonviolenza e della fiducia nel diritto internazionale, ma che oggi vede svanire lentamente tutte le proprie speranze. Premono i giovani sahrawi per una intifada, resistono gli anziani leader del Polisario, pur nelle difficoltà attuali, dovute a importanti defezioni di leader storici passati dall’altra parte, uno di loro addirittura a fare l’ambasciatore marocchino in Spagna. Marocco, Algeria, Spagna, Stati Uniti, Unione Europea, sono i principali attori nella vicenda Sahrawi, giocatori di scacchi in una vicenda che può segnare non solo il destino di un popolo ma anche la tenuta dell’opzione nonviolenta e della fiducia nella diplomazia e nel diritto internazionale. Per questo, anche per questo ci deve interessare il popolo sahrawi, perché con loro rischia di scomparire il diritto,, schiacciato nella morsa degli interessi geopolitici contrapposti. Marocco alleato chiave per la Spagna (basti pensare al questione di Ceuta e Melilla e le politiche di esternalizzazione delle frontiere, o le concessioni di pesca in alto mare) e per gli Stati Uniti, interessati non solo alle risorse naturali del Sahara occidentale ma anche ad avere fedeli alleati nella lotta al terrorismo islamico. E poi c’è l’Algeria che utilizza la carta della decolonizzazione e dell’autodeterminazione dei Sahrawi per provare a conquistare uno sbocco a mare sull’Oceano Atlantico. La Unione Europea è spaccata sulla vicenda Sahrawi con la Francia alleata storica del Marocco e non ha trovato di meglio che affidare alla Lady Ashton una dichiarazione di basso profilo, Intanto a New York dovrebbero riprendere dei negoziati ufficiali tra Polisario e Marocco, che a questo punto obbligherà i Sahrawi a negoziare con la pistola alla tempia. Mentre El Aayoun brucia. Spostiamoci di continente e le notizie dalla Birmania (si noti bene non usiamo il termine Myanmar coniato dalla dittatura militare) ci raccontano di un esodo di profughi verso la Thailandia, dopo lo scontato esito delle elezioni politiche truffa,pilotate dalla giunta militare – ma del resto era chiaro fin dall’inizio per chi aveva osservato da vicino il processo costituzionale manovrato ad arte dai generali. A migliaia stanno fuggendo per il timore del riaccendersi della guerra civile tra truppe governative e ribelli di varie etnie. Ed il premio nobel per la Pace Aung San Suu Kyi nonostante gli annunci della giunta resta agli arresti , dopo l’ennesimo bluff verso la comunità internazionale. Anche se si susseguono voci i una sua imminente liberazione, Ma la giunta birmana ci ha abituato a questi continui ed estenuanti “tira e molla”. La Cina considera la Birmania alleato strategico, per il controllo di quello scacchiere cruciale per le rotte mercantili e per le sue risorse energetiche. Né più e né meno come le imprese transnazionali occidentali che non hanno avuto l’ardore di disinvestire dal paese, e con l’Unione Europea che a parole sostiene la democrazia ma nei fatti mette in discussione lo strumento delle sanzioni mirate per optare per un approccio più dialogante. Una sorta coinvolgimento costruttivo simile a quello dietro il quale finora si è trincerata anche la Thailandia, con migliaia e migliaia di profughi birmani da anni accampati a Mae Sot e lungo la frontiera. Migliaia di uomini, donne bambini, le cui vite e la cui dignità vengono schiacciate anche in questo caso dagli interessi geopolitici contrapposti di varie potenze mondiali e regionali. Le donne e gli uomini i bambini e gi anziani Sahrawi e birmani non possono essere lasciati in balia di una storia fatta dai potenti, né semplicemente liquidati come vittime ineluttabili del loro destino. Anzi una politica estera di sinistra, deve, come suggerisce la filosofa Judith Butler, nella sua ultima fatica “ Frame of War” “Cornici di Guerra”, saper cogliere l’importanza della nonviolenza e per far ciò superare la visione secondo la quale quelle popolazioni sono vittime predestinate alla guerra e necessitanti aiuto. Piuttosto ogni possibile soluzione politica deve partire dalla centralità della loro dignità in quanto essere umani, il cui destino non deve essere necessariamente quello di vittime di guerra o violazione dei propri diritti. Ed allora anche noi, che viviamo lontani da quei drammi dovremmo fare un passo in avanti e fondare la nostra opzione nonviolenta sul riconoscimento che anche noi potremmo un giorno essere vulnerabili, e che finora ci salviamo solo perché siamo in paesi più ricchi, più armati, più potenti. Ecco perché oggi quello che succede in Sahara Occidentale ed in Birmania ci deve toccare da vicino in quanto amanti del diritto, della libertà e dei diritti umani, della nonviolenza e della soluzione diplomatica dei conflitti, Ma anche perché da una nuova lettura di quegli eventi possiamo trarre spunto per un’ipotesi di sinistra che metta al centro la dignità delle persone e sia all’altezza delle sfide contemporanee.

