mercoledì 30 marzo 2011

Libia, "the devil is in the detail"

Credo che non si possa articolare un giudizio politico sull’intervento militare internazionale in Libia limitandosi ad opporsi alla guerra, né risolvere la complessità delle vicende che stanno attraversando il Maghreb ed il Mashrek con valutazioni e posizioni che rischiano di mettere in secondo piano la profonda spinta innovatrice di quei popoli, utilizzando categorie proprie dell’anti-imperialismo, o del pacifismo ideologico. Credo invece che le vicende del Maghreb e del Mashrek segnino un importante cambio di passo, e con esso la crisi della realpolitik, giacché dimostrano che sono i popoli che fanno la storia a prescindere dal gioco dei grandi interessi contrapposti. Indubbiamente la specificità della situazione libica, nella quale ci troviamo di fronte a moltitudini che hanno preso le armi per liberarsi da quel regime, e le risposte molto discutibili della comunità internazionale oggi alimentano una discussione all’interno ed all’esterno del movimento pacifista, che si polarizza sempre più e rende difficile la ricerca di un punto di sintesi e convergenza. Da chi rigetta la guerra senza se e senza ma, a chi invece sostiene l’intervento internazionale a fianco dei “nuovi resistenti al fascismo verde di Gheddafi” a chi vede in Gheddafi uno dei residui di un passato anticoloniale ed antiimperialista. Fatto sta che nella discussione sulla Libia oggi o sei bollato come “anima bella” o come guerrafondaio. Cosa ci sia nel mezzo di queste disquisizioni puramente nostrane non è ancora dato sapere. Certo è che così scompaiono dalla discussione quei civili per i quali era suppostamente stato approvato l'intervento militare, presi ora tra i fuochi incrociati di una guerra civile ormai internazionalizzata e tuttora vittime di una spietata repressione da parte delle forze "lealiste". Invece se si parla del popolo libico si inizia a mettere in discussione la natura degli insorgenti, che siano giovani democratici, riciclati del vecchio potere, elite progressiste, o cellule salafite vicine ad Al Qaeda, come se questo poi risolvesse il vero problema che è alla base della vicenda libica, e sulla quale sembra nessuno voglia focalizzare l’attenzione. Quello che dovrebbe interrogare davvero il mondo pacifista oggi riguarda un elemento di grande novità insito nella risoluzione 1917 e che marca un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite. Come intitola un commento lo Spiegel online, le Nazioni Unite hanno abbandonato il principio della pace per quello dei diritti umani. Forse questa affermazione è un po’ forzata ma certamente è la prima volta che viene nei fatti messo in pratica il principio della Responsibility to Protect (R2P). Questo principio, sviluppato in seguito alle stragi di Srebrenica e Ruanda, delinea un approccio che mette al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati. Insomma il fondamento base di una politica internazionale ispirata a principi etici e morali. Su questo punto credo si debba far chiarezza. Non possiamo rimanere impassibili di fronte a violazioni ripetute dei diritti umani, né di fronte a crimini contro l’umanità, e credo che in linea di principio si possa condividere il passaggio dal principio della “non ingerenza” quello della “non-indifferenza” ed anche la possibilità che la comunità internazionale possa intervenire qualora il governo di uno stato venga meno alle sue responsabilità nei confronti dei propri cittadini. Il problema vero è se da un principio condivisibile si passa poi a pratiche o modalità di applicazione che rischiano di creare pericolosi precedenti. E’ questo il nocciolo del problema nel caso della Libia. Il principio della R2P può funzionare solo in un quadro nel quale se ne prevenga l’uso in maniera selettiva, e nel quale la sua applicazione non sia fondata sugli strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza. Purtroppo questo è quello che sta avvenendo in Libia. Le modalità con le quali si è giunti alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza evidenziano come fin dall’inizio si volesse dare massima enfasi allo strumento militare (no fly zone, no drive zone etc) piuttosto che agli strumenti politici, ed economici, e di mediazione internazionale. Inoltre, il fatto che tale decisione fosse lasciata al Consiglio di Sicurezza, che è noto essere organismo nel quale 5 superpotenze fanno la differenza, rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali. Ecco il vero paradosso della vicenda. Nel quadro di processi epocali di trasformazione sociale che evidenziano i limiti e le ipocrisie della realpolitik, quegli stessi attori politici che fino a poco tempo prima ne erano i principali fautori, oggi pensano di poter risolvere tale contraddizione schierandosi in difesa di popolazioni civili minacciate. Allora è chiaro che la prima vittima di questa vicenda rischia di essere proprio la “responsibility to protect” visto che viene utilizzata nei fatti come pretesto per sostenere un cambio di regime eterodiretto. In futuro sarebbe estremamente difficile in casi ancor più evidenti e gravi invocare tale principio visto che secondo il precedente che viene stabilito nel caso libico, questo implicherebbe comunque come ultima istanza l’uso della forza militare e degli strumenti della guerra per rimuovere un regime, piuttosto che difendere le popolazioni civili . Per non parlare poi del precedente che vede una coalizione dei volenterosi guidata dalla Francia e dall’Inghilterra prendere l’iniziativa militare per poi passare in un secondo tempo alla NATO. Insomma tutta la questione viene risolta all’interno di un quadro di “realpolitik” , in strutture puramente militari che rispondono a logiche di sicurezza improntata sull’uso delle armi, magari le più sofisticate possibili, e sulla sconfitta del nemico. Mary Kaldor in un suo recente scritto ha chiaramente evidenziato il rischio di una guerra umanitaria con tutte le conseguenze che questo comporterebbe sulle rivolte democratiche in altri paesi, sulla situazione dei civili in Libia e sulla tenuta del diritto all’ingerenza umanitaria. Che fare allora? Quale il ruolo del movimento pacifista? Certamente in prima istanza sarà necessario attivarsi per un cessate il fuoco immediato e la sospensione di operazioni militari che ormai stanno degenerando in sostegno attivo ad una delle parti in causa in un conflitto interno, per aprire un processo di mediazione internazionale, e nel caso considerare la possibilità di una forza ONU di interposizione composta da paesi che non hanno partecipato all’operazione Odyssey Dawn. E poi più in generale confrontarsi con la novità che questo intervento militare in Libia propone, e con le sfide politiche e intellettuali che rappresenta. Andrà quindi riaperta una discussione sul tema della riforma delle Nazioni Unite che con questa vicenda rischiano di uscirne ulteriormente indebolite se non trasformate nella loro ragion di esistere. Andrà formulato un pacchetto di ipotesi di riforma che prevedano ad esempio un ruolo centrale dell’Assemblea Generale nel democratizzare i processi decisionali sul ricorso alla R2P, la creazione di strumenti di interposizione ed intervento a difesa dei civili che non siano lasciati in mano della NATO, ed anche l’adozione di politiche di prevenzione dei conflitti che possano permettere alla comunità internazionale di attivarsi in anticipo con misure politiche ed economiche per prevenire possibili escalation che mettano a rischio la vita di civili. Oltre questo resta il nostro impegno a sostenere politiche di accoglienza nei confronti di coloro che fuggono dalla guerra e di assistenza umanitaria, oltre che lasciare aperto un canale di dialogo, discussione e scambio reciproco tra le due sponde del Mediterraneo, nella prospettiva di costruire - come evocato a suo tempo da Alexander Langer - un nuovo progetto di fratellanza euromediterranea.

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