Francesco Martone

Forum sulle Politiche Internazionali di Sinistra Ecologia e Libertà

venerdì 30 luglio 2010

Todos somos Arizona

Stamattina mi sono alzato, come di norma ho letto i giornali online, nei quali si parla del duello Fini-Berlusconi, scorso i post dei miei amici su Facebook, e visto immagini postate da Sharon he vorrei vedere anche qua da noi. Sono le immagini di migliaia e migliaia di migranti latinos che marciano per le strade di New York, Chicago, Detroit, San Francisco, Los Angeles, persone incatenate davanti ad una prigione dell’Arizona per evitare altre deportazioni, striscioni calati dal ponte di Oakland contro la legge razzista e liberticida approvata dal Senato dell’Arizona. (http://www.flickr.com/photos/puenteaz/sets/)
Un movimento nazionale e plurinazionale, organizzato, con il sostegno dei movimenti per le libertà civili statunitensi. Un movimento di base di donne ed uomini che rivendicano direttamente i loro diritti di cittadinanza. Mi domando dove sia Barak Obama in tutto questo. E mi viene alla mente un bel libro che raccoglie una conversazione tra Judith Butler e Gayatri Spivak, sulla fine dello stato nazione. Lì si discute del paradosso dei migranti latinos che cantano in spagnolo l’inno americano per rivendicare il proprio diritto ad appartenere a quella comunità, che grazie alla loro presenza si trasforma in maniera irreversibile. Oppure alle parole di Alain Touraine quando tratta dei movimenti dei sans-papier nel suo saggio sulle strategie di resistenza al neoliberismo. Insomma la storia del movimento migrante ci racconta molte cose, ci sfida a pensare nuove forme di azione politica, immaginare percorsi nei quali si mette al centro il protagonismo in prima persona degli aventi diritto, di coloro che hanno diritto alla mobilità ed alla cittadinanza. Poi mi metto a pensare a noi, che con Sinistra, Ecologia e Libertà stiamo provando a costruire un progetto politico, uno spazio comune nel quale si possa ritrovare chi oggi vuole impegnarsi per una società più giusta, pacifica, equa e pulita. Ripercorro le immagini delle riunioni alle quali ho partecipato, mi preoccupa l’uniformità cromatica delle nostre epidermidi. Mi arrovella il cervello il timore che questo partito in costruzione forse inconsapevolmente (e questo sarebbe ancor più grave), non riesca a rappresentare la vera società italiana, ormai multietnica e pluriculturale. Un partito di soli “italiani” e bianchi (a parte qualche eccezione), che tratta di questioni quali l’immigrazione, come se fossero solo relative all’antirazzismo o alla promozione di un nuovo “welfare”, (approccio di protezione) o al contrasto alla repressione (comunque sia accettando il confronto sul piano della sicurezza). Che non ascolta le voci dei diretti interessati e non sa fare uno scatto di avanti, provando a costruire uno spazio d’iniziativa comune con i migranti e con le seconde generazioni,. Questo sarebbe ancor di più il mio partito, un soggetto plurale e “meticcio”, che offre opportunità di azione innovativa, radicale, inclusiva ed includente. E che non teme di contemplare tra gli strumenti della sua azione politica anche sane pratiche di disobbedienza civile ed azione diretta nonviolenta.

giovedì 15 luglio 2010

Una soluzione diplomatica e nonviolenta alla crisi iraniana

Scambi di spie, uno scienziato iraniano rifugiato nell’ambasciata pakistana a Washington: a leggere i giornali dei giorni scorsi pareva essere ritornati ai tempi della guerra fredda, in un copione degno dei best seller di David Forsyth o Tom Clancy. Ad uno sguardo più attento da questi episodi si snodano questioni complesse che rappresentano alcune tra le più grandi sfide che la comunità internazionale si trova a dover affrontare. Prendiamo il caso di Shahram Amiri, scienziato nucleare dell’Università di Malek Ashtar, vicina alle Guardie rivoluzionarie iraniane e scomparso misteriosamente durante un pellegrinaggio in Arabia Saudita nel giugno 2009. Gli Stati Uniti hanno sempre negato la sua esistenza, fino a quando il governo iraniano non ha prodotto una videocassetta contenente, a loro avviso, le prove della sua sparizione. Un episodio che, assieme alle ultime rivelazioni di Amiri ormai tornato in patria, potrebbe inasprire le già delicate relazioni tra USA ed Iran. Solo quale settimana fa vennero approvate una serie di nuove sanzioni intese a ricondurre al negoziato il governo Ahmadinejad che a sua volta continua a mostrare i muscoli, ed a riaffermare la propria determinazione a proseguire con il programma di arricchimento dell’uranio. Il Consiglio di Sicurezza aveva adottato a giugno una risoluzione, seguita poi dall’Amministrazione Obama che estendeva le sanzioni anche a quelle imprese non-statunitensi che intrattengono relazioni con l’Iran, in particolare nei settori del petrolio e del gas. Stesso approccio ha seguito l’Unione Europea, che ha esteso le sanzioni alle tecnologie ad “uso duale” , quelle cioè che possono essere utilizzare a scopi civili e militari. Come al solito da varie parti si sono susseguite considerazioni sull’efficacia o meno del regime delle sanzioni, e sulla necessità di accompagnarle ad uno sforzo diplomatico per riportare l’Iran sul tavolo della trattativa, se non sull’ineluttabilità dell’opzione militare. Teheran a sua volta ha annunciato l’intenzione di riaprire i negoziati con una lettera all’Unione Europea, ai primi di luglio. Se così fosse ci sarebbe ragione di essere ottimisti. Le sanzioni ricondurrebbero il regime a trattare sul programma nucleare civile ed i rischi di una escalation militare nella zona sarebbero sventati. Invece il combinato disposto di varie circostanze rendono oggi la questione estremamente complicata. Da una parte il capo del governo russo Medvedev critica le sanzioni adottate all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza e lancia l’allarme sulla possibilità che l’Iran possa presto costruirsi la bomba. Dall’altra le dichiarazioni senza precedenti del Ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, che per la prima volta ha sostenuto pubblicamente la necessità dell’opzione militare , in caso la diplomazia non riuscisse a fare il proprio corso. Che tale dichiarazione provenga da un alto rappresentante di un paese del Golfo è significativo, visto che nelle intenzioni del governo di Teheran, il golfo Persico è l’area di massima rilevanza sulla quale affermare la propria egemonia politica e militare. Un’area, vale la pena di ricordare - nella quale anche la Francia ora opera attivamente per esportare – soprattutto negli Emirati - tecnologia nucleare civile. Il rituale tintinnare di scudi e sciabole che si ripete ciclicamente ogni qual volta di discute di come prevenire l’escalation militare dell’Iran, si è scontrato finora sempre con il freddo calcolo di chi nell’amministrazione Obama è cosciente degli effetti di un possibile attacco militare, per mano israeliana o americana, in Libano, come a Gaza, in Iraq come in Afghanistan. Un effetto a catena ingestibile per un paese, gli Stati Uniti, già “overstretched”, ovvero impegnati fino all’osso in due guerre senza fine nella regione. C’è però un elemento che può essere determinante stavolta. Come si sa la politica estera di un paese è sempre strettamente connessa con quella interna. Spesso ci s’imbarca in avventure fuori confine per far passare in secondo piano le difficoltà nella politica interna. Spesso invece l’avventurismo oltre confine incide e indebolisce ulteriormente la tenuta del governo all’interno. È il caso di Obama, che si avvicina alle elezioni di “mid-term” dell’autunno con il rischio di perdere la maggioranza nel Congresso, e trasformarsi in quello che in gergo si chiama “lame-duck”, anatra zoppa. Ed allora la politica estera , oltre che la riforma sanitaria diventeranno le cartine al tornasole della solidità dell’amministrazione e verranno utilizzate come una clava dai repubblicani, e da quelle forze conservatrici che si stanno coagulando nella galassia contigua al “TEA Party”. Il dossier Iran come detto è complesso legato a doppio filo ai destini di altri paesi ed aree in conflitto, dalla Palestina , all’Iraq ed all’Afghanistan. In quest’ultimo , la tanto pubblicizzata offensiva finale contro la roccaforte di Kandahar è stata rinviata a data da definire, e le difficoltà nelle quali versano le truppe ISAF è evidente. Dell’Iraq neanche a parlarne: l’ultima visita del vice presidente Joe Biden è stata occasione per constatare l’evidente fallimento dell’operazione di costruzione a tavolino della democrazia. Sul conflitto israelo-palestinese la posizione di Obama per una soluzione pacifica ed in sostegno all’opzione Due Popoli-Due Stati, nonché il forte avvicinamento all’Autorità Nazionale Palestinese, sono evidenti, ed è chiaro che una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese potrebbe anche influire positivamente sul dossier iraniano. E l’Europa? Oltre alle sanzioni approvate, l’Europa non potrebbe provare a svolgere un ruolo di mediatore politico e diplomatico insieme agli Stati arabi? Il rilancio dell’opzione negoziale potrebbe sparigliare le carte, e aprire un canale che scongiurerebbe le ipotesi più rischiose di intervento militare. Una carta da giocare esiste, ed è la recente dichiarazione del Consiglio di Sicurezza , contestuale rispetto alla revisione del Trattato di Non-Proliferazione nucleare, che sostiene un processo per la creazione di una zona libera da armamenti nucleari in tutto il Medio Oriente. Questo comporterà però che Israele s’impegni a smantellare i suoi arsenali. L’Egitto che presiede il gruppo dei non-allineati ha già fatto circolare una proposta per convocare il prossimo anno una conferenza per costruire una zona libera di “armi di distruzione di massa” (incluse le armi chimiche) nel Medio Oriente invitando anche Israele, e l’Europa dovrebbe sostenere tale processo. Oltre che con la diplomazia, e la mediazione, l’Iran va affrontato anche e soprattutto comprendendone le ragioni e la mentalità.

Nel suo “The Enemy we Know” (Il nemico che conosciamo) l’ex-agente della CIA Robert Baer, ci dice che gli Stati Uniti non sono stati mai in grado di capire l’Iran, e mantengono una visione che richiama l’epoca degli Ayatollah e dell’integralismo islamico. Baer invece consiglia di andare oltre: “Quello che si trova in un Iraniano al di là dell’Islam, è una sfida profonda al colonialismo, una forma antica di nazionalismo. Andando ancora più a fondo nell’anima dell’Iran, si trova un gusto ritrovato per l’impero. Ma l’Iran non è la nuova Roma, intenta alla pura conquista, alla diffusione della propria cultura, agli insediamenti ed alla conversione religiosa. …ciò che è necessario capire oggi è che l’Iran crede profondamente nel proprio diritto all’impero”. E’ evidente che per Teheran il braccio di ferro sul nucleare è principalmente una mossa intesa a riaffermare il proprio ruolo ormai consolidato di potenza regionale piuttosto che l’intenzione di dotarsi della bomba. Invece di prospettare l’ipotesi di una soluzione militare, sarà allora necessario ed opportuno insistere con la via pacifica del negoziato, cogliendo l’occasione per rilanciare un’iniziativa politica per tutto il Medio Oriente, dalla sua denuclearizzazione fino alla soluzione definitiva dei conflitti che da anni ormai affliggono i suoi popoli.

sabato 19 giugno 2010

Un bilancio del Vertice Eurolatinoamericano di Madrid, Maggio 2010

Enlazando Alternativas: un bilancio.

A cura di AMISnet • 24 Maggio 2010

A cura di Elise Melot e Ciro Colonna

Chiudiamo oggi le nostre corrispondenze dal vertice tra Unione Europea e paesi latino americani e caraibici che si è tenuto a Madrid. Nei giorni scorsi, oltre al vertice ufficiale, abbiamo largamente documentato i lavori del contro-vertice Enlazando Alternativas. Proviamo oggi a tracciare un primo bilancio critico delle due iniziative che si sono svolte in parallelo, bilancio che sarà necessariamente parziale e non esaustivo.
Innanzitutto il vertice ufficiale che – nel contesto della crisi di sistema che coinvolge entrambi i continenti in questione, pur con importanti specifiche territoriali – è sembrato un incontro quanto mai “blindato”, in cui la parte europea aveva molto chiaro quali fossero i propri obiettivi (ottenere maggior spazio di manovra per le proprie aziende in latino america ed irrobustire la propria penetrazione economica e commerciale). Sul fronte latino americano le posizioni dei governi “compiacenti” sono apparse più che inclini a sottoscrivere gli accordi proposti dalla parte europea e quelle dei governi meno “allineate” dotate di poche possibilità di sottrarsi o di incidere sui processi decisionali. Così, le negoziazione in vista dalla firma di un accordo di libero scambio di merci tra l’Unione Europea e il Mercosur – la comunità economica che comprende l’Uruguay, il Paraguay e due giganti dell’economia latino-americana quali il Brasile e l’Argentina – sono stati riavviati. Inoltre, durante il vertice, l’Europa ha ottenuto la firma di un accordo commerciale con i paesi dell’America Centrale ma anche con la Colombia e il Perù.

D’altro canto il contro-vertice si è sviluppato, secondo uno schema ormai consueto per i grandi forum sociali, nell’articolazione di numerosi laboratori, nei quali realtà anche molto distanti tra loro (non solo dal punto di vista geografico) hanno provato a mettere in comune pratiche e lessico per affrontare problemi di portata globale.
Ci sentiamo di annotare quanto la differenza e la distanza tra i vari movimenti che lo hanno dato vita al Forum abbia purtroppo giocato un ruolo significativo, nei termini di una difficoltà a parlare un linguaggio comune e a costruire un’efficace progettualità politica e di intervento. Ricordiamo che l’incontro è arrivato alla sua 4 edizione, e che già dalla seconda il Tribunale Permanente dei Popoli vi partecipa. Durante questi anni, il lavoro della rete bi-regionale e del Tribunale, basato sullo studio scrupoloso di casi specifici, ha permesso lo sviluppo di analisi molto precise delle dinamiche con effetti spesso disastrosi per le popolazioni locali, in atto in America Latina, di cui sono attori le aziende europee affiancate dalle stesse istituzioni.
Anche su questo fronte sono però probabilmente mancate iniziative di comunicazione con il vertice ufficiale, che infatti si è svolto senza prendere nella benchè minima considerazione i lavori di Enlazando Alternativas.

Questi elementi inducono a ragionare sull’opportunità di ripensare la forma onnicomprensiva in cui si svolgono alcuni di questi grandi forum, forma che sembra sempre più essere autoreferenziale e incapace di incidere sulle dinamiche reali.
Abbiamo parlato con Francesco Martone, membro del Tribunale Permanente dei Popoli, per cercare di capire insieme a lui quali possano essere le criticità e le prospettive di sviluppo e di rilancio di questi percorsi.

http://amisnet.org/agenzia/2010/05/24/enlazando-alternativas-un-bilancio